Per l’inaugurazione di un torneo di calcio studentesco, il 18 febbraio allo Stadio Monumental di Lima, di proprietà del Club Universitario de Deportes, è stata realizzata una tribuna di metallo, alta 15 metri e larga 50. La tribuna avrebbe dovuto ospitare qualche migliaio di persone, soprattutto parenti e amici dei giovani giocatori. La struttura, messa in piedi nello spazio di un mattino, non è stata però dotata delle norme di sicurezza, e per fretta, incuria e una buona dose di faciloneria, i dirigenti dell’Universitario de Deportes hanno omesso di avvisare, come avrebbe disposto la normativa locale, le autorità municipali di Lima. A causa del peso degli spettatori, la tribuna fai da te si è afflosciata improvvisamente, e ha lasciato sotto di sé 117 feriti, la maggior parte lievi, e una decina in condizioni serie. Ma se non fosse stato per l’inusitata efficienza dei soccorsi dei vigili del fuoco e delle ambulanze, il bilancio sarebbe potuto diventare molto più grave.
Come immaginabile, i media peruviani hanno dato un grande spazio a questo incidente, e le memorie più fonde sono ritornate al terribile pomeriggio del 24 maggio 1964, quando allo Stadio Nacional di Lima, meglio noto alla gente del posto come El Coloso de José Díaz, si erano affrontate le nazionali under 20 di Perù e Argentina. In palio c’era la qualificazione alle imminenti olimpiadi di Tokyo, e l’Argentina aveva la classifica dalla propria parte; mentre per il Perù era quasi un imperativo vincere, per poi giocarsi la qualificazione nell’ultima partita contro il Brasile.
A Lima si preannunciava una domenica pomeriggio all’insegna dello spettacolo sportivo, visto che nel circuito centralissimo di Campo de Marte, a meno di un chilometro dallo stadio si stava disputando Las Seis Horas Peruanas, una gara automobilistica che sarebbe terminata alle tre del pomeriggio: appena mezz’ora prima dell’inizio della partita. In quella mezz’ora i tifosi erano transumati verso il Nacional; e siccome gli organizzatori avevano incoscientemente abbondato sulla stampa dei biglietti, erano entrate quasi quindicimila persone in più rispetto alle 47mila che poteva contenere ufficialmente lo stadio.
Il primo tempo terminò a reti inviolate, e il pubblico cominciò a innervosirsi. Avrebbe voluto festeggiare la qualificazione per le strade di Lima, ma con un pareggio la strada verso le olimpiadi si sarebbe fatta più accidentata. A rendere l’impresa proibitiva, avrebbe poi provveduto al 15’ il gol dell’argentino Néstor Manfredi. Per i sessantamila presenti era stata come una doccia gelata, e le speranze olimpiche cominciavano a sciogliersi sotto il sole di quel pomeriggio di maggio.
A soli sei minuti dalla fine, però, un tiro angolato dell’attaccante peruviano Victor Lobatón era riuscito a battere il portiere argentino. La torcida del pubblico di Lima si era scatenata. Mancava poco alla fine, era vero, però si poteva ancora sperare. I giocatori in maglia bianca si abbracciarono e proprio mentre stavano per dirigersi verso la propria metà campo, l’arbitro uruguayano, Ángel Eduardo Pazos, alzò il braccio destro e sollevò una gamba mimando un passo dell’oca: gioco pericoloso. Il gol era stato annullato, lasciando sfumare le ultime speranze dei peruviani.
Il pubblico sugli spalti scatenò il finimondo, e un afro peruviano di un quintale di peso e dalle generalità incerte (a seconda delle fonti viene indicato come Víctor Melasio Campos, Melecio Vásquez, o anche Germán Cuenca Arroyo), con il grottesco soprannome di El Negro Bomba, riuscì a scavalcare le recinzioni e ad entrare nel terreno di gioco in direzione dell’arbitro. Appena scorsero la sua sagoma appesantita, i poliziotti di servizio nello stadio lo rincorsero lanciandogli addosso i cani; lo placcarono, lo stesero a terra, estrassero i manganelli, e come loro abitudine, cominciarono a picchiare selvaggiamente. Contemporaneamente, entrò in campo un secondo invasore, che brandendo una bottiglia era arrivato a pochi passi dall’arbitro: un attimo prima di venire acciuffato dalla polizia per subire lo stesso trattamento di El Negro Bomba.
Il pubblico, già invelenito contro l’arbitro, rivolse la propria attenzione all’indirizzo delle forze dell’ordine, e cominciò a inveire, fischiare e bombardare il campo di oggetti di ogni tipo. L’uruguayano Ángel Eduardo Pazos comprendendo che le cose si stavano mettono male, senza perdere altro tempo, fischiò la fine dell’incontro; ed insieme ai giocatori delle due nazionali, si involò verso gli spogliatoi dalla parte della curva meno turbolenta.
Usciti di scena i protagonisti della partita, lo scontro si concentrò tra il centinaio di poliziotti e i sessantamila spettatori inferociti. A quell’epoca la polizia peruviana non conosceva molte varianti alla logica della brutalità. Era la polizia di una nazione che viveva costantemente sotto il tallone di una serie devastante di dittature militari, e che proprio in quell’anno stava vivendo una delle proprie brevissime stagioni di democrazia. L’ufficiale più alto in grado si mise immediatamente in contatto radio con la centrale, e ricevette l’ordine di difendersi con i gas lacrimogeni.
Detto fatto. I gas vennero lanciati in forma di granate verso i settori dello stadio più esagitati, e da quel momento i tifosi furono protagonisti di qualcosa di molto simile a un girone dell’inferno dantesco. Sotto la pressione dei gas asfissianti, cercarono vie di fuga, salendo prima verso la parte più alta delle gradinate. Ma neanche lassù l’aria si era rivelata più respirabile, e la massa in fuga aveva imboccato la via dell’uscita. Davanti a quelli più rapidi era però in agguato un’amara sorpresa: le porte erano sbarrate. Le autorità ne avevano deciso la chiusura, per evitare che altre persone si aggiungessero alla calca infernale che loro stessi avevano provocato, vendendo i biglietti in soprannumero.
I primi arrivati avevano fatto così marcia indietro, ma si erano trovati di fronte la seconda ondata che scappava dalle tribune avvelenate dai gas della polizia. La massa di persone si era infranta, come un blocco unico, contro i cancelli, che sarebbero poi crollati sotto la spinta di quella forza d’urto. In una calca spaventosa morirono in 318, e quasi mille rimasero feriti, soprattutto per asfissia da schiacciamento, in una dinamica che si sarebbe ripetuta, anche se in misura dieci volte minore, nella tragedia dell’Heysel. Ma negli sessanta in America Latina, il quadro sociale era particolarmente disastroso, e le bande di delinquenti si erano avvicinate ai cadaveri per rubare orologi, portafogli, vestiti, e tutto quanto avesse potuto valere più di pochi sol.
I giornalisti in tribuna non avevano compreso immediatamente le dimensioni della catastrofe, e le prime notizie avevano accennato ad alcuni feriti; ma la radio aveva poi fornito aggiornamenti di minuto in minuto, tanto che i parenti delle persone allo stadio, avevano girato disperatamente gli ospedali di Lima alla loro ricerca.
Tanti dei giovani che erano sopravvissuti si erano abbandonati alla guerriglia: tre poliziotti, erano stati catturati e linciati, centinaia di vetture parcheggiate erano state distrutte e la fabbrica della Goodyear era stata saccheggiata, durante una serie di disordini che erano durati tutta la notte. Il mattino dopo il governo, schiacciato dalla pressione dei militari, veri padri padroni del Perù di quell’epoca, sarebbe stato costretto a decretare lo stato d’emergenza e la sospensione delle libertà costituzionali per trenta giorni.
Mi fa piacere che si parli di un episodio come questo. Qui in Europa destarono scalpore in particolare le stragi dell’Heysel e dell’Hillsborough, ma effettivamente quello che accadde a Lima nel 1964 ebbe dimensioni ancora più apocalittiche. Tra l’altro, se non sbaglio, mi pare che in quell’Argentina militassero diversi giovani di grande valore come Roberto Perfumo, Agustín Cejas e Miguel Ángel Mori, che poi sarebbero addirittura diventati campioni del mondo con il Racing Avellaneda nel 1967. Ma di fronte a una tragedia come quella, ogni altro discorso passa in secondo piano.