Il calcio italiano è ricco di storie dei cosiddetti “bidoni”: giocatori arrivati da ogni parte del mondo, magari con un curriculum di tutto rispetto, ma schiacciati dalle troppe attese che gravavano sulle loro spalle. O forse semplicemente mediocri, perché nello sport non ci sono solo i campioni. Da Blisset a Pancev, dal fratello di Maradona a quello di Zarate, ogni club della nostra serie A può vantare un elenco più o meno lungo di delusioni e fallimenti: il Napoli non fa eccezione, e José Luis Calderón rientra appieno in questa categoria.
Nato il 24 ottobre 1970 a La Plata, città della provincia di Buenos Aires dove il calcio è più di una religione, muove i primi passi sportivi nel Club Defensores de Cambaceres, squadra della terza serie locale: sono gli anni dell’Argentina di Maradona, campione del mondo nel 1986 dopo il primo, contestato successo nel Mondiale casalingo del 1978. Alto 178 cm e con una buona potenza fisica, è una prima punta possente dotato di un discreto fiuto del gol, capace anche di mettere in mostra una tecnica degna dei migliori numeri 10: insomma, un giocatore che in attacco potrebbe fare faville in ogni posizione. A ventidue anni si trasferisce all’Estudiantes di La Plata, il glorioso e plurititolato club per il quale il Caldera, com’è soprannominato, fa il tifo sin da bambino. In tre stagioni, tra la massima serie e la serie B, segna ben 52 gol in 139 partite ufficiali, numeri assolutamente di tutto rispetto per un giocatore così giovane. Nel 1996 passa ad un’altra squadra ricca di storia e fascino, l’Independiente di Avellaneda, e con la maglia dei Diavoli Rossi realizza altre 23 reti in una sola stagione, facendo le prime comparse anche nella nazionale guidata da Daniel Passarella: il tutto gli vale le attenzioni del Napoli.
Il club campano infatti, dopo una stagione di basso profilo con l’unica soddisfazione della finale di Coppa Italia, è in cerca di qualche giocatore in grado di fargli fare il salto di qualità: il presidente Ferlaino non bada a spese e porta a casa il Principe Giannini, il funambolo Asanović, il geniale ma sregolato Allegri e appunto Calderón che, nel progetto del numero uno della società partenopea, con Protti e l’altro neoacquisto Bellucci andrà a costituire l’attacco più temibile della serie A. A Napoli poi, com’è noto, c’è un’attrazione particolare per gli argentini grazie allo straordinario e indelebile ricordo lasciato da Diego Armando Maradona, e dunque le attese attorno a questo oggetto misterioso venuto dal Sudamerica sono davvero tante. Attese che aumentano ulteriormente, quando durante l’estate il buon Calderón si lascia andare a dichiarazioni indimenticabili, come quella nella quale afferma di voler fare più gol di Angelillo, autore di 33 realizzazioni nella sola stagione 1958-1959: sarà forte, sarà bravo, ma di certo il novello Batistuta, altro soprannome che si porta dietro dall’Argentina, non trasuda umiltà.
Il Napoli di mister Mutti parte male: quattro punti in sei gare e l’allenatore bergamasco viene prontamente esonerato. Mazzone lo rimpiazza, ma quattro sconfitte in altrettante partite fanno saltare la seconda panchina dell’anno alla squadra partenopea; non va molto meglio a Galeone, che verrà licenziato alla ventesima giornata, mentre Vincenzo Montefusco, ultimo tecnico di quell’indimenticabile stagione, avrà l’amaro compito di traghettare la squadra verso una precoce retrocessione in serie B, con soli 14 punti totali, ben 24 in meno del Vicenza salvo. Cosa c’entra Calderón in tutto questo? Poco, a dir la verità. Arrivato al San Paolo con l’intenzione, come abbiamo visto, di spaccare record, mari e monti, pagato ben 7,5 miliardi di vecchie lire nonostante quella del Napoli fosse stata l’unica offerta presentata (e già lì si sarebbe potuto fiutare la puzza di bruciato), tra un proclama e l’altro il “bomber” argentino scende in campo solo sei volte, spesso per scampoli di partita, realizzando zero reti. Lui si lamenta pubblicamente, accusando i vari mister di schierarlo fuori ruolo o di non dargli abbastanza spazio: in compenso, il pubblico del San Paolo, resosi conto ben prima della dirigenza di questo pacco colossale, lo subissa di fischi ad ogni occasione. Lento e macchinoso come pochi altri giocatori apparsi in serie A e con una mira sotto porta piuttosto inguardabile, è anche poco considerato dai tecnici, come ricordato da alcuni ripetuti siparietti tra il presidente Ferlaino, che spinge per vedere in campo questo costoso gioiello, e il mister Mazzone che risponde “Se m’incavolo, lo faccio giocare sul serio!”. A nulla valgono le notevoli interviste rilasciate ai giornali locali e nazionali, nelle quali, oltre a parlare spesso in terza persona (altra prova di un’umiltà evidentemente non eccelsa), dice di aver bisogno di tempo per capire il calcio italiano e per entrare nei vari meccanismi, oltre che ovviamente di spazio per giocare. Il dato inconfutabile è che Calderón viene prontamente fatto fuori a gennaio, tornando all’Independiente, che lo paga circa un terzo di quanto aveva incassato d’estate: insomma, un vero pacco, anche dal punto di vista economico.
Scacciato da Napoli, dove è rimasta la tradizione di chiamare “Calderón”i bidoni di ogni calciomercato, questo giocatore si ricostruisce un’apprezzabile carriera tra Independiente, Estudiantes, Argentinos Juniors, Arsenal de Sarandí e due squadre messicane, con anche qualche prova memorabile come un gol da oltre 40 metri segnato nel 1998 al Boca Juniors: tuttavia, le buone prestazioni in questi campionati non sono sufficienti a farlo rientrare nel giro della Selección, né tantomeno a concedergli una seconda chance in Europa, anche a causa di un carattere difficilmente gestibile. Certo, forse i 200 gol in carriera, tra Argentina e Messico, sono una testimonianza del suo buon talento: inoltre, il Napoli di quella dannata stagione non era certo l’ambiente migliore dove confermarsi; resta il fatto che comunque, per demeriti propri o per sfortuna, José Luis Calderón è ricordato da tutti gli appassionati di calcio, non solo da quelli partenopei, come uno dei fiaschi più colossali della storia calcistica italiana.
In effetti fu un fiasco colossale, così come Roberto Trotta alla Roma più o meno nello stesso periodo. Eppure non erano due giocatori proprio scarsi: Trotta era stato un pilastro del Vélez campione del mondo nel 1994, mentre Calderón i suoi goal bene o male li ha sempre fatti. Il problema è che il calcio italiano è spietato: per informazioni rivolgersi ai Palloni d’Oro Sammer, Rivaldo e Stoichkov…
O Patrick Kluivert, per dire un altro che certo non era scarso, ma che in Italia, col mio Milan, collezionò figuracce. Grandi giocatori, come quelli che hai citato tu, incapaci di adattarsi al nostro particolarissimo calcio.