CLAUDIA MORANDINI, DAGLI SCI AI MICROFONI

Da qualche stagione a questa parte, le telecronache di Eurosport delle gare femminili di sci alpino sono state impreziosite dalla partecipazione di Claudia Morandini, che affianca a turno i sempre preparati Gianmario Bonzi ed Andrea Berton. La bionda Claudia, nata a Trento il 25 giugno 1982, ha un passato da sciatrice di alto livello, mentre il suo presente e il futuro sembrano decisamente essere nell’ambito della comunicazione di massa: non solo telecronache, ma anche la conduzione di programmi di vario genere su radio e televisioni, oltre alla presentazione di eventi, sempre con quel sorriso smagliante che è un po’ il leit-motiv della sua vita.  Da atleta, Claudia ha all’attivo una ventina di gare in Coppa del Mondo tra i paletti stretti dello slalom e le porte larghe del gigante, con un sedicesimo posto ad Aare, nel marzo 2003, come miglior risultato, oltre a tre podi in Coppa Europa.

Claudia, com’è stato il salto dalle piste alla cabina di commento?

«È stato abbastanza naturale: mi sono sempre occupata di comunicazione, e quando mi sono proposta, Eurosport ha voluto credere in me. Tra tutti i lavori televisivi che faccio, quello del commento tecnico è indubbiamente il più difficile. Ma io amo le sfide e, soprattutto, mi sembra ogni giorno di tornare in gara.»

Qual è stato il motivo che ti ha spinto, a soli 26 anni, ad appendere gli sci al chiodo?

«Il motivo è drammaticamente semplice: cinque ernie al disco. Ho sofferto moltissimo soprattutto negli ultimi due anni di carriera, tra il 2006 e il 2008, arrivando ad un punto in cui non riuscivo più a dare il massimo. Certo, avrei voluto continuare, soprattutto dopo la prima operazione, e ritornare a gareggiare in Coppa del Mondo, ma per competere ad un livello così alto bisogna sempre essere al top, e io non lo ero più.»

In quegli anni di carriera, c’è un momento particolare che ti va di ricordare?

«Ho davvero tanti ricordi, perché lo sci mi ha permesso di girare il mondo, di instaurare amicizie speciali: non mi viene in mente un momento particolare, forse perché preferisco ricordare tutti i miei dieci anni in nazionale come una delle esperienze più belle e soddisfacenti della mia vita.»

Il tuo giudizio sulla performance azzurra ai Mondiali di Garmisch-Partenkirchen?

«Che dire? Una perfomance davvero inaspettata, soprattutto considerando la prima parte della stagione. I ragazzi e le ragazze hanno dimostrato di riuscire ad entrare nella magica atmosfera mondiale quasi senza sentire la pressione e le attese, riuscendo a dare il massimo in ogni gara, con gli splendidi risultati che tutti sappiamo.»

Cosa ne pensi, da ex atleta, della diatriba in corso tra la FISI e lo staff tecnico, relativa soprattutto al direttore tecnico Claudio Ravetto?

«Mi sento di dire che la rovina dello sport è la politica, e sicuramente Claudio non è un politico: il suo lavoro, come quello di ogni bravo direttore tecnico, deve incentrarsi prevalentemente nel dare serenità e fiducia al gruppo di atleti e allo staff, e credo che in questo lui non abbia mai fallito. Mi auguro che alla fine si ascoltino i nostri sciatori e si decida tenendo conto della loro opinione.»

C’è un’atleta azzurra sulla quale punti particolarmente per il futuro?

«Ci sono delle giovani veramente interessanti, in primis Elena Curtoni e Federica Brignone, come si è visto anche ai Mondiali. Tuttavia, io non dimenticherei le più esperte, quelle leonesse che lottano sempre con gli acciacchi ma, quando sono in forma, rappresentano una garanzia. Mi riferisco in particolare a Manuela Moelgg, Daniela Merighetti e Denise Karbon. Anche le sorelle Fanchini sono dei talenti, hanno un piede d’oro e quindi delle straordinarie doti naturali, ma vengono spesso limitate dai problemi fisici.»

Oltre al commento delle gare, conduci anche delle trasmissioni culturali e sportive su radio e tv: come è nata questa attività?

«Diciamo che come conduttrice me la sono sempre cavata bene, e mi è sempre piaciuto farlo. Credo di avere un carattere molto solare, e soprattutto, davanti ad una telecamera riesco a dare davvero il meglio di me, cercando sempre una certa vena ironica e mettendo a frutto l’esperienza sportiva accumulata sulle piste da sci. Certo, l’aspetto fisico offre un bell’aiuto, ma da solo non basta assolutamente: dietro ad ogni trasmissione, ci sono una preparazione ed un lavoro lunghissimo.»

Ultima domanda: come si vede Claudia Morandini tra dieci anni?

«Mi vedo…realizzata, mamma e felice. Banale? Dai, ho ancora un po’ di tempo per essere egoista. Poi mi piacerebbe fare la mamma».

PASTA DEL CAPITANO

Nel cricket il capitano ha un’importanza maggiore rispetto ad ogni altro sport: è lui che nel corso della partita ha il compito di impostare la strategia di gioco, nonché di scegliere l’ordine dei suoi uomini in battuta e i turni dei lanciatori. E Alessandro Bonora non è da meno. Il batsman azzurro è nato a Bordighera, ma è cresciuto e vive in Sudafrica: è uno dei veterani di questa squadra, avendo fatto il proprio esordio in maglia azzurra nel 2000.

Alessandro, come giudichi il torneo dell’Italia?

«Siamo davvero molto contenti di come è andata. Certo, sarebbe stata una gran cosa per il cricket italiano se fossimo passati in Seconda Divisione. In realtà abbiamo persino avuto la possibilità di farlo, tuttavia fin dall’inizio c’eravamo detti che un’eventuale promozione sarebbe stata un extra, perché il nostro reale obiettivo era quello di rimanere in Terza Divisione, un risultato che in precedenza non era mai stato raggiunto nella storia del cricket italiano. Abbiamo anche accresciuto la nostra posizione nel ranking mondiale (24° posto): mai in passato erano stati raggiunti questi livelli. Per questo siamo veramente entusiasti del risultato e sentiamo di aver fatto un ulteriore passo in avanti nello sviluppo del cricket italiano».

Come giudichi dal punto di vista personale il tuo torneo?

«Sono molto soddisfatto delle mie prestazioni. Devo ammettere che mi ero caricato addosso troppa pressione per la voglia di migliorare le mie performance rispetto allo scorso agosto a Bologna. Sono davvero contento anche perché ho finalmente messo a segno un century (segnare più di 100 punti. 124 not out nello specifico, ndr) con la maglia dell’Italia: il mio primo dopo 12 anni di gioco».

Qual è stato il momento più bello del torneo?

«Sicuramente la vittoria contro gli Stati Uniti che ci ha garantito la salvezza in Terza Divisione. Eravamo molto tesi prima della partita e la pressione era altissima perché, di fatto, si trattava di una finale: chi vinceva era salvo, chi perdeva sarebbe retrocesso. Abbiamo sofferto molto contro Papua Nuova Guinea, Oman e Hong Kong, tre partite che potevamo vincere: per noi è stato molto difficile accettare il fatto di non averne vinta nemmeno una delle tre. L’aver tenuto testa agli Stati Uniti, una delle favorite del torneo nonché la squadra che ci aveva battuto ad agosto nella finale, è stato per noi motivo di grande orgoglio. Quella vittoria ha dimostrato che la nostra squadra ha testa e cuore e che negli ultimi due tre anni siamo riusciti a compiere un salto di qualità notevole».

Qual è stata la squadra più forte che avete affrontato?

«È difficile rispondere: tutte le squadre, come hanno dimostrato i risultati, si equivalevano. Secondo me, nel lancio e nel fielding Papua Nuova Guinea si è rivelata la più forte, ma in battuta abbiamo sofferto molto contro Oman e Hong Kong. Questi ultimi, soprattutto, hanno dimostrato una grande voglia di vincere».

Come hai trovato Hong Kong?

«Per me è stata un’esperienza bellissima e molto interessante. Nelle strade c’era moltissima gente, i grattacieli sembravano non finire mai. Inoltre ho incontrato suoni, colori e cibi che non avrei mai immaginato. I campi da cricket erano magnifici e siamo stati ospitati in maniera assai generosa. Siamo invece stati sorpresi dal clima: nessuno si aspettava che in Asia potesse essere così freddo. La prima sera, quindi, siamo stati costretti a correre ai ripari comprandoci delle giacche».

VIVE LA GRÈVE!

Incredibile in Francia: mancano gli arbitri e le squadre scioperano. Risultato: campionati fermi da un mese.

Probabilmente Nicolas Sarkozy ha avuto – ed avrà – ben altri scioperi di cui preoccuparsi, come quelli generali seguiti alla contestata riforma delle pensioni. Eppure anche nel mondo dello sport transalpino c’è chi ha deciso di incrociare le braccia, come i giocatori dei campionati maschili e femminili di pallanuoto, fermi da oltre un mese. E, soprattutto, senza uno spiraglio che faccia pensare ad un’immediata ripresa.

Tutto nasce da una serie di agitazioni interne al collegio arbitrale della FFN, la Federnuoto francese: da oltre un anno e mezzo i direttori di gara lamentano una serie di problematiche ed alla prima pagina dei loro cahiers de doléances figurano la drastica riduzione degli stipendi e dei rimborsi spesa (60 euro per pernottamento, trasporti e pasti). La FFN prova a risolvere la situazione istituendo una sorta di sotto-commissione degli arbitri, presieduta da una figura di tutto rispetto come Patrick Clémençon. Ma il caos non si placa: alcuni direttori di gara non si presentano agli incontri. Il regolamento prevede che le squadre provvedano a reperire i sostituti, da pescare però dalle categorie inferiori. E allora ecco che le società non ci stanno e decidono di scioperare.

“Un conflitto all’interno del collegio arbitrale della Federazione Francese  non consente che gli incontri dei più importanti campionati maschili e femminili possano avvenire in condizioni normali – scrive in una nota Marc Crousillat, presidente dell’ACWF, l’associazione dei club pallanotistici d’Oltralpe – così per motivi di sicurezza, ma anche di etica sportiva, il comitato della pallanuoto e la maggior parte delle società dei campionati di cui sopra (dieci su dieci in Élite, dieci su undici in N1 e sei in sette N1 femminile) ha preso, a malincuore, la decisione di interrompere il campionato fino a quando una non verrà trovata una soluzione”. Mai successo qualcosa di simile in uno sport che in Francia vanta una tradizione di lunghi anni. Anzi: qui la pallanuoto si pratica da oltre un secolo ed i transalpini, almeno agli albori dei Giochi Olimpici, erano una delle nazionali più agguerrite.

E così tutti i campionati nazionali sono fermi da esattamente un mese: è, infatti, a partire dallo scorso 22 gennaio che le società hanno scelto la linea dura. “In diverse occasioni – prosegue Crouisillat – l’ACWF ha chiesto al presidente della Federazione di organizzare una riunione d’emergenza per trovare una soluzione a questo conflitto che ha paralizzato l’intera disciplina. I nostri tre delegati, che rappresentano la voce di oltre l’80% della pallanuoto francese (11 000 affiliati), non hanno purtroppo ricevuto alcuna risposta positiva finora. La famiglia della pallanuoto sente poco il sostegno di una Federazione di cui ha fatto parte fin da subito e che ha ottenuto la sua prima medaglia d’oro olimpica nel 1924 a Parigi. Sabato 5 febbraio 2011 la Federazione non è stata in grado, per la seconda volta consecutiva, di garantire la presenza di quasi tutti gli arbitri per le partite. In queste condizioni, e per evitare il rischio di incidenti, i presidenti di club hanno preferito interrompere le gare”. Insomma, senza arbitri all’altezza della situazione, non si gioca.

Una possibile svolta potrebbe arrivare sabato, quando il presidente federale Francis Luyce incontrerà i presidenti dei club per trovare una via di uscita. E, intanto, sono stati coinvolti nella diatriba anche il Ministero dello Sport ed il Comitato Nazionale Olimpico francese. La speranza è che, una volta tanto, le sempre evocate tavole rotonde portino ad un risultato concreto. In caso contrario, l’ipotesi del ricorso alle vie legali è tutt’altro che remota. Con il rischio che, ancor prima che un vincitore della causa, ci sia un perdente già stabilito: la pallanuoto.

IL PENTATHLON CERCA DI STARE AL PASSO CON I TEMPI

A rischio di esclusione dal programma olimpico, il Pentathlon Moderno continua a trasfromarsi da esercizio per militari a sport spettacolo

LaserPrende il via domani a Palm Springs con una grande innovazione la Coppa del Mondo 2011 di Pentathlon Moderno; dopo aver provato il sistema nella scorsa stagione nelle gare giovanili, viene introdotto a tutti i livelli l’utilizzo, nella prova di Tiro, delle Pistole Laser che vanno a sostituire le armi ad aria compressa usate fino ad ora. Mentre i puristi del tiro storcono il naso, le ragioni dell’introduzione sono numerose. Oltre al minor impatto ambientale, sbandierato dalla Federazione Internazionale, il ricorso ad armi non pericolose può permettere lo sviluppo della disciplina in impianti diversi (arrivando persino a pensare di gare nei centri storici delle città) e consente l’introduzione della stessa a livello scolastico dal quale, come tutti gli sport di tiro, è sempre stato escluso.

Il Pentathlon negli ultimi dieci anni sta combattendo la sua battaglia contro l’esclusione dai Giochi Olimpici e la sta combattendo cercando di stare al passo con i tempi, impresa difficile per una disciplina introdotta nel 1912 nel programma a cinque cerchi come esercizio tipicamente militare. E non è un caso se fino al 1948 tutti i vincitori del titolo olimpico furono proprio militari di carriera e se nella storia olimpica della disciplina appaiono nomi più legati alla storia militare che a quella sportiva come il Generale Patton, quinto a Stoccolma nell’edizione dell’esordio, o il tedesco Gotthardt Handrick, oro a Berlino e comandante in Spagna della Luftwaffe.

Nel 1912, e per molte edizioni successive senza grandi variazioni, la prova olimpica di Pentathlon Moderno si disputava su un arco di cinque giornate, ognuna destinata ad una disciplina: a Stoccolma si partì con la giornata dedicata al tiro con la pistola per continuare con il torneo di spada, i 300 metri a nuoto, una prova di cross country a cavalli e concludere la tenzone con i 4.000 metri di corsa. La classifica era costruita con la somma dei piazzamenti di ogni atleta nelle cinque prove. Fatto salvo qualche cambiamento nell’ordine delle prime quattro prove, questo formato di gara dura fino alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 che vedono il primo civile conquistare la medaglia d’Oro olimpica nella storia del Pentathlon: si tratta del carpentiere svedese Lars Hall.

Lo svedese si conferma sul trono olimpico anche quattro anni dopo a Melbourne quando cambia la formula di determinazione della classifica non più basata sui piazzamenti nelle singole prove ma su tabelle di punteggio che per ogni prova assegnano 1000 punti per l’eccellenza e via via a scendere non trascurando la possibilità di raccogliere punteggi superiori per prestazioni che superino l’eccellenza.

E’ con i Giochi Olimpici di Los Angeles 1984 che si assiste al primo cambiamento significativo della formula di gara: non solo le giornate di gara si riducono a 4 (tiro e corsa si disputano nell’ultima giornata) ma per garantire la spettacolarità dell’atto conclusivo la prova di corsa inizia a disputarsi con la partenza ad handicap con distacchi commisurati al punteggio in classifica. La conclusione diventa immediatamente comprensibile allo spettatore: chi taglia il traguardo ha vinto senza dover ricorrere a calcoli astrusi. E chi viaggia intorno al mezzo secolo non può dimenticare l’atto finale di quelle Olimpiadi: alla partenza della prova di corsa l’azzurro Daniele Masala parte con il pettorale 1 e nove secondi di vantaggio sullo svedese Svante Rasmuson. Intorno al terzo chilometro lo svedese raggiunge Masala e si prodiga in allunghi con l’obiettivo di staccare l’italiano; i due si presentano appaiati sul tratto finale pianeggiante. All’altezza dell’ultima curva Masala cambia ritmo e lo svedese crolla. L’Italia vince per la prima volta la medaglia d’Oro nel Pentathlon Moderno; arrivano anche il Bronzo di Carlo Massullo e l’Oro a squadre [video].

Nel 1988, la prova di Equitazione passa dal percorso di caccia ad una prova di Salto ad Ostacoli ma una nuova pietra miliare è posta nel 1996 ad Atlanta: da questa edizione le cinque prove si svolgono tutte nella stessa giornata e da quella successiva si inizia a disputare anche la prova femminile mentre la prova di Nuoto si accorcia a 200 metri e quella di Corsa a 3.000 metri.

Dopo le Olimpiadi di Pechino di due anni fa, il Pentathlon Moderno (a forte rischio di esclusione dal programma olimpico) cambia ancora la formula, ampiamente sperimentata nella Coppa del Mondo del 2010: la prova di Tiro e quella di Corsa vengono riunite nel Combined Event che chiude la competizione. Sempre partendo ad handicap sulla base della classifica delle prime tre prove, gli atleti devono compiere tre giri di corsa da 1.000 e ad ogni giro sparare a cinque bersagli (soluzione molto simile a quella del Biathlon invernale) caricando l’arma dopo ogni sparo. Non vi sono penalità per gli errori ma l’atleta non può ripartire fino al momento nel quale abbia colpito tutti i cinque obiettivi. Il Combined Event sarà utilizzato alle Olimpiadi di Londra tra due anni mentre le pistole laser sono ancora in fase sperimentale e non è previsto il loro utilizzo, per il momento, in sede olimpica.

George S. Patton

IL GIORNO DOPO LA RIVOLUZIONE

Caduto il regime di Mubarak, il calcio egiziano cerca di rimettersi in gioco. E intanto il resto del nord Africa continua a bruciare.

Piazza Tahrir si svuota. Torna alla normalità. A un mese dall’inizio della rivolta del Cairo e a una decina di giorni dalle dimissioni rassegnate dal presidente Hosni Mubarak, l’Egitto cerca di tornare sui binari soliti della vita quotidiana. Molti dei giovani coinvolti nelle proteste e negli scontri erano tifosi di calcio: fianco a fianco, uniti dalla volontà di rovesciare il regime trentennale dell’Ultimo Faraone, hanno protestato tifosi dell’al-Ahly e dello Zamalek, squadre cittadine del Cairo la cui rivalità è spesso sfociata in episodi di violenza. Dovranno attendere ancora prima di riversarsi di nuovo negli stadi, visto che probabilmente il resto del campionato verrà disputato a porte chiuse. C’è da chiedersi se, una volta di nuovo sulle gradinate, le due tifoserie continueranno ad essere solidali dopo aver combattuto spalla a spalla contro il regime, o se torneranno ad odiarsi con violenza.

Hassan Shehata è conosciuto come el-Embrator, l’Imperatore. Il suo è un Impero calcistico: nel 2004 ha preso le redini della nazionale di calcio egiziana da Marco Tardelli, portandola alla vittoria in Coppa d’Africa tre volte di seguito, nel 2006, nel 2008 e nel 2010. Un Impero che sembra però avere una data di scadenza, quella del 26 marzo, quando l’Egitto incontrerà al Soccer City di Johannesburg il Sudafrica in una gara decisiva per le qualificazioni alla Coppa d’Africa 2012. Per i Faraoni di Shehata è imperativo vincere: dopo un pareggio con il Niger e una sconfitta con la Costa d’Avorio da questa partita passano le ultime possibilità per staccare un biglietto per il torneo che si terrà tra Guinea Equatoriale e Gabon. La federazione egiziana sta tentando di far rinviare la partita a giugno per permettere al campionato, sospeso il 27 gennaio, di riprendere con regolarità: una decisione simile è già stata presa dalla FIFA con il rinvio, per motivi di ordine pubblico, dell’incontro tra Yemen e Singapore in seguito alle proteste in corso nello stato arabo per rovesciare il regime del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978.

La mancata qualificazione alla Coppa d’Africa potrebbe essere il colpo di grazia per il commissario tecnico, già criticato per il suo bigottismo religioso (“Faccio sempre il possibile per assicurarmi che chi veste la maglia dell’Egitto sia pio e in buoni rapporti con Dio”, dichiarò in un’occasione) e ora sotto accusa per la sua partecipazione alle manifestazioni in sostegno a Mubarak. Shehata si è difeso sostenendo che difendeva la stabilità e la tranquillità dell’Egitto e che non era spinto da sentimenti di odio per il popolo di piazza Tahrir: quello che gli premeva era che il campionato potesse riprendere con regolarità. Non è bastata come giustificazione ai manifestanti, che hanno inserito il commissario tecnico nella lista nera dei nemici della Rivoluzione. Su un commento postato sul quotidiano online Ahmad dall’utente Waleed si legge: “Hai insultato i giovani che ti avevano sostenuto nella conquista delle tre coppe. Ti sei schierato in favore della tirannia e contro la libertà. È tempo che tu ti faccia da parte, mentre noi abbiamo ancora nel cuore i ricordi e l’ammirazione per i traguardi che hai raggiunto. La libertà viene prima dello sport, capitano Hassan”.

Nel frattempo la federazione sta muovendosi per organizzare un’amichevole della nazionale contro la Tunisia. Quella tra Egitto e Tunisia è stata una rivalità che non ha mai mancato di infiammarsi con episodi violenti. In ottobre undici tunisini erano stati arrestati per vandalismo e attacchi ai danni della polizia dopo un incontro tra l’al-Ahly e l’Esperance di Tunisi. Come i tifosi egiziani, anche i supporter tunisini sono stati in prima linea nelle proteste che hanno portato alla fuga del presidente Zine El-Abidine Ben Ali: la partita non ha ancora una data, ma è già stata soprannominata il derby dei rivoluzionari. La partecipazione del popolo del calcio alle rivolte è stata una costante dell’incendio che ha colpito il nord Africa e il medio Oriente. I tifosi sono scesi in piazza, oltre che in Egitto e Tunisia, anche in Algeria, Libia, Sudan, Giordania e Iran. Le autorità di Algeri, Tripoli, Teheran e il Cairo hanno tutte ricorso alla sospensione dei campionati e alla cancellazione degli impegni internazionali delle squadre locali per ragioni di ordine pubblico e per cercare di disinnescare le proteste. In Iran l’allenatore portoghese Carlos Queiroz, pronto a prendere la guida della squadra nazionale, ha fatto un passo indietro per “comprendere meglio il clima politico iraniano”.

Il primo importante passo per la normalizzazione in Egitto è arrivato pochi giorni fa: domenica i club si sono riuniti per formalizzare al Consiglio Supremo delle Forze Armate la richiesta di far riprendere il campionato terminando la stagione a porte chiuse e con le retrocessioni bloccate. Il campionato è fermo dal 27 gennaio e nel frattempo è stata cancellata la Coppa d’Egitto e la FIFA ha posto come condizione per la ripresa dell’attività che fosse ristabilito l’ordine e che l’accordo tra i club fosse unanime. Un segnale di ripresa è stato l’inizio di un’investigazione per corruzione all’interno della EFA (Egyptian Football Association) che coinvolgerebbe anche il presidente federale Samir Zaher e Hassan Shehata, el-Embrator. In marzo la lega dovrebbe riprendere, ma non sarà facile capire come cambieranno i sentimenti della popolazione nei confronti delle squadre. Secondo Piers Edwards della BBC, dopo la Rivoluzione gli egiziani saranno meno propensi ad accettare che alcuni enti governativi investano nei club sportivi, come avviene per le squadre al-Jaish, Harras al-Hadoud e Ittihad al-Shorta, sostenute rispettivamente dalle guardie di frontiera, dall’esercito e dalla polizia.

Come se non bastasse, l’atteggiamento di freddezza mantenuto dal calcio nei confronti del movimento di piazza Tahrir ha sollevato diverse critiche da parte dei manifestanti. Lo Zamalek, per esempio, è considerata una squadra tradizionalmente vicina alle sfere del potere in Egitto, opinione che è stata rafforzata dall’adesione dei dirigenti della squadra Ibrahim e Hossam Hassan e delle stelle Shikabala e Mido alle manifestazioni controrivoluzionarie. Tra le personalità che si sono esposte in supporto alla Rivoluzione invece figurano Nader el-Sayed, ex portiere dello Zamalek con oltre cento presenze in nazionale, coinvolto in prima persona alle dimostrazioni di piazza Tahrir. Parole di sostegno sono arrivate anche dall’allenatore portoghese dell’al-Ahly Manuel José, che ha chiesto pubblicamente scusa per essere tornato in Portogallo e non aver contribuito alla causa donando sangue alle vittime degli scontri. Per riguadagnare l’approvazione dell’opinione pubblica, i club hanno acconsentito a tagliare il 25% degli stipendi dei giocatori per devolverli alle famiglie delle vittime.

La prima partita di calcio dell’Egitto post-rivoluzionario sarà disputata domenica: lo Zamalek affronterà allo stadio dell’Accademia Militare del Cairo i kenyoti dell’Ulinzi Stars, in una gara valida per i preliminari della Champions League africana. Nella gara d’andata gli egiziani avevano espugnato Nakuru portando a casa una vittoria 4-0, per poi trovarsi impossibilitati a disputare il turno di ritorno per via dello scoppio della rivolta. Le autorità militari, dopo diversi tentennamenti, hanno autorizzato lo svolgimento della partita. Una delle opzioni prese in considerazione dalla dirigenza dello Zamalek era stata lo spostamento dell’incontro in campo neutro in Libia. Una proposta poco felice, visto il rapido degenerare degli eventi nell’ex colonia italiana: le rivolte contro il leader libico Muammar al-Gaddafi hanno portato il paese in una situazione di guerra civile aperta. Secondo il sito Mideastsoccer a capeggiare la repressione nella città di Bengasi, roccaforte dei ribelli, sarebbe Sa’adi al-Gaddafi, il figlio del colonnello, personaggio che ha legato il suo nome al calcio in diversi modi: come dirigente della Juventus, come presidente della federcalcio libica e come giocatore con due brevi presenze in serie A, con le maglie di Perugia e Udinese, intervallate da una squalifica per doping. L’ultimo tesseramento italiano di Sa’adi al-Gaddafi è stato stipulato con la Sampdoria del petroliere ERG Riccardo Garrone, ennesimo esempio di una carriera pilotata più dagli interessi nei combustibili fossili che dal talento sportivo. Sarebbe stato proprio l’attaccante ed ex capitano della nazionale libica a disporre i bombardamenti del regime contro i suoi stessi cittadini, in una brutale repressione costata oltre seicento vittime.