LA NAZIONALE FRANCESE VESTE NIKE

Dopo quasi quarant’anni di onorato servizio, la maglia della nazionale francese di calcio non avrà più lo storico marchio Adidas. Il 9 febbraio, con Francia-Brasile, la prima uscita ufficiale dell’era Nike.

Maglia FranciaA me sembra una bella maglietta, anche se mi ricorda un po’ quella dell’Italia.
Laurent Blanc, commissario tecnico della nazionale francese.

È stata presentata ufficialmente ieri sera a Parigi la nuova maglia della nazionale francese a marchio Nike, in stile retrò anni ’50, interamente blu, senza righe, bande e losanghe, e con chiusura a polo, sul modello di quella italiana. In veste di indossatori, hanno sfilato per l’occasione: Yann M’Vila, Alou Diarra, Abou Diaby e Florent Malouda.

Come deciso già nel febbraio 2008, il contratto tra la Federazione francese e la Nike, durerà dall’inizio di quest’anno fino al 2018. E in questi sette anni porterà nelle boccheggianti casse del calcio transalpino circa 43 milioni di euro all’anno a titolo di sponsorizzazione: la cifra più alta della storia, buona per fare arrossire i 20 milioni di euro annui incassati allo stesso titolo da un’altra potenza calcistica come la Germania.

Per l’Adidas, eterna rivale della Nike sul terreno dell’abbigliamento (e non solo) sportivo, questa sconfitta commerciale è piuttosto dura da metabolizzare, e segue quelle altrettanto recenti subite in Brasile e in Olanda. Infatti, l’inizio del connubio calcistico tra Francia e Adidas risaliva al 1972, quando la multinazionale tedesca aveva rimpiazzato il colosso nazionale di Le Coq Sportif come fornitore ufficiale.

La celebre maglietta blu, anzi bleu, già con lo stemma del galletto, ma ancora orfana di sponsor, aveva visto la luce il 19 marzo 1919 a Bruxelles, in occasione della partita amichevole contro il Belgio. Tra i geloni invernali e le saune estive dei calciatori, a quell’epoca si adottavano tessuti penitenziali come la lana e la flanella, e con questi si sarebbe andati avanti fino alla liberazione degli anni ’50, grazie all’arrivo del cotone.

Il fregio dello sponsor sul petto, a fianco dell’immancabile coq, arriverà invece nei primissimi anni ’70; e dal 1972 l’Adidas imporrà immediatamente il proprio inconfondibile stile con le tre righe bianche verticali sulle maniche, sia sulla maglia blu ufficiale, che su quella rossa di riserva. A parte la breve parentesi del 10 giugno 1978 per la partita del Mondiale d’Argentina contro l’Ungheria, quando, causa un disguido, verrà sfoderata una scioccante maglia a strisce bianco-verdi, il primo cambiamento si avrà nel 1980, con Michel Platini e compagni a esibirsi con una scollatura a V adornata di righe gessate bianche verticali.

Ma per il coup de theatre, bisognerà lasciar trascorrere tutto il decennio, e nel 1990 gli stilisti dell’Adidas proporranno le nuove spalle tratteggiate di fiammelle rosse su uno sfondo bianco: una moda che sarà riproposta con alcune varianti (come le losanghe, sempre bianche e rosse, lungo un fianco) per tutti gli anni ’90.

Dal decennio scorso, poi, un discreto e graduale ritorno a una maggiore essenzialità, fino all’ultima partita della nazionale francese in veste Adidas: il 17 novembre 2010 a Wembley contro l’Inghilterra.

10 giugno 1978 Michel Platini

ALGERIA: CALCIO E DISORDINI DAL 1988 A OGGI

La Federazione algerina ha sospeso il Campionato per un mese per circoscrivere la protesta che infuria.

“La musica e il calcio non hanno frontiere. Siccome trasmettono un’idea di festa, sono osteggiate da quelli che vogliono toglierci la libertà.” (Cheb Mami, cantante Raï algerino).

La decisione della Federcalcio algerina è di lunedì 10 gennaio: il campionato di calcio sarà sospeso per un mese, e non riprenderà prima del 10 febbraio. È la contromisura per i disordini scoppiati nei primi giorni dell’anno, in seguito ai rincari dei generi alimentari: olio e zucchero in particolare. Eppure le recenti sommosse non sono scoppiate all’interno degli stadi, ma nelle piazze e nelle vie delle più grandi città algerine: Orano, Constantine, Sétif, e soprattutto ad Algeri, dove si sono concentrate nel quartiere di Bab-el-Oued, l’epicentro della drammatica rivolta del cous cous dell’ottobre 1988.

Ma gli stadi di calcio rappresentano uno degli incubi peggiori del governo algerino. Diversamente che nei luoghi di lavoro, nei negozi, nei bar, sui mezzi pubblici e per le strade, dove la popolazione mantiene un atteggiamento estremamente guardingo, e pesa accuratamente le parole che dice, lo stadio è una zona franca. E come accadeva qualche decennio fa anche nei defunti regimi realsocialisti, sulle gradinate la libertà di espressione è garantita. Qui non solo è lecito ingiuriare il tifoso avversario o il proprio giocatore che svirgola il pallone, ma si può anche scaricare la frustrazione della vita quotidiana, magari infarcendo un’imprecazione con un insulto al governo, e ricevendo in cambio gli applausi convinti dei vicini di tribuna. Per questo motivo il regime algerino ha paura della potenzialità eversiva che può dirompere da uno stadio di calcio, e per circoscrivere la protesta ha deciso di mettere sotto chiave il campionato, almeno fino al ritorno della normalizzazione sperata. Dalla rivolta del 1988, che costò 162 morti e migliaia di feriti secondo le fonti ufficiali, ma che fornì anche le basi per l’avvio di un effimero processo di democratizzazione, degenerato quasi sul nascere in una lunga guerra civile strisciante tra la casta burocratico-militare al potere e gli estremisti islamici, il calcio ha giocato un ruolo di primo piano, al di là del significato sportivo intrinseco.

Ma ripercorriamo gli episodi di cronaca più drammaticamente significativi:

14 ottobre 1989 – Durante la partita tra la squadra locale del Mouludia Olimpique di Constantine e l’Entente Sportive di Sétif, un gruppo di ultras del Mouludia, armati di coltelli e spranghe, invade il campo, aggredendo i giocatori ospiti, e ferendone gravemente due, sotto gli occhi di sessantamila spettatori. In seguito a questo episodio e ad altri precedenti quasi altrettanto gravi, la Federcalcio algerina decide di sospendere il campionato per una giornata.

5 ottobre 1994 – Alì Tahanuti, presidente della Jeunesse Sportive di Bordj Menaiel, una squadra di prima divisione, viene assassinato da un commando armato di terroristi islamici. Il movente dell’attentato viene individuato nella calcio-fobia degli integralisti. Anche in quest’occasione le partite di campionato vengono sospese per un turno.

21 gennaio 1995 – Questa volta tocca a Rachid Haraigue, presidente della Federcalcio e uomo vicinissimo alla giunta militare al potere, soccombere sotto i colpi di un altro commando di terroristi. Dalla seconda metà degli anni novanta il calcio ritorna comunque a riempire gli stadi dell’Algeria, sia grazie alla diminuzione d’intensità della guerra civile, che come riflusso al progressivo disinteresse generale nei confronti della politica.

6 ottobre 2001 – La super-amichevole tra Francia e Algeria, organizzata allo Stade de France di Parigi a suggello della rappacificazione tra i due paesi un tempo nemici, viene interrotta pochi minuti prima del termine da un’invasione di campo dei giovanissimi tifosi franco algerini. Intervengono le brigate antisommossa francesi per riportare l’ordine sia nel campo che sugli spalti.

22 giugno 2002 – L’ennesimo commando armato del GIA (Gruppo Islamico Armato) irrompe in un campo di calcio, dove stanno giocando due squadre di ragazzini, provocando 6 vittime tra i giovanissimi calciatori.

26 maggio 2008 – Al termine del campionato, che vede il Meloudia di Orano retrocedere in seconda divisione, i tifosi inferociti mettono a soqquadro alcuni sobborghi della seconda città dell’Algeria. La polizia risponde con centinaia di arresti. Secondo gli organi d’informazione indipendenti, il calcio sta ormai diventando il pretesto per lo sfogo della frustrazione da parte della giovanissima popolazione algerina (il 75% degli algerini ha infatti meno di trent’anni).

18 novembre 2009 – Il rocambolesco spareggio di Khartoum, in Sudan, tra le nazionali dell’Egitto e dell’Algeria, finisce con la vittoria di quest’ultima, e la conseguente conquista della qualificazione ai mondiali 2010 in Sudafrica. Scoppiano incidenti tra le tifoserie contrapposte, che danno origine anche ad una crisi diplomatica. I festeggiamenti per la vittoria nella capitale algerina, diventano l’occasione per una caccia all’uomo nei confronti dei cittadini egiziani. Il bilancio di queste manifestazioni di giubilo si rivela pesantissimo: 14 morti e 250 feriti. È la pietra tombale sul vecchio ideale nasseriano della fratellanza araba.

TENNIS: FOREST HILLS GRAZIATO. PER ORA.

L’assemblea del West Side Tennis Club salva lo storico stadio newyorkese, ma lo spettro demolizione aleggia ancora.

La decisione finale dell’assemblea del West Side Tennis Club sulla demolizione dello storico complesso newyorkese di Forest Hills, dove fino al 1977 venivano disputati gli US Open di tennis, era attesa per il 23 settembre, ma il tornado che il mese scorso aveva colpito il Queens ha costretto il differimento a oggi.

I 246 membri presenti sui 291 del club hanno votato spaccandosi esattamente a metà: 123 voti a favore della demolizione per costruire un grande condominio esclusivo, e 123 contrari. Ma siccome il regolamento interno prevede una maggioranza qualificata dei 2/3 per l’approvazione di questo tipo di decisioni, la proposta di demolizione è stata bocciata; e lo storico e malmesso campo di Forest Hills può continuare, anche se faticosamente, a sopravvivere.

Era stato proprio eccependo gli altissimi costi a perdere per la manutenzione ordinaria, che la proprietà del West Side Tennis Club si era orientata a vendere lo stadio per una cifra di circa 9 milioni di dollari a una società immobiliare, la Cord Meyer Development Company, che avrebbe dovuto riconvertire l’area alla costruzione di palazzi residenziali.

A confermare però che Forest Hills non è ancora definitivamente salvo è stato il presidente dello stesso club newyorkese, Kenneth Parker.

Infatti Parker ha dichiarato oggi al New York Times che in futuro saranno comunque valutate anche nuove proposte. Del resto, la situazione economica dell’associazione è decisamente precaria, soprattutto in considerazione di questi costi di manutenzione del complesso, ormai in disuso e quasi diroccato.

Altri membri del West Side Tennis Club si sono invece mobilitati per reperire i fondi necessari ai restauri, appellandosi anche all’International Tennis Hall of Fame e alla US Tennis Association, e hanno fatto notare che malgrado le pessime condizioni dovute all’incuria, il vecchio complesso non ha ancora perduto il proprio fascino e il proprio valore dal punto di vista storico.

Giuseppe Ottomano

LIVERPOOL FC: NUOVO PADRONE, DEBITI VECCHI

I Reds, sommersi dai debiti, stanno per cambiare proprietario. Ma la situazione resta critica.

Il Liverpool sta per cambiare proprietario, ma dovrebbe continuare a restare in mani statunitensi. Dal duo composto dal settantaduenne magnate dell’imprenditoria sportiva, George Gillett, e dal suo socio, il sessantaquattrenne Tom Hicks, il fondatore della quasi omonima finanziaria Hicks, Muse, Tate & Furst, la gloriosa squadra inglese dovrebbe passare alla NESV, New England Sports Venture, che già controlla la Boston Red Socks, una delle squadre di baseball più titolate d’America.

Il condizionale è ancora indispensabile, e continuerà ad esserlo almeno fino alla fine della prossima settimana, poiché i due attuali proprietari hanno impugnato la decisione di vendita da parte del consiglio di amministrazione in carica, presieduto da Martin Broughton, il prestigioso manager inglese, attualmente anche alla guida di British Airways.

Il Liverpool era stato acquisito dai due soci statunitensi, Gillett e Hicks, nel febbraio 2007, al termine di una trattativa lampo con il passato presidente, David Moores. La loro offerta di 219 milioni di sterline aveva battuto sul filo di lana i concorrenti della DIC, Dubai International Capital, la società finanziaria della famiglia reale degli Emirati Arabi.

Inizialmente la coppia d’affari aveva suscitato qualche timida speranza tra i tifosi dei Reds, soprattutto per la comprovata esperienza di Gillett in materia sportiva. Quest’ultimo aveva trascinato a ottimi risultati la squadra canadese di hockey su ghiaccio dei Montreal Canadians, ed era stato uno dei soci di maggioranza degli Harlem Globetrotters tra gli anni sessanta e settanta. Ma anche Hicks aveva potuto sbandierare un buon curriculum nel settore, vantando partecipazioni nell’altra formazione di hockey dei Dallas Stars e in quella di baseball dei Texas Rangers, dove era anche in società con George W. Bush, allora semplice, si fa per dire, uomo d’affari. Qualche non immotivato timore lo suscitavano invece alcuni precedenti di Gillett, che nel 1992 aveva trascinato il proprio gruppo finanziario alla bancarotta.

Durante la loro amministrazione, i timori avevano avuto ragione delle speranze; e come scritto oggi da Leonardo Maisano sul Sole 24 Ore, il colore rosso del Liverpool era passato dalle maglie ai bilanci, tanto che l’esposizione debitoria era precipitata fino alla cifra spaventosa di 351 milioni di sterline. La spiegazione di un simile passivo era dovuta, oltre che ad una serie di campagne acquisti a dir poco dissennate, alla necessità di dotarsi di un nuovo stadio in sostituzione del glorioso, ma ormai angusto Anfield Road. I finanziamenti per questo nuovo impianto, da costruirsi nell’area di Stanley Park, e i cui lavori avrebbero dovuto iniziare nell’autunno del 2008, erano stati concessi da Royal Bank of Scotland e da Wachovia, la finanziaria della statunitense Wells Fargo Bank, per 280 milioni di sterline.

Quando poi Gilletts e Hicks, incalzati dalle due banche, hanno dovuto prendere atto dell’impossibilità di fare fronte ai debiti, nell’aprile di quest’anno si sono messi a cercare un nuovo compratore, incaricando proprio il manager Martin Broughton, al quale hanno dato mandato pieno per portare a termine l’affare.

Si è così manifestata una serie convulsa di voci di offerte e conseguenti smentite, tra cui la parentesi di un velleitario tentativo di scalata da parte dei tifosi del Liverpool, con l’ambizione di raccogliere centomila soci sostenitori, disponibili a versare una quota di 5mila sterline a testa. Questa iniziativa aveva anche ricevuto l’appoggio del ministero della cultura del governo Brown, tramite il Supporters Direct, un ente britannico di diritto pubblico, nato nel 2000 al fine di incentivare l’azionariato popolare nelle squadre sportive, ma era abortita in capo a pochi giorni.

Dal canto suo, Broughton si è messo immediatamente all’opera, e ha vagliato, per poi cestinare, diverse offerte da altrettanto diversi potenziali acquirenti, provenienti soprattutto da paesi dell’Asia e del Medio Oriente, tra cui Hong-Kong, Siria, India e Kuwait. Ma solo ieri ha annunciato l’offerta decisiva: quella degli statunitensi di NESV, che hanno messo sul piatto 300 milioni di sterline.

Secondo i conteggi di Gillett e Hicks, l’offerta non è all’altezza del valore reale del Liverpool FC, e i due hanno tentato, rintuzzati però da Broughton, di sostituire due membri del consiglio di amministrazione con altrettanti uomini di loro assoluta fiducia: ovvero con uno dei figli di Hicks ed uno dei suoi dipendenti.

Sulla carta la mossa della NESV dovrebbe essere coronata da successo, dal momento che, oltre all’appoggio degli amministratori in carica, gode soprattutto di quello dei due principali creditori: Royal Bank of Scotland e Wachovia.

Per Gillett e Hicks non ci sono invece grandi speranze, anche se hanno impugnato quest’offerta. La sentenza su questo ricorso sarà emanata entro la metà di ottobre, quando anche il credito dei due colossi bancari andrà in scadenza. E se l’acquisto dovesse essere annullato, il Liverpool finirebbe in mano alle banche. Ma in questo caso e facendo i debiti scongiuri, il previdente Broughton ha annunciato che farebbe scendere in campo un ancora sconosciuto piano B. Sempre che non si tratti solo di un bluff.

Giuseppe Ottomano

IL CALCIO AL TEMPO DI PINOCHET

Un libro racconta il rapporto tra il calcio e la dittatura cilena.

“Quando si tratta di calcio, la gente non perdona” Augusto Pinochet

In Cile, diversamente che in Argentina, Uruguay e Brasile, gli altri paesi sudamericani governati da dittature militari tra gli anni Settanta e Ottanta, il calcio non aveva regalato spettacolari soddisfazioni al regime. Ma nonostante i mediocri risultati sportivi, la giunta guidata da Augusto Pinochet aveva assegnato al calcio, nelle fattezze dell’oppio dei popoli più che mai, un ruolo decisivo nella propria politica di governo.

E soprattutto, nei primi anni Ottanta, quando la crisi finanziaria aveva messo a nudo tutti i limiti dell’effimero e relativo benessere economico, ottenuto con paurosi sacrifici alla fine del decennio precedente, per i generali cileni il calcio aveva assunto il compito di distrarre l’opinione pubblica e la popolazione dalla dura realtà di tutti i giorni. Gli esempi delle gemelle dittature circostanti erano incoraggianti, come per l’Argentina, vincitrice del mondiale del 1978, per l’Uruguay, trionfatore al Mundialito del 1981, e per il Brasile, eterno protagonista, indipendentemente dai risultati.

Pinochet era intervenuto nel calcio a gamba tesa, imponendo i suoi fedelissimi nei posti chiave  della federazione e delle altre strutture direzionali, seguendo, forse senza neanche rendersi bene conto, l’esempio della politica sportiva di mussoliniana memoria. Allo stesso tempo aveva indotto il regime ad un’iperattività senza uguali nell’organizzazione di tornei calcistici, soprattutto quadrangolari, strombazzati in pompa magna dal coro univoco della stampa.

La storia di questo intreccio tra lo sport più seguito al mondo ed una delle dittature più feroci della storia recente, che abbraccia il periodo tra il 1973, anno del golpe militare contro il presidente Salvador Allende, e il ritorno alla democrazia nel 1990, è stata raccontata nel libro “A Discreción – Viaje al corazon del futbol chileno bajo la dictatura militar” (“L’arbitrio – Viaggio al centro del calcio cileno sotto la dittatura militare”).

A Discreción è l’opera prima di due giovanissimi neo giornalisti cileni: il ventiseienne Carlos Gonzáles Lucay e il ventiquattrenne Braian Quezada, che in due anni di lavoro hanno ricostruito gli avvenimenti, in particolare attraverso ventidue interviste a protagonisti dell’industria calcistica dell’epoca, ex militari, giocatori, giornalisti, presidenti di club e sociologi. Il libro, ovviamente in spagnolo, è stato presentato alla fine della scorsa settimana a Santiago del Cile, in contemporanea con l’uscita nelle librerie cilene.

Giuseppe Ottomano