PARIGI E ROLAND GARROS: LA STORIA CONTINUA

Dopo un anno di incertezza, la Federazione tennistica francese ha deciso: la sede del Roland Garros sarà Parigi anche dopo il 2016.

Roland Garros 1928Il Roland Garros dovrebbe restare a Parigi. Tra le sue mura si può respirare la storia del tennis. È importantissimo; e se ci si dovesse trasferire, anche in una struttura più grande, perderemmo tutti una parte della nostra anima” (Rafael Nadal)

Dei quattro complessi del Grande Slam, il Roland Garros è da molto tempo il più piccolo. Dopo che tra gli anni settanta e ottanta gli Open degli Stati Uniti e di Australia sono stati trasferiti in strutture più periferiche e decisamente più imponenti, e dopo i più recenti ampliamenti del complesso di Wimbledon, da più parti si era chiesto un adeguamento anche per il Roland Garros.

Effettivamente, con i suoi 8,5 ettari di superficie, il complesso parigino appariva quasi lillipuziano, se confrontato con i 14 ettari di Flushing Meadows e i 19 di Wimbledon e del Melbourne Park. I campi francesi dalla terra rossa richiedevano una ristrutturazione; e per questo, già nel 2008 il comune di Parigi, in quanto proprietario dell’area, aveva lanciato una gara per il progetto di ampliamento, ottemperando alla richiesta della Federtennis francese, alla disperata ricerca della grandeur perduta.

Ma all’inizio del 2010, la federazione prese la decisione di vagliare altre ipotesi, preoccupata dai tentennamenti del sindaco di Parigi, il socialista Bertrand Delanoë, stretto tra la pressione degli alleati ecologisti e quella dei comitati dei residenti del quartiere adiacente di Porte d’Auteuil, contrari alla imminente cementificazione, e soprattutto alla distruzione di una serra storica alla fine dei lavori.

Era stato quindi deciso di opporre tre ipotesi alternative a Parigi: Versailles, Gonesse, e la sede di Eurodisney, Marne la Vallée. Tutte erano meno suggestive dal punto di vista della memoria sportiva, ma presentavano progetti d’avanguardia architettonica, tali da farle diventare potenzialmente i complessi tennistici più grandi al mondo.

Dopo che alcuni grandi tennisti del momento, tra i quali Roger Federer e Rafael Nadal si erano schierati con decisione per il mantenimento del Roland Garros nella sede attuale, ieri la Federtennis francese ha riunito i suoi 195 membri per prendere una decisione definitiva. E con una maggioranza superiore ai 2/3, come richiesto dal regolamento, ha scelto di far prevalere la storia e la tradizione di Parigi su tutte le altre concorrenti.

E la storia del complesso del Roland Garros risale al 1927, quando venne decisa la costruzione di un moderno impianto tennistico, come degna cornice per la finale di Coppa Davis tra gli USA e la Francia, rappresentata a quell’epoca da un quartetto, soprannominato I quattro moschettieri: Jacques Brugnon, Jean Borotra, Henri Cochet e René Lacoste. Il nuovo stadio avrebbe preso il posto dello Stade Francais, a condizione che venisse intitolato ad uno dei membri del suo sport club; e per questo gli venne dato il nome di Roland Garros, un aviatore precursore di Charles Lindberg, detto anche “L’uomo che bacia le nuvole”, e morto sul campo poco prima della fine della Grande Guerra, anche se appassionato più al rugby che al tennis. Lo stadio, che durante l’occupazione nazista fu tristemente utilizzato come campo di concentramento per detenuti politici ed ebrei, venne ampliato più volte, ed affiancato tra il 1980 e il 1994 da due nuovi di capienza inferiore.

La delibera della federazione ha fatto tirare un sospiro di sollievo alla maggior parte degli appassionati di tennis francesi, compreso il sindaco Delanoë, terrorizzato dall’idea di perdere anche gli internazionali di Francia, dopo la sconfitta per la sede delle olimpiadi 2012 a favore di Londra. Le polemiche però non sono mancate ugualmente, e i verdi e il comitato di quartiere di Porte d’Auteuil hanno preannunciato una battaglia legale contro i lavori di ampliamento del complesso, che porteranno la superficie a 13,5 ettari, compreso un nuovo stadio da 5.000 posti, proprio la dove sorge la vecchia serra.

Questi lavori graveranno sul bilancio parigino per un budget di circa 250 milioni di euro, da ribaltarsi comunque interamente alla Federtennis, per terminare nel 2016, quando sarà inaugurato il nuovo Roland Garros in versione allargata, con una capacità di 55.000 spettatori complessivi, al posto dei 35.000 attuali, e con una copertura rimovibile elettronicamente, sul modello di quella già in uso al campo centrale di Wimbledon.

GIAPPONE: TRAVOLTO DAGLI SCANDALI, IL SUMO ENTRA NEL TUNNEL

La parabola discendente del Sumo, l’anima profonda di un Giappone globalizzato che guarda sempre più a Calcio e Baseball.

Sumo - 1861“Ai miei tempi gli incontri truccati erano parte integrante del sumo; eppure nessuno di noi si sentiva in colpa per questo.” (Keisuke Itai, lottatore professionista di sumo tra il 1978 e il 1991)

Date le microscopiche dimensioni, lo scandalo delle scommesse clandestine che in Giappone sta travolgendo il sumo, farebbe solo sorridere noi italiani, avvezzi a livelli ben più elevati. Infatti, già lo scorso luglio l’inchiesta dei magistrati giapponesi, aveva scoperto che anche i lottatori di sumo, equiparati a semidei dai più nostalgici tradizionalisti del sol levante, erano coinvolti nel giro delle scommesse illegali su alcuni incontri di baseball, per valori intorno a un paio di migliaia di euro. Dalle ultime intercettazione di alcuni sms di alcuni lottatori, però gli inquirenti sono arrivati a sospettare che anche gli stessi incontri di sumo siano stati in qualche modo truccati.

Dietro queste scommesse sembra che aleggi l’ombra della Yakuza, la storica organizzazione criminale nipponica, ormai quasi del tutto soppiantata dalla ben più rampante mafia cinese. Secondo i giornalisti specializzati, il mondo del sumo vive sotto l’imbarazzante tutela della Yakuza da almeno un secolo, ma il colpo all’immagine di questo sport questa volta è stato devastante. Se già in estate lo scandalo aveva prodotto come effetti a catena: la cancellazione delle gare del Basho di Nagoya, uno dei sei principali tornei annuali di sumo, le dimissioni del presidente della federazione nazionale, e il ritiro di uno sponsor milionario come Fuji Xerox, proprio ieri è partito un altro siluro letale. Anche il Basho di Osaka di questa primavera è stato annullato dal programma, almeno finché l’inchiesta sulle scommesse non chiarirà definitivamente tutti gli aspetti di questa vicenda.

Paragonato ad altri sport di punta, come il calcio o il baseball, il sumo non è altrettanto allettante per i propri atleti. Il reddito annuo di una star del sumo corrisponde a circa 200mila euro annui, poco più di quello di un giocatore della serie B italiana. E in aggiunta, un calciatore può gestirsi la vita privata più o meno a proprio piacimento, mentre ogni sumotori è costretto a vivere come un asceta. Il sumo, in quanto sport antico più di 1.500 anni, mantiene gelosamente intatti i propri riti liturgici di origine scintoista: anima ed origine delle virtù giapponesi. Ai lottatori è imposto di vivere in comune sotto la direzione di un maestro, con programmi quotidiani da caserma ottocentesca, di sottoporsi a una dieta all’ingrasso datata un migliaio di anni fa a base di banane, patate, cavoli, chanko-nabe, uno stufato ipercalorico, salsa di soia, riso e birra, in quantità industriali, di acconciarsi i capelli come una geisha, e di indossare durante le gare un goffissimo perizoma di seta, simile a un maxi pannolone, lungo nove metri e chiamato mawashi.

Inevitabilmente, questa grave carenza di glamour, unita a un rapporto costi benefici poco conveniente, ha allontanato i giovani giapponesi dalla pratica del sumo, tanto che i dirigenti della federazione si sono visti costretti ad aprire le frontiere a lottatori stranieri: cinesi, sudcoreani, mongoli, russi ed europei dell’est. I puristi hanno visto questa apertura come un affronto a una disciplina che, in quanto simbolo del Giappone, non avrebbe mai dovuto ricorrere a modelli d’importazione.

La crisi del sumo oggi è una realtà ineludibile; e stretto tra la morsa della concorrenza degli sport internazionali e le ultime disavventure giudiziarie, sta rischiando di vedersi limitati i propri confini come una riserva indiana. I tempi, in cui era circondato da un’aurea di religioso rispetto (e di impenetrabilità), tanto che anche l’imperatore Hirohito non mancava mai di presenziare ai basho di Tokyo, sono lontani. Le polemiche e gli scandali hanno invece date decisamente più recenti, e in un ipotetico libro nero (ma neanche troppo) del sumo si potrebbero riassumere così gli episodi storici più tormentati:

Gennaio 1932: Provati dalle durissime condizioni di vita dell’epoca, trentadue campioni di sumo, incluso uno yokozuna (il massimo livello per questo sport, considerando che dal 1684 ad oggi, solo 69 lottatori lo hanno raggiunto), entrano in sciopero, reclamando paghe più alte, meno ore di allenamenti e il diritto a una pensione. Le rivendicazioni non vengono accettate, e molti degli atleti scioperanti verranno poi squalificati.

Gennaio 1968: Takamiyama Daigorō, al secolo Jesse James Wailani Kuhaulua, statunitense delle Hawaii, è il primo lottatore non giapponese a diventare Makuuchi, professionista di massima divisione. Questo tabù era stato comunque parzialmente infranto nel 1961 da Taiho, formalmente cittadino giapponese, anche se nato nell’isola di Sakhalin da madre giapponese e padre ucraino. Taiho, trapiantato a Hokkaido, la zona più arretrata del paese, era stato anche il precursore di un trentennio di dominio hokkaidese nel sumo.

Luglio 1985: Ancora un hawaiano, Konishiki Yasokichi, arriva a un gradino più alto del suo predecessore, e diventa sekiwake. Più tardi, confesserà al New York Times: “Se fossi stato un giapponese, mi avrebbero promosso a yokozuna”, accusando di xenofobia i dirigenti nipponici.

Luglio 1992: Un giovanissimo lottatore di quindici anni muore, stroncato da un infarto, durante il torneo di Nagoya. I media giapponesi mettono sotto accusa l’alimentazione forzatamente ipercalorica a cui sono sottoposti gli atleti.

Gennaio 1993: Akebono Tarō, ennesimo hawaiano, conquista il titolo di yokozuna.

Febbraio 2000: Keisuke Itai, ex sumotori, riferisce al settimanale Shūkan Gendai che durante la propria carriera di professionista, tra il 1978 e il 1991, almeno l’80% degli incontri erano truccati. Già nel 1996 la stampa giapponese aveva parlato di intromissioni della Yakuza per alterare le gare di sumo.

Marzo 2000: La governatrice della prefettura di Osaka chiede di potere salire sulla pedana di gara, il dohyo, per la cerimonia di premiazione dei vincitori del basho di primavera. Secondo il rituale di derivazione scintoista, a una donna, in quanto impura, non può essere permesso di violare la sacralità di una pedana di sumo. La sua richiesta, pur suscitando divisioni nel paese, verrà respinta dalla federazione.

2003: Una cinquantina di lottatori stranieri, originari soprattutto dall’Europa dell’est e provenienti in buona parte dalla lotta libera, diventano professionisti, invadendo i circuiti giapponesi di sumo.

Agosto 2007: Il mongolo Asashōryū Akinori, diventato il 68° yokozuna della storia, e già sanzionato per indisciplina, salta un torneo in Giappone e torna dalla famiglia a Ulan Bator, adducendo problemi fisici. Viene però ripreso dalle telecamere mentre gioca una partita di calcio di beneficenza in perfetta forma. Per questo sarà squalificato per due tornei consecutivi e il suo stipendio sarà ridotto del 30%.

Febbraio 2008: Un giovane lottatore muore per le percosse subite dai propri compagni più anziani dietro ordine del maestro. La federazione nasconde le cause della morte, dichiarando in un primo tempo che si era trattato di un attacco cardiaco. I responsabili saranno processati e condannati a pene tra i tre e i sei anni di carcere.

Agosto 2008: Tre sumotori russi vengono trovati positivi alla cannabis: le loro abitazioni sono perquisite dalla polizia (il consumo di cannabis è un reato secondo la legge giapponese), e vengono reperite modeste quantità di marijuana. Lo scandalo è un’occasione per riaccendere le polemiche sull’apertura delle frontiere.

2010/2011 (oggi): Un’inchiesta partita dalla magistratura nipponica sulle scommesse clandestine nel baseball, porta a indizi che gettano ombre pesanti sulla regolarità degli incontri di sumo.

LA FORMULA 1 ISPIRA HOLLYWOOD: DUE NUOVI FILM SU AYRTON SENNA E JAMES HUNT

Il film documentario sulla vita di Ayrton Senna sarà nei cinema italiani dal 11 febbraio. Appena cominciata, invece, la lavorazione della fiction su James Hunt.

Ayrton SennaBisogna risalire al 1999, l’anno in cui è stato distribuito Operación Fangio”, film argentino di modesto rilievo sul rapimento di Juan Manuel Fangio da parte dei rivoluzionari castristi cubani nel 1958, per ritrovare la storia della Formula 1 nel cinema. Ma in queste settimane si è avuta la conferma della ripresa di interesse da parte degli studios internazionali sull’automobilismo d’antan, con l’annuncio di due film, un documentario e una fiction, su due campioni, dalle storie personali profondamente diverse, che hanno dominato la scena delle corse mondiali tra gli anni settanta e i novanta: il brasiliano Ayrton Senna e l’inglese James Hunt.

Il film documentario su Ayrton, distribuito dalla Universal Pictures e intitolato semplicemente “Senna”, è stato presentato il 26 gennaio, contemporaneamente al Bif&st di Bari e al Sundance Festival di Salt Lake City, dopo quasi due anni dall’inizio delle riprese. Con il conforto del World Cinema Award, conquistato proprio oggi al Sundance Festival, il film, made in UK, arriverà nelle sale italiane il prossimo 11 febbraio, prima di approdare alla versione dvd e blue ray un paio di mesi dopo. Accolto piuttosto bene dalla critica statunitense ed europea alle proiezioni in anteprima, è stato presentato la scorsa settimana dal trentottenne regista anglo indiano Asif Kapadia e dallo sceneggiatore e produttore Manesh Pandey, nel corso di in un’intervista al giornale online americano F1blog.com.

Asif Kapadia, specializzato in cortometraggi, ma con qualche lungometraggio di discreto successo nel curriculum, a suo ammettere era completamente a digiuno di Formula 1 e non aveva mai sentito nominare Ayrton Senna, fino alla primavera del 2006, quando gli è stato presentato il progetto proprio da Manesh Pandey. L’idea, che inizialmente doveva incentrarsi sul dualismo tra Ayrton Senna e Alain Prost, lo ha convinto a pieno; e per quattro anni la troupe si è immersa nel personaggio, visionando un immenso materiale d’archivio, messo a disposizione dall’associazione dei costruttori di Formula 1 di Bernie Ecclestone, dalla televisione brasiliana e dalla famiglia dello stesso Senna. Alla fine della lavorazione era stato partorito un film lungo cinque ore, forse più adatto a una serie televisiva, ma che per essere portato nelle sale, è stato inevitabilmente ridotto all’attuale durata di 104 minuti.

Con un’apprezzabile scelta di campo, Kapadia ha deciso di rendere protagoniste le immagini d’archivio e ha deliberatamente risparmiato il pubblico dagli stucchevoli stacchi con le interviste a mezzo busto, onnipresenti nei documentari di produzione americana. E a suo parere, tra le sequenze del film destano particolare emozione quelle della prima vittoria in patria di Senna al GP del Brasile del 1991, anche grazie alla colonna sonora del compositore brasiliano Antonio Pinto.

Notizie molto più essenziali arrivano invece sul film Shunt: The Story of James Hunt, annunciato lo scorso metà dicembre, sul pilota inglese James Hunt, campione mondiale nel 1976, playboy di fama internazionale (secondo l’omonima biografia di Tom Rubython, a cui il film si ispira, avrebbe avuto all’attivo cinquemila conquiste femminili), anticonformista, nonché amante della dolce vita e degli eccessi, morto per un arresto cardiaco nel 1993 a quarantacinque anni. La sua parte dovrebbe essere affidata al giovanissimo attore inglese Alex Pettyfer, mentre la produzione porterebbe la targa della Dreamworks di Steven Spielberg, che ha acquisito per l’occasione i diritti sulla biografia di Tom Rubython.

UN NUOVO FILM SU BILL JOHNSON: LA STORIA TRISTE DI UN DISCESISTA TEMERARIO

Il 30 gennaio sarà proiettato in anteprima al Film Festival di Santa Barbara “Downhill: The Bill Johnson Story”, documentario sulla vita di Bill Johnson.

Bill JohnsonQuando la fama e il successo arrivano all’improvviso, altrettanto all’improvviso possono andarsene via.” Phil Mahre, campione statunitense di sci alpino degli anni ’80, a proposito di Bill Johnson.

Un nuovo film documentario storico sportivo sta per essere presentato in prima visione domenica 30 gennaio al Film Festival di Santa Barbara, in California. Prodotto dal network statunitense di video on demand, The Sky Channel, è stato diretto dall’esordiente trentasettenne regista californiano Zeke Piestrup, che vanta anche una breve carriera di discesista a livello juniores nel proprio curriculum. Il film tratteggia la storia di una meteora dello sci alpino degli anni ’80, Bill Johnson, che negli USA visse un momento di gloria nel febbraio del 1984, quando si aggiudicò a sorpresa, primo americano della storia, la medaglia d’oro nella discesa libera, lasciandosi alle spalle campioni del calibro degli svizzeri Peter Müller e Pirmin Zurbriggen, e dell’austriaco Franz Klammer.

La sua inaspettata vittoria mandò in delirio gli sportivi statunitensi, anche se fece storcere il naso ai puristi dello sci del nostro continente, presi in contropiede da questo discesista che affrontava le curve in modo spericolato, e proprio quando sembrava perdere l’equilibrio, riusciva a rimettersi in perfetto assetto, ancora più saettante di prima. Il giorno dopo la gara, ironizzando sulla sua adolescenza difficile, durante la quale aveva conosciuto il riformatorio, un quotidiano britannico era arrivato ad intitolare: “Sarajevo: un ladro d’auto ha rubato la medaglia d’oro.

Insensibile alle frecciate, il ventitreenne Bill Johnson si sentiva trascinare dal vento del successo, e con un pizzico di cinico ottimismo, a una domanda di un giornalista sul significato della sua vittoria olimpica aveva replicato: “Vuol sapere che significa per me? Milioni. Tanti milioni.” Come personaggio aveva raccolto subito la simpatia del pubblico americano, e un anno dopo sarebbe stato realizzato un film televisivo sul suo trionfo di Sarajevo.

Ma dopo avere vinto altre due gare di coppa del mondo nelle discese di Aspen in Colorado e di Whistler Mountain in Canada nel marzo 1984, un infortunio prima al ginocchio e poi alla spalla avevano oscurato la stagione successiva. Il recupero auspicato non sarebbe avvenuto, e le sue successive apparizioni non lo avrebbero più visto nelle posizioni di alta classifica. Gli allenatori della squadra statunitense erano dell’avviso che la sua condizione di forma non era più ottimale, e quando glielo avevano rinfacciato, lo avevano fatto schiumare di rabbia. Ne era scaturito un alterco verbale che il passionale Bill aveva condito con insulti da caserma. Si stavano avvicinando i giorni delle Olimpiadi di Calgary 1988, e si era così giocato le proprie ultime chance di prendervi parte con lo squadrone a stelle e strisce.

L’anno dopo, ad appena ventinove anni, annuncia il ritiro dalla vita sportiva, ed insieme alla moglie intraprende una nuova esistenza itinerante in giro per gli Stati Uniti, con un camper che fungerà da nuova casa per quasi dieci anni. Ma passato l’entusiasmo romantico per questa avventura sulle orme dei personaggi di Kerouac, e dilapidati rapidamente i guadagni del dopo olimpiade, la coppia si troverà alle prese con gravi difficoltà economiche, e sopravvivrà di espedienti, come l’organizzazione, poi fallita, di un circo bianco di vecchie glorie dello sci, insieme ad altre sfortunate incursioni nell’imprenditoria sportiva.

A questo si aggiungerà nel 1992 la tragedia della perdita del primo dei tre figli per un incidente domestico, finché alla fine degli anni novanta Bill Johnson verrà abbandonato dalla moglie col resto della famiglia al seguito. Questa batosta gli si rivela particolarmente difficile da sopportare; e a quel punto il suo desiderio principale diventa quello di riconquistare la compagna perduta. Comincia così a balenargli nella mente un colpo ad effetto: ritornare a gareggiare nella discesa libera, possibilmente per le imminenti olimpiadi di Salt Lake City. Anche in questo caso però la realtà si rivela più complicata dei sogni; e nonostante i duri allenamenti a cui si sottopone, ormai ultraquarantenne, non riesce ad essere sufficientemente competitivo nei confronti dei più giovani e fisicamente più esuberanti avversari.

La granitica volontà di farcela è superiore alla consapevolezza dei limiti fisici, e il 22 marzo 2001, mentre scende in prova prima di una gara nel Montana perde il controllo degli sci e rovina violentemente contro un blocco di neve ghiacciata. Gli spettatori ai bordi della pista sentono un grido d’aiuto straziante e disperato. I primi soccorsi arrivano dopo pochi istanti, ma il volto dell’ex campione è già coperto dal sangue che cola copiosamente dalla bocca e da un orecchio. Il trasporto in ospedale è altrettanto puntuale, e Johnson viene operato per rimuovere una vistosa emorragia cerebrale. La sua fibra da atleta riesce a salvargli la vita, ma gli effetti dell’incidente sono devastanti: le sue facoltà cognitive sono definitivamente compromesse, e l’intera parte destra del corpo è paralizzata irreversibilmente.

Dopo cento giorni di degenza in un centro di riabilitazione, la sua assicurazione sanitaria non gli ha permesso di restare altro tempo, e viene rimandato a casa per essere affidato alle cure dell’anziana madre. La notizia del suo incidente ha colpito profondamente il mondo dello sci americano, che si è prontamente mobilitato per raccogliere i fondi necessari alla sua assistenza. In particolare l’ex campione statunitense Phil Mahre, suo amico e protagonista del documentario “Downhill: The Bill Johnson Story” insieme a Franz Klammer e a lui stesso, non ha mai smesso di impegnarsi in iniziative di beneficienza per la sua causa.

A 48 ANNI HOLYFIELD RESISTE SUL RING

La sospensione del match per una ferita al sopracciglio permette a Evander Holyfield di conservare il titolo WBF dei pesi massimi. Il ritratto di un campione dall’immagine “buonista”, che dopo 35 anni di boxe esibisce ancora una forma smagliante.

Holyfield - WilliamsÉ Gesù a darmi la forza, è lui a muovere i miei pugni.”
Evander Holyfield

Il titolo mondiale WBF (acronimo di World Boxing Federation), non è proprio uno di quei trofei da ostentare con orgoglio in bacheca. Distanziata anni luce dalle quattro maggiori sigle internazionali: WBA, WBC, IBF e WBO, la WBF, sede legale in Lussemburgo e presidenza retta da un sudafricano bianco, vivacchia da un paio d’anni organizzando sfide tra pugili in disarmo, come quella di questa notte a White Sulphur Springs, nel West Virginia. A confrontarsi sono saliti sul ring il detentore, l’ormai 48enne vecchia (ma eterna) gloria Evander Holyfield e lo sfidante, il 38enne bahamense Sherman “Tank” Williams.

Quasi novant’anni insieme, i due pugili non hanno dato vita a un incontro particolarmente esaltante dal punto di vista agonistico, con un Williams sgraziato e appesantito, ma decisamente più efficace di un Holyfield, che a vederlo apparire sul ring, con tanto di fisico stilizzato da culturista, gli si sarebbero dati dieci anni di meno. Ma il peso dei 48 anni dell’ex campione mondiale dei massimi si è fatto sentire subito dopo la prima ripresa, quando lo si è visto in difficoltà sotto i potenti colpi del tozzo bahamense. Difficilmente Holyfield avrebbe potuto resistere per tutti i dieci round previsti da questa serata, battezzata dagli organizzatori con un pomposissimo “Redemption in America”, ma alla fine della terza ripresa una testata accidentale di Williams gli ha provocato una ferita all’arcata sopraccigliare, costringendo l’arbitro a dichiarare chiuso l’incontro con un verdetto di no contest, ovvero parità.

Considerato una sorta di anti-Tyson, il pio (a suo dire) Evander Holyfield ha improntato la propria carriera di pugile all’insegna della purezza stilistica e della correttezza, e ha cercato di costruire il proprio personaggio, anche nella vita privata, su un modello politically correct, che lo ha reso più popolare tra i bianchi yankee che tra gli afro americani. Da sempre praticante evangelico (ha fatto incidere anche un salmo della Bibbia sui pantaloncini da combattimento), non ha mai praticato troppo l’astinenza nella vita sentimentale. Almeno cinque dei suoi figli sono nati da altrettanti peccati extra coniugali, mentre le sue tre ex mogli hanno avuto a lamentarsi sia per il mancato pagamento degli alimenti che per le botte subite, tanto che l’anno scorso un giudice di Atlanta ha emesso un’ordinanza a suo carico di divieto di avvicinamento a meno di 500 metri dalla famiglia.

Nonostante queste contraddizioni tra atti di fede e vita reale, che potrebbero rimandare al gangster redento di Pulp Fiction interpretato da Samuel Jackson, la storia di Evander Holyfield è comunque un discreto esemplare di sogno americano. Cresciuto da una madre abbandonata dal marito in un sobborgo degradato di Atlanta insieme ad altri otto fratelli, è rimasto sempre a debita distanza dalle bande giovanili della sua zona, e nel 1980 si è diplomato a pieni voti alla Fulton High School. Essendo dotato di una predisposizione innata all’attività sportiva, si è cimentato con uguale successo in diverse discipline. Se fosse stato per lui, probabilmente avrebbe scelto il football americano; ma i suoi 188 centimetri di altezza erano stati considerati troppo pochi per i suoi selezionatori, e si era così dedicato anima e corpo alla boxe. La sua prima grande apparizione è datata 1984, alle Olimpiadi di Los Angeles, quando è arrivato a conquistare la medaglia di bronzo nei pesi massimi leggeri. L’anno dopo lo vedrà esordire come professionista, e la sua carriera diventerà un’ascesa trionfale, con la conquista del titolo unificato dei massimi nel 1990, e fino alla sfida cult del 28 giugno 1997 contro un Mike Tyson così inferocito da strappargli a morsi il lobo di un orecchio.

Secondo i giornalisti statunitensi, Evander Holyfield continua a restare disperatamente aggrappato al ring per potersi pagare i debiti contratti in vent’anni vissuti come un sultano, e per mantenere la sua enorme famiglia, composta da tre ex mogli e da una torma di figlioli legittimi e non solo. A nulla sono serviti i consigli dei suoi medici di interrompere l’attività dopo che gli era stata diagnosticata una patologia cardiaca nel 1994 e l’intimazione al ritiro da parte delle autorità pugilistiche dello Stato di New York per manifesta debolezza.

In un momento di enorme crisi della boxe, oggi dominata dai pugili dell’est europeo, la sua immagine continua ad essere appetibile per il mercato americano, dove gli incontri sono trasmessi unicamente sulle televisioni pay per view. Anche a causa di questa vera e propria barriera tariffaria, la boxe oggi è sempre meno popolare tra gli afro americani dei sobborghi; e il sempreverde Holyfield, personaggio “noioso come una partita di canasta” secondo la definizione di un avversario scomparso nell’oblio, è ormai un mito “borghese” per l’America di oggi.