L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI “TEAM LOTUS”

La scuderia di Formula 1 tornerà ad avere, dal prossimo anno, il suo nome originale.

Dalla stagione 2011 Lotus Racing potrà chiamarsi finalmente Team Lotus.

A prima vista non sembra cambi granché. Eppure questa novità simboleggia una resurrezione storica e un ritorno ufficiale a un nome quasi leggendario: quello della Team Lotus, la grande protagonista della Formula 1 negli anni sessanta e settanta, che presentava piloti del calibro di Jim Clark, Graham Hill, Jochen Rindt, Emerson Fittipaldi, Ronnie Peterson e Mario Andretti, prima di scomparire dal giro delle corse nel 1994.

L’avventura della Lotus era cominciata nel 1952, quando Colin Chapman, ex pilota della RAF e ingegnere fresco di laurea, l’aveva fondata con il compito di produrre auto sportive da vendere sul mercato. All’approdo alla Formula 1 era arrivata sei anni più tardi, proprio con la creazione della Team Lotus.

Due campioni erano stati subito sistemati alla guida: Graham Hill e Cliff Allison. Ma la prima vittoria ufficiale l’avrebbe regalata Stirling Moss il 29 maggio 1960, con il Gran Premio di Montecarlo.

Da quel momento i trionfi si sarebbero susseguiti in sequenza e in grande stile: con un totale di sei titoli piloti, sette titoli costruttori e 79 gran premi vinti, l’ultimo dei quali a Detroit il 21 giugno 1987 grazie ad Ayrton Senna.

In mezzo a questi trent’anni e più di storia, la Lotus, prima monoposto, nel 1968, a portare la bandiera di uno sponsor, la marca di tabacchi inglese Gold Leaf, negli anni settanta si era fatta distinguere per il suo colore nero oro con la pubblicità della John Player, altra brand di sigarette, nonché parente stretta della precedente.

Ma la morte del suo creatore, il patron Colin Chapman, nei primi anni ottanta, aveva segnato l’inizio di un decennio di crisi, che nel 1994 sarebbe giunto alle estreme conseguenze della bancarotta, decretata dall’ultimo proprietario, l’inglese David Hunt, fratello del campione mondiale dell’annata 1976 di Formula 1, James Hunt.

Per la Lotus era cominciata così una faticosa traversata nel deserto, passando di mano, prima alla General Motors, poi alla Bugatti ed infine alla Proton, l’azienda automobilistica di stato malese, che l’aveva rilevata nel 1997, riuscendo nel miracolo di un insperato rilancio nel settore commerciale. Per il settore delle auto da corsa, invece, è stato buio pesto fino al 2009, quando, ancora su iniziativa malese, con il governo locale a fare da promotore, e il proprietario della compagnia aerea Air Asia, il miliardario Tony Fernandes, a metterci la faccia, è stata fondata la Lotus Racing, già in pista dall’inizio di questa stagione con Jarno Trulli e il finlandese Heikki Kovalainen.

Ma incombeva pur sempre il nodo del marchio Team Lotus, del quale il lungimirante David Hunt aveva mantenuto la proprietà, nonostante lo avesse dovuto lasciare inattivo da ormai quindici anni. Toni Fernandes lo bramava fortemente per la propria nuova scuderia; e dall’inizio di quest’anno ha cominciato una laboriosa trattativa con il legittimo proprietario.

Proprio ieri, durante le prove del Gran Premio di Singapore, ha potuto finalmente emettere il comunicato ufficiale: la Lotus Racing ha acquisito il diritto a utilizzare il marchio storico che fu di Colin Chapman, a partire dal campionato mondiale del 2011.

Toni Fernandes è uno che non risparmia sull’enfasi negli annunci:

“Da oggi inizia un sogno. Il Team Lotus è tornato.” Ha detto a margine del comunicato. E forse non ha torto, visto che ci sono davvero i presupposti per realizzare grandi imprese. Però, dietro a tanto giustificato entusiasmo, si nasconde anche una seccatura piuttosto difficile da districare.

Infatti, gli altri malesi della Lotus Cars, azienda parente di quella che oggi capeggia Fernandes, in joint venture con la Art Grand Prix del figlio di Jean Todt, Nicholas, hanno dato vita a Lotus Art: una nuova scuderia già iscritta per l’anno prossimo alle gare di GP2 e GP3, ma con grandi ambizioni per il futuro. Questo ostacolo inaspettato ha ovviamente mandato Fernandes su tutte le furie. Proprio ora che il marchio originale era stato legittimamente conquistato, un’altra difficile battaglia legale e commerciale sul nome della Lotus potrebbe profilarsi all’orizzonte della Formula 1.

Giuseppe Ottomano

“MIRACLE ON ICE”: VENDESI MEDAGLIA

Miracle on IceDopo la notizia della settimana scorsa sulla messa all’asta della medaglia d’oro al mondiale 1966 di calcio, da parte del sessantottenne ex centrocampista inglese Bobby Stiles, alle prese con le ristrettezze della crisi economica globale di questi anni, un altro trofeo dello sport è stato venduto dal suo legittimo proprietario.

Infatti, una delle venti medaglie d’oro della squadra di hockey su ghiaccio statunitense, vittoriosa alle olimpiadi di Lake Placid 1980, nonché icona della propaganda della guerra fredda e ispiratrice nel 2004 del film “Miracle on Ice”, secondo quanto riferito oggi dal quotidiano del Massachussets, Boston Herald, è già passata nelle mani dei collezionisti di cimeli sportivi.

Si tratta della medaglia appartenuta a Mark Wells, cinquantatreenne ex attaccante di quella nazionale USA composta da soli studenti dei college, che contro ogni pronostico sconfisse l’Unione Sovietica nel memorabile incontro (particolarmente memorabile per gli americani) del 22 febbraio 1980.

Mark Wells, che dopo avere abbandonato nel 1982 la sua breve carriera sportiva, si era dato alla gastronomia, aprendo un ristorante nel Michigan, ha rivelato ai giornalisti di averla venduta qualche anno fa, mentre stava passando un momento particolarmente drammatico della propria vita, e si trovava costretto a letto da una rara malattia genetica alla spina dorsale.

La sua medaglia è attualmente l’unica di quella ventina ad essere finita nella bacheca di un collezionista; e gli altri componenti di quella squadra, intervistati sull’argomento, hanno dichiarato di non avere alcuna intenzione di sbarazzarsi delle loro, nonostante queste siano stimate di un valore pari a più di 100mila euro. Parlando del caso del loro compagno, si sono comunque dimostrati comprensivi, soprattutto ricordando le terribili difficoltà che stava attraversando in quel periodo.

Oggi la malattia di Mark Wells è molto migliorata, tanto che quest’inverno l’ex hockeista ha potuto  prendere parte a una nostalgica partita insieme alle altre vecchie glorie, in occasione del trentesimo anniversario della vittoria di Lake Placid. E in barba al parere contrario del suo medico, è sceso in pista a giocare per un tempo intero, riuscendo a mettere a segno anche un punto.

Giuseppe Ottomano

LA STRAGE DELL’HEYSEL VISTA DA KENNY DALGLISH NELLA SECONDA AUTOBIOGRAFIA

Quattordici anni dopo la pubblicazione del primo libro autobiografico dell’ex campione scozzese Kenny Dalglish, domani uscirà nelle librerie britanniche il secondo, e probabilmente neanche ultimo: “My Liverpool Home – Then and Now”.

Già dal titolo si intende inequivocabilmente che l’oggi cinquantanovenne ex attaccante degli anni settanta e ottanta ha dettagliatamente relazionato, in 352 pagine, il proprio rapporto con la squadra dei Reds, nella quale ha militato ininterrottamente dal 1977 al 1990, conquistando la bellezza di otto campionati, più tre Coppe dei Campioni.

In quell’epoca il Liverpool balzò agli onori delle cronache per le strepitose vittorie e per i fuoriclasse del calibro di Graeme Souness, Phil Neal, Ronnie Whelan, Ian Rush, il portiere Bruce Grobbelaar, oltre ovviamente allo stesso Dalglish. A far balzare la squadra ai disonori delle cronache ci pensarono invece i suoi tifosi, i famigerati hooligans della curva Kop, colpevoli di avere innescato la strage dell’Heysel nel 1985, e a loro volta vittime quattro anni dopo nell’altra strage dello stadio Hillsborough di Sheffield.

E proprio sulla tragedia dell’Heysel, secondo gli stralci riportati in anteprima dalla stampa d’oltremanica, Kenny Dalglish ha raccontato la propria esperienza diretta, ricordando che la mattina successiva un folto gruppo di tifosi juventini, addolorati ed inferociti allo stesso tempo, erano arrivati sotto l’albergo dove alloggiava la squadra inglese. E, salendo sul pullman, Dalglish li aveva osservati, rimanendo impressionato dal grande dolore che si celava sotto la loro rabbia.

Ho visto i tifosi italiani piangere, mentre, a mani nude, colpivano il nostro pullman; e percepivo la crudezza delle loro emozioni “.

Poi, ha aggiunto, ricordando una delle tante massime del grande allenatore del Liverpool degli anni sessanta e settanta, Bill Shankly: “Il calcio non è una questione di vita o di morte. È una cosa molto più importante”.

Non ho mai smesso di stimare Shankly. Ha osservato Dalglish. “Ma questa volta aveva sbagliato. Il calcio non può essere mai una cosa più importante”.

Giuseppe Ottomano

TENNIS: FOREST HILLS A RISCHIO DEMOLIZIONE

Lo storico campo newyorkese di tennis potrebbe essere venduto ad una società immobiliare.

Fino al 1977, quando ne venne deciso lo spostamento al vicino complesso di Flushing Meadows, gli US Open di tennis erano noti anche con il nome di Torneo di Forest Hills.

Il complesso tennistico di Forest Hills, situato in un’area esclusiva, ai margini del quartiere newyorkese del Queens, composto da 38 campi da tennis e una piscina, aveva visto la luce nel 1923, ed il suo stadio principale, il West Side Tennis Stadium, era stato concepito per contenere un pubblico di 14mila spettatori.

Durante la propria attività aveva ospitato le performance dei migliori tennisti del mondo: sia per il suo prestigioso torneo che per le finali di Coppa Davis, disputatesi per sette volte tra il 1923 e il 1959. Quando non si giocava a tennis, lo stadio di Forest Hills andava a meraviglia anche per i concerti: e altrettanto storici erano stati quelli dei Beatles, Frank Sinatra, Barbara Streisand e Jimi Hendrix negli anni sessanta. Anche il cinema lo aveva sfruttato, quando nel 1951 aveva fatto da location per il film “L’altro uomo” di Alfred Hitchcock.

A partire dal 1978, però, quando gli internazionali USA li poteva vedere solo puntando il cannocchiale cinque chilometri più a sud, verso il nuovo e meglio attrezzato complesso di Flushing Meadows, si erano giocati solo tornei tennistici minori; e fatta eccezione per un festival rock negli anni novanta, era stato utilizzato sempre più raramente.

E, proprio eccependo gli altissimi costi a perdere per la manutenzione ordinaria dello stadio, la proprietà, un’associazione privata denominata West Side Tennis Club, è adesso orientata a vendere l’intero complesso per una cifra di circa 9 milioni di dollari a una società immobiliare, la Cord Meyer Development Company, che dovrebbe riconvertire l’area alla costruzione di palazzi residenziali per grandi ricconi, dotati oltre dell’immancabile beauty center, anche di un museo del tennis.

La decisione ufficiale sarà presa il 23 settembre, quando si riunirà a questo scopo l’assemblea dei 291 membri con diritto di voto del club, ma un sondaggio tra questi ha confermato l’intenzione di tirare diritto con il progetto di vendita.

Intanto, una parte dell’opinione pubblica newyorkese, che vede nello storico campo di Forest Hills un’impronta della propria memoria storica, sta setacciando la città alla ricerca di uno o più finanziatori, mossi da spirito filantropico, e disposti ad accollarsi le spese di manutenzione e di eventuale restauro per il rilancio del complesso. Contemporaneamente ha anche inviato un appello al sindaco di New York, il miliardario indipendente Michael Bloomberg.

Bloomberg ha promesso che si occuperà personalmente della faccenda, concludendo con il suo imperdibile motto:

New York è pulita. New York è divertente”.

Giuseppe Ottomano

IERI & OGGI: LA SCONFITTA DI MONACO ’72 È ANCORA INDIGESTA PER GLI USA

Proprio oggi la controversa finale di basket delle olimpiadi di Monaco 1972 tra Stati Uniti e Unione Sovietica compie i suoi 38 anni.

Si era trattato di una sorta di Miracle on ice a parti rovesciate, in cui il gigante, questa volta americano, era stato sconfitto quasi all’ultimo secondo e sul filo di lana da un piccolo Davide travestito da cosacco. Inutile dire che, diversamente dalla finale di hockey su ghiaccio di Lake Placid ’80, ad Hollywood si sono sempre guardati bene dal produrre una fiction su questo autentico Miracle on parquet.

Riassumendo brevemente i fatti, quel 9 settembre 1972, al mostruoso orario d’inizio delle 23.45 (dal lato del loro fuso orario, i munifici network televisivi americani avevano reclamato e ottenuto la diretta in prima serata) a Monaco di Baviera si erano affrontate per la finale di basket USA e URSS, le due superpotenze nella geopolitica dell’epoca.

Fin dalle olimpiadi di Berlino ’36 la medaglia d’oro nel basket era sempre stata conquistata dalla nazionale statunitense, nonostante questa presentasse rappresentative universitarie, dal momento che i grandi professionisti della NBA erano ancora banditi dalle competizioni olimpiche.

Ad appena tre secondi dalla fine del match, il gigante USA conduceva con un punto di vantaggio, 50-49. Ma, al termine di una rocambolesca serie di confusioni arbitrali sul residuo tempo da giocare, un lunghissimo passaggio perfetto era volato dal limite del campo sovietico fino a sotto il canestro statunitense, dove il ventenne Alexander Belov aveva realizzato quei due punti necessari a capovolgere il punteggio.

Era il 1972, nel pieno della guerra fredda, e la supremazia dei cestisti americani era stata stroncata; e per ironia della sorte, proprio all’ultimo istante e con un coup de theatre, dagli eterni cattivissimi della celluloide hollywoodiana. Le polemiche non erano mancate, e per anni gli statunitensi hanno masticato bile per quei tre secondi in più, che a loro parere, l’arbitro brasiliano Renato Righetto, non avrebbe dovuto concedere.

Proprio oggi a Istanbul si è giocata la semifinale dei campionati mondiali tra gli Stati Uniti e la Russia. E nonostante la Russia non sia altro che un’erede della fu-Unione Sovietica e viviamo in un presente ormai del tutto deideologizzato, l’antica acredine non è stata ancora del tutto sopita. Così, alla vigilia dell’incontro, l’allenatore della nazionale americana Mike Krzyzewski, scandalizzato da una precedente dichiarazione del suo omologo nella nazionale russa, David Blatt (altra ironia della sorte, Blatt ha un doppio passaporto: americano ed israeliano), che aveva osato definire corretto lo svolgimento di quella contestata finale di trentotto anni fa, è andato su tutte le furie.

È ovvio che David Blatt abbia detto questo: lui è un russo” è stato il suo velenoso commento.

Anche Jack McCallum, l’inviato della rivista statunitense Sports Illustrated, non ha dimostrato meno acredine di Krzyzewski, e ha rilanciato la teoria del complotto internazionale, rimarcando che il doveroso, secondo lui, ricorso degli USA per invalidare quell’ultimo canestro di Belov, era stato respinto per 3-2 dalla FIBA proprio grazie ai tre voti dei rappresentanti dei paesi comunisti.

Già, anche i paesi comunisti si erano messi di mezzo trentotto anni esatti fa. E senza quel maledetto canestro del povero Belov, che perse la vita solo sei anni dopo per un male incurabile, magari negli studios si sarebbe potuto ricamarci sopra un altro bel film a lieto fine.

Giuseppe Ottomano