ESILIO DA RAVENHILL

La storia di un esilio durato 53 anni: mezzo secolo in cui la nazionale irlandese, simbolo delle due Irlande unite, non mise mai piede nella metà del Nord.

Venerdì, 26 febbraio 1954. È la vigilia di un incontro del Cinque Nazioni tra Irlanda e Scozia. Prima edizione dall’incoronazione della regina Elisabetta. Sul treno da Dublino a Belfast, sede designata dell’incontro, sono seduti undici dei giocatori che prenderanno parte all’incontro il giorno dopo. Tra di loro il nuovo capitano della nazionale irlandese, Jim McCarthy, flanker ventottenne di Cork, che terminerà la sua carriera internazionale l’anno successivo con all’attivo 28 caps, 8 mete e la convocazione per il tour dei British & Irish Lions del 1950. Gli undici giocatori si trovano a discutere dell’insistenza dei neozelandesi nel voler far suonare God Save the Queen, poco più di un mese prima, a una partita a Lansdowne Road. Gli All Blacks avevano vinto 14-3, lasciando con quella richiesta il sangue amaro nelle vene degli Irlandesi: tematiche delicate per una federazione rugbistica che racchiude territori dipendenti da due stati sovrani diversi. Per una nazionale che scende in campo senza suonare nessun inno quando gioca fuori dal territorio della Repubblica Irlandese. Gli undici giocatori su quel vagone concordano tutti: “Quando è troppo è troppo”.

All’arrivo a Belfast McCarthy si presenta dal presidente dell’IRFU, Sarsfield Hogan. “Io e i miei giocatori non abbiamo intenzione di lasciare gli spogliatoi e allinearci con gli Scozzesi per rendere omaggio a un monarca straniero – gli annuncia, categorico – Se verrà suonato God Save the Queen, all’inno scenderanno in campo solo i quattro nordirlandesi”. Hogan suggerisce al capitano di dormirci sopra, ma al mattino dopo al Grand Central Hotel scoppia la crisi: McCarthy e i suoi non hanno cambiato idea. I membri della IRFU e gli undici ribelli si rinchiudono in una stanza dell’albergo e danno inizio a due ore di trattative, terminate solo a ridosso dell’ora stabilita per il kick-off. Quattro giocatori, i Nordirlandesi, restano all’oscuro di tutto: Anderson, Henderson, Thompson e Gregg. Per placare i sospetti dei quattro e della stampa, i partecipanti al meeting sostengono di essersi riuniti in un momento di raccoglimento per l’aggravarsi delle condizioni di Papa Pio XII. “Se solo mi aveste detto che quel pover’uomo stava così male, sarei venuto a pregare con voi”, azzarda addirittura uno dei Nordirlandesi. Questo il compromesso raggiunto dalla IRFU per evitare l’incidente diplomatico: al posto di God Save the Queen verrà eseguito il Salute, una versione abbreviata dell’inno britannico. Quella partita, vinta 6-0 dai greens grazie a due mete del trequarti ala Mortell, sarà per decenni l’ultima giocata sul suolo nordirlandese dalla nazionale del trifoglio.

Da quel giorno del 1954, per mezzo secolo i greens non visiteranno più le six counties. 53 anni, per la precisione: il 24 agosto 2007 il patto stretto tra gli uomini di McCarthy e i funzionari di Hogan fu rotto quando lo stesso stadio, il Ravenhill di Belfast, ospitò l’amichevole pre-mondiale tra Irlanda e Italia, complici i lavori di ristrutturazione del Lansdowne Road di Dublino e del Thomond Park di Limerick. Nell’occasione gli azzurri misero alle strette Brian O’Driscoll e compagni perdendo 23-20 a causa di una meta dubbia di Ronan O’Gara allo scadere, immediata risposta alla marcatura di Pratichetti che sembrava aver messo il sigillo all’incontro sul 16-20. Nel primo tempo erano andati in meta l’azzurro Troncon e il nordirlandese Andrew Trimble e gli italiani avevano chiuso in vantaggio 13-10.

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