TOUR: A REIMS ANCORA ALE-JET

Alessandro Petacchi concede il bis sul traguardo di Reims, Fabian Cancellara rimane in maglia gialla

Alessandro PetacchiDopo le Ardenne e il pavé, in vista delle prime fatiche alpine, il gruppo affronta una quarta tappa in linea che si prospetta tranquilla: i 193 km tra Cambrai e Reims presentano infatti un unico gran premio della montagna di quarta categoria attorno al quarantesimo chilometro di gara. L’arrivo nella città che Jean de la Fontaine definì “l’ornamento e l’onore della Francia” solletica dolci ricordi agli appassionati italiani, visto che qui il treno di Forlì Ercole Baldini vinse il Campionato del Mondo del 1958. Nel plotone sono rimasti 193 corridori, perché la tappa di ieri non è stata portata a termine dal francese David Le Lay (Ag2r-La Mondiale) e dal lussemburghese Frank Schleck (Saxo Bank): entrambi hanno riportato la frattura della clavicola.

Come sempre, appena il direttore di corsa Christian Prudhomme abbassa la bandiera di partenza si scatena la bagarre, nel tentativo di portar via la fuga buona. Il primo a rompere gli indugi è Dimitri Champion (Ag2r-La Mondiale), già campione nazionale francese nel 2009; lo seguono il connazionale Nicolas Vogondy (Bbox Bouygues Telecom), per due volte vincitore del Tricolore d’Oltralpe, il giovane fiammingo Francis de Greef (Omega Pharma-Lotto) e i baschi Iban Mayoz (Footon-Servetto) e Iñaki Isasi (Euskaltel-Euskadi). I primi quattro sono ottimi passisti, mentre l’esperto Isasi, trentatré anni, è dotato di un discreto spunto veloce, sebbene non abbia ancora conseguito successi in carriera. Dietro, la HTC-Columbia e la Lampre-Farnese Vini non lasciano però troppo margine all’azione dei fuggitivi, intenzionate a portare allo sprint rispettivamente un Mark Cavendish finora in ombra e un brillante Alessandro Petacchi: in particolare, sono il bielorusso Kanstantsin Sivtsov e il promettente sloveno Grega Bole a fare il ritmo per decine di chilometri. Il vantaggio non sale mai sopra i 90 secondi, anche se il ricongiungimento arriva a soli 3000 metri dalla conclusione. Né la Lampre né la HTC riescono ad imporre un vero “treno” per i rispettivi velocisti: tuttavia, Alessandro Petacchi riesce nuovamente ad avere la meglio, ancora una volta con una volata lunga, lunghissima, tutta classe ed esperienza, che non lascia scampo ai rivali. Cavendish smette addirittura di pedalare a una cinquantina di metri dal traguardo, mentre Farrar, ancora dolorante per la caduta di due giorni fa, lascia disputare lo sprint ai compagni Hunter e Dean, che di fatto sono gli unici atleti ad impensierire Ale-Jet, al sesto successo in carriera al Tour de France. Eppure molti, viste le difficoltà avute nella prima parte di stagione, lo davano per finito: del resto, in quanti arrivano a 36 anni ancora così competitivi ad alti livelli? Dopo la linea d’arrivo lo spezzino, quasi incredulo per quest’altra grande vittoria, abbraccia e ringrazia ad uno ad uno tutti i suoi compagni, dimostrando coi fatti il suo celeberrimo soprannome di “Velocista gentiluomo”.

Domani 187.5 km tra Épernay e Montargis: tappa leggermente vallonata in partenza, con due colli di quarta categoria, ma i cento chilometri finali sono assolutamente tranquilli, adatti per un’altra volata tra gli sprinter.

Mercoledì 7 luglio 2010
Tour de France, quarta tappa
Cambrai – Reims (153.5 km)

ORDINE D’ARRIVO:

Ciclista Squadra Tempo
1. Alessandro PETACCHI Lampre-Farnese Vini 3h34’35”
(media 42,9 km/h)
2. Julian DEAN
Garmin
stesso tempo
3. Edvald BOASSON HAGEN
Team Sky stesso tempo
4. Robbie MCEWEN
Team Katusha stesso tempo
5. Robert HUNTER
Garmin stesso tempo

CLASSIFICA GENERALE:

Ciclista Squadra Tempo
1. Fabian CANCELLARA Saxo Bank 18h28’55”
2. Geraint THOMAS
Team Sky a 23″
3. Cadel EVANS
BMC a 39″
49. Ivan BASSO
Liquigas Doimo a 3’20”

MAGLIA VERDE (punti):

Ciclista Squadra Punti
1. Thor HUSHOVD Cérvelo 80
2. Alessandro PETACCHI Lampre-Farnese Vini
70
3. Robbie MCEWEN
Team Katusha 62

MAGLIA A POIS (montagna):

Ciclista Squadra Punti
1. Jérôme PINEAU Quick Step 13
2. Sylvain CHAVANEL
Quick Step 8
3. Rein TAARAMÄE Cofidis 8

MAGLIA BIANCA (giovani):

Ciclista Squadra Tempo
1. Geraint THOMAS Team Sky 18h29’18”
2. Andy SCHLECK
Saxo Bank a 46″
3. Roman KREUZIGER
Liquigas-Doimo a 2’01

Marco Regazzoni

SUMO-GATE: PIÙ SONO PESANTI, PIÙ RUMORE FANNO CADENDO

Scommesse clandestine e collusione con la mafia: la tradizione del sumo, in piena crisi di identità, viene travolta dall’ennesimo scandalo.

Per un giapponese il sumo non è solo uno sport. Il sumo è la storia del Giappone, a partire da riti celebrati contro una natura che sovente mostra il suo volto più feroce (terremoti con relativi tsunami e tifoni, ad esempio), simboleggiata da spiriti maligni in lotta contro monaci che si facevano montagne (la classica immagine della grande onda che si infrange contro il Fuji). Successivamente è divenuto uno spettacolo per gli imperatori, poi lo sport dei samurai, infine è nato il sumo moderno. Il lottatore (rikishi), nella sua vita di continuo allenamento e meditazione, è la perfetta sintesi tra un monaco guerriero e un samurai, additato dai giapponesi quale esempio di rettitudine e incarnazione del codice samuraico (bushidō) e della millenaria tradizione shintoista. Un esempio della sacralità e del rigore del sumo è dato dagli oggetti che l’arbitro tiene in mano: il ventaglio, simbolo legato all’antica nobilità imperiale, e il coltello che anticamente gli sarebbe servito per il seppuku (il suicidio del samurai, in occidente erroneamente chiamato harakiri), qualora avesse arbitrato male.

Con queste premesse, è più facile comprendere l’ondata di sdegno che si è sollevata tra gli estimatori del sumo. Dopo le vicende negative che hanno coinvolto la federazione di sumo negli ultimi anni, in questi giorni assistiamo al ritiro del campione Asashōryū per comportamento disdicevole a seguito dell’ennesima rissa, e al coinvolgimento di 65 lottatori su 800 che compongono la federazione in un giro di scommesse clandestine, gestite dalla mafia locale, la Yakuza. È doveroso precisare che le scommesse erano esclusivamente su incontri di baseball e altri sport. Non risulta che siano stati combinati incontri di sumo, quindi tutta la vicenda gravita intorno all’onorabilità dei rikishi. Un duro colpo per lo sport tradizionale che, già da diverso tempo, deve fare i conti con una fase di declino: sempre meno sono i giovani di un Giappone moderno disposti a dedicare la propria vita al sumo. Il rigidissimo stile di vita del rikishi infatti è frutto di una visione antica del mondo e impone una vita di clausura, oltre a comportare scarsa longevità per gli atleti, che pagano in termini di problemi cardiaci e circolatori l’alimentazione necessaria per raggiungere il necessario physique du rôle. Essere un rikishi significa dedicarsi anima e corpo alla tradizione giapponese, in un cammino che non offre alternative al sumo, una volta intrapreso. Significa essere uno dei simboli più puri della millenaria tradizione nipponica.

Crisi all’interno della quale si colloca anche la figura di Asashōryū Akinori, personaggio controverso che ha scosso diverse volte l’establishment del sumo. Nato nella capitale mongola Ulan Bator, Asashōryū è stato il più precoce sumotori della storia, diventando il 68° Yokotsuna (il grado più alto nella gerarchia del sumo, raggiunto nella storia solo da 75 lottatori), primo di nazionalità mongola, a soli ventidue anni. Dolgorsürengiin Dagvadorj, questo il suo vero nome (l’altro, Asashōryū, significa “Drago blu del mattino”), non particolarmente amato dal pubblico per il fatto di non aver mai richiesto la cittadinanza giapponese, ha infranto più volte i rigidi codici del sumo: sonore proteste con gli arbitri, schiaffi agli avversari fuori dal dohyō (il ring del sumo), sospetti di combine, esultanze eccessive, episodi di danneggiamenti nei confronti del suo Oyakata (maestro e allenatore). Oltre alle squalifiche: nel 2003 per aver strattonato un avversario per i capelli durante un incontro, nel 2007 per aver saltato, con un falso certificato medico, un torneo promozionale (primo Yokotsuna a subire una squalifica).

Nel veder messa in dubbio l’onorabilità dei rikishi l’opinione pubblica ha risposto negativamente, inviando messaggi di sfiducia e biasimo alla federazione e ai media. Messaggi che hanno indotto gli sponsor a ritirarsi e, successivamente, la televisione pubblica NHK ad annullare le dirette del torneo di Nagoya, trasmesse ininterrottamente dal 1957, anno in cui la televisione sbarcò in Giappone. È molto probabile che gli incontri, in calendario dall’11 al 25 luglio, saranno disertati dal pubblico in segno di protesta verso chi sta infangando la tradizione. Il Giappone non è nuovo a casi di corruzione, scandali e connivenze con la Yakuza: tutti eventi mal visti dall’opinione pubblica che di prassi pretende la testa di chi si macchia di tali reati, in particolare quando il buon nome del Giappone e delle sue tradizione viene infangato. A gran voce si chiede rifondare la federazione ed epurare chiunque sia coinvolto in vario titolo negli scandali o colluso con la Yakuza, per salvare la sacralità di uno sport che di fatto è una vera cerimonia religiosa, in cui anche il dohyō è strutturato come un tempio shintoista. In un paese in cui l’onore è ancora un valore e il sentimento nazionalistico è vivo e forte, è inaccettabile che sia infangato uno dei simboli del paese. Chi ha sbagliato, sicuramente, pagherà e a poco serviranno le doverose e inevitabili scuse dei lottatori coinvolti.

Marco D’Urso

ADDIO HERBERT ERHARDT

Campione del Mondo senza giocare nemmeno un match e in seguito capitano della Germania Ovest: si è spento Erhardt.

Mentre la Germania demoliva l’Argentina 4-0, un pezzo della sua storia se ne andava, a soli tre giorni dal suo ottantesimo compleanno: Herbert Erhardt. Nato il sei luglio 1930 a Fürth, dove poi si sarebbe spento, iniziò la sua carriera nella squadra locale a diciott’anni. Difensore centrale, duro negli interventi e punto di riferimento dei compagni sul campo, fece la sua prima apparizione con la maglia della Germania Ovest nel 1953, guadagnando poi la convocazione per la Coppa del Mondo dell’anno successivo, che i tedeschi vinsero. Sebbene l’allenatore Sepp Herberger avesse considerato l’idea di utilizzarlo nella controversa finale con l’Ungheria, Erhardt non scese mai in campo durante quel Mondiale, stabilendosi come punto fermo della nazionale solo successivamente, nell’inedito ruolo di stopper. Nel 1962 si trasferì al Bayern Monaco, dove terminò la sua carriera due anni più tardi, e si ritirò dalla nazionale, dopo 50 partite, sedici delle quali disputate con la fascia di capitano al braccio.

Damiano Benzoni

ALMANACCO DI SUDAFRICA 2010: 6 LUGLIO

La storia essenziale della Coppa del Mondo di Sudafrica 2010 raccontata, giorno dopo giorno, partita dopo partita, attraverso i tabellini e le reazioni della stampa delle nazioni in campo: una carrellata di prime pagine che fornisce uno spaccato di cultura sportiva, emozioni, tecnica giornalistica e non, design editoriale che permette di costruire un racconto non convenzionale della Coppa del Mondo 2010.



URUGUAY – OLANDA 2-3 (1-1)

URUGUAY: Muslera, M.Pereira, Godín, Victorino, Cáceres, Pérez, Gargano, Arévalo, Á.Pereira (78′ Abreu), Cavani, Forlán (c) (84′ S.Fernández).

OLANDA: Stekelenburg, Boulahrouz, Heitinga, Mathijsen, van Bronckhorst (c), van Bommel, de Zeeuw (46′ van der Vaart), Robben (89′ Elia), Sneijder, Kuyt, van Persie.

ARBITRO: Irmatov (UZB)

GOL: 18′ van Bronckhorst (NED), 41′ Forlán (URU), 70′ Sneijder (NED), 73′ Robben (NED), 92′ M.Pereira (URU)

NOTE: ammoniti M.Pereira, Cáceres (URU), van Bommel, Sneijder, Boulahrouz (NED).

Volkskrant
El Observador
Republica
Trouw

Massimo Brignolo

GLI ORANJE IN FINALE

L’Olanda è la prima finalista del Mondiale sudafricano, dopo aver battuto un Uruguay mai domo 3-2.

Era il 1975 quando Bert van Marwijk fece la sua prima (ed unica) apparizione con la maglia della nazionale olandese, oggi sotto la sua guida. Erano gli anni dell’Olanda del calcio totale, degli Oranje di Cruijff, Resembrink e Neeskens che in campo si esprimevano con una precisione spaventosa, come se i calciatori fossero gli ingranaggi di un meccanismo che non si ingolfava mai. Una squadra che rivoluzionò il modo di giocare a calcio ma che, allo stesso tempo, falliva puntualmente l’appuntamento decisivo, come accadde nel 1974 e nel 1978. Adesso van Marwijk può condurre gli Oranje laddove neppure il profeta del calcio totale Rinus Michels osò spingersi: sulla vetta del mondo.

Va dunque all’Olanda la prima semifinale del Mondiale sudafricano: grazie alla sofferta vittoria per 3-2 ai danni dell’Uruguay, la nazionale di van Marwijk stacca il biglietto per la finalissima dell’11 luglio. Chi pensava che gli olandesi avrebbero avuto vita facile con i sudamericani, falcidiati dalle assenze del talentuoso Lodeiro e del bomber Suárez, si è dovuto ben presto ricredere. Certo, le prime battute di gara confermano i pronostici che danno per favorita l’Olanda: Muslera smanaccia su un traversone dalla destra di Robben e serve il pallone sui piedi di Kuyt che non inquadra lo specchio per una questione di centimetri. L’Olanda gioca con la consueta precisione e dopo diciotto minuti trova il meritato vantaggio: è il capitano Giovanni van Bronckhorst a rompere gli indugi con una staffilata di sinistro dalla lunga distanza su cui Muslera palesa qualche responsabilità. La partita sembra in mano agli Oranje, con la complicità di un Uruguay che si affida solo ad un paio di tentativi, pertanto velleitari, di Álvaro Pereira. Ma la Celeste, piano piano, rosicchia centimetri e in finale di frazione segna il pareggio: il merito è tutto del capitano Diego Forlán che gonfia la rete con un sinistro dalla distanza, timbrando per la quarta volta il cartellino nella competizione. Stekelenburg, fino a questo momento impeccabile, si fa clamorosamente infilare da una conclusione centrale, tradito in parte anche dalla bizzarra traiettoria del pallone Jabulani.

Van Marwijk cambia le carte in tavola e ad inizio ripresa spedisce van der Vaart al posto di de Zeeuw, sostituto dello squalificato de Jong. Sorprendentemente, l’Uruguay continua ad imbrigliare l’Olanda: l’opaca prestazione di Sneijder, forse distratto dalle voci che lo danno possibile vincitore del prossimo Pallone d’Oro, fotografa alla perfezione le difficoltà degli arancioni di creare pericoli. E Stekelenburg deve salvare il risultato su una velenosa punizione di Forlán. Passato lo spavento, l’Olanda prova a ripartire: van der Vaart trova un pertugio nella difesa uruguagia e impegna Muslera di sinistro, sulla ribattuta Robben spara alto. Ma il gol arriva, a venti minuti dal termine, grazie ad un’illuminazione del giocatore più atteso e finora più in ombra: Sneijder calcia all’interno dell’area piccola, prima Maxi Pereira e poi Victorino deviano la conclusione verso la porta di Muslera. Anche van Persie, in posizione irregolare, sfiora il pallone: la rete è da annullare, ma l’arbitro uzbeko Irmatov indica il cerchio di centrocampo. Il centrocampista dell’Inter sale così a quota cinque in classifica marcatori, affiancando in vetta lo spagnolo Villa. Il nuovo vantaggio galvanizza gli arancioni che dopo tre minuti chiudono (apparentemente) i conti: cross con il contagiri di Kuyt dalla sinistra, nel cuore dell’area svetta Robben che di testa lascia Muslera di sasso. Lo stesso Robben sfiora la quarta rete che sarebbe punizione eccessiva per la generosità dell’Uruguay. La nazionale di Tabárez, ancora una volta, dimostra di sopperire alle lacune tecniche sfoderando grinta, tenacia e tenuta psicologica: e così, quando tutti sono già convinti di vedere l’Olanda in finale, un sinistro a girare di Maxi Pereira riapre i giochi nel primo minuto di recupero. L’Uruguay, che ha speso tante energie, tenta l’ultimo, disperato assalto, senza riuscirvi. Trentadue anni dopo, l’Olanda torna a disputare una finale mondiale. La Celeste esce a testa alta, dando così torto a quanti avevano accusato la squadra di aver goduto di eccessiva sorte e di non aver meritato la semifinale. Sarà dunque una finale tutta europea quella del Mondiale 2010 e chiunque vincerà scriverà un pezzo di storia: finora, nessuna nazionale del Vecchio Continente ha mai vinto quando si è giocato fuori dai confini del Mediterraneo.

Martedì 6 luglio 2010
URUGUAY – OLANDA 2-3 (1-1)
Green Point, Città del Capo

URUGUAY: Muslera, M.Pereira, Godín, Victorino, Cáceres, Pérez, Gargano, Arévalo, Á.Pereira (78′ Abreu), Cavani, Forlán (c) (84′ S.Fernández).

OLANDA: Stekelenburg, Boulahrouz, Heitinga, Mathijsen, van Bronckhorst (c), van Bommel, de Zeeuw (46′ van der Vaart), Robben (89′ Elia), Sneijder, Kuyt, van Persie.

ARBITRO: Irmatov (UZB)

GOL: 18′ van Bronckhorst (NED), 41′ Forlán (URU), 70′ Sneijder (NED), 73′ Robben (NED), 92′ M.Pereira (URU)

NOTE: ammoniti M.Pereira, Cáceres (URU), van Bommel, Sneijder, Boulahrouz (NED).

Simone Pierotti