CRICKET: VERSO HONG KONG CON TANTA SPERANZA

Manca solo una settimana all’inizio delle partite della World Cricket League – Division 3

CricketÈ ancora dolce il gusto della promozione ottenuta dai ragazzi di Joe Scuderi nella World Cricket League di quarta divisione disputatasi lo scorso agosto sui campi della provincia bolognese, ma è ormai giunto il tempo di tornare sui pitch, questa volta nella lontana Hong Kong, per cercare di confermare quanto di buono fatto pochi mesi fa.

La comitiva azzurra si ricongiungerà nell’ex colonia britannica giovedì 20 gennaio e avrà un giorno a disposizione per allenarsi prima di sfidare Danimarca e Papua Nuova Guinea nel weekend. Dopo un giorno di riposo sarà la volta dell’Oman, dei padroni di casa e degli Stati Uniti. A quel punto si saprà se l’ultima gara servirà per provare a conquistare il torneo, per festeggiare la salvezza in un’inutile sfida per il 3° e 4° posto oppure per rendere meno amara la retrocessione. Il torneo di Hong Kong si presenta, almeno sulla carta, molto più equilibrato di quello bolognese dove Argentina e Isole Cayman sembravano, come poi dimostrato sul campo, inferiori alle rivali. Fare un pronostico risulta quindi assai difficile.

HONG KONG: Per il semplice fatto di giocare in casa merita grande considerazione. In quanto ex colonia britannica la tradizione di certo non manca, il primo incontro internazionale fu infatti disputato addirittura nel 1866, ma da allora molte cose sono cambiate. Non solo il paese è tornato sotto la giurisdizione cinese, pur mantenendo numerosi privilegi come quello di preservare la propria indipendenza sportiva, ma la squadra è diventata sempre meno anglofona e sempre più pachistana. Nel 2008 in Tanzania, Hong Kong sconfisse gli azzurri per 46 runs nella partita inaugurale del torneo di quarta divisione, che portò gli asiatici nuovamente in terza divisione. La squadra, allenata dal giovane australiano Charlie Burke, ha recentemente partecipato agli Asian Games vincendo facile contro le Maldive, di 30 runs contro il Nepal e perdendo ai quarti contro l’Afghanistan medaglia d’argento.

ICC PLAYER TO WATCH: Irfan Ahmed

STATI UNITI: Neopromossi ma ambiziosi, l’obiettivo neanche troppo celato delle alte sfere del cricket  statunitense è infatti quello di partecipare al mondiale del 2015. È una squadra che l’Italia conosce bene avendoci giocato per ben due volte lo scorso agosto a Bologna. Alla stupenda e decisiva vittoria del 18 agosto firmata dalle corse di Northcote e Petricola e dai lanci di Munasinghe, è però seguita il netto successo degli americani nella finale per il titolo. L’età media della squadra capitanata da Steve Massiah è abbastanza elevata ma in questi tornei l’esperienza conta. La maggioranza dei cricketer americani è nata nei Caraibi, anche se non mancano gli autoctoni. Sushil Nadkarni, eletto miglior giocatore del torneo bolognese, è invece di origini indiane.

ICC PLAYER TO WATCH: Sushil Nadkarni

PAPUA NUOVA GUINEA: L’Italia non ha sicuramente dei bei ricordi legati a questa forte compagine oceanica. Nel 2007, all’esordio in questa competizioni fummo battuti malamente per otto wicket. La squadra è composta da cricketer autoctoni di una certa esperienza. Molti di essi giocano anche nel campionato australiano. Dopo il rugby, giocato soprattutto nella versione a 13, il cricket rappresenta del resto uno degli sport nazionali anche se si è diffuso soprattutto nella parte orientale del paese. Di recente sono stati fatti anche numerosi investimenti in infrastrutture con l’obiettivo di allargare ulteriormente la base dei praticanti. La squadra sembra essere abbonata al terzo posto conquistato sia nell’edizione del 2007 che in quella del 2009.

ICC PLAYER TO WATCH: Rarua Dikana

OMAN: In Oman il cricket è uno sport giovane, per non dire giovanissimo, tuttavia, a seguito della forte immigrazione dai paesi del subcontinente indiano, è in forte crescita. Tutti gli atleti della nazionale dell’Oman sono nati in Pakistan o in India, questo spiega come mai un paese dalla scarsa tradizione in questo gioco abbia un ranking mondiale così elevato. Un po’ come Hong Kong anche l’Oman ha ringiovanito notevolmente la propria rosa. La squadra capitanata dal talentuoso trentaseienne Hemal Mehta pare essere molto aggressiva in battuta e punta senza mezzi termini a una nuova promozione in seconda divisione.

ICC PLAYER TO WATCH: Hemal Mehta

DANIMARCA: Gli scandinavi sembrano avere una maggiore tradizione rispetto all’Italia, tuttavia la squadra ha cambiato capitano e molti di quegli atleti che avevano contribuito alle buone prestazioni degli ultimi anni. La rosa è formata da un buon numero di atleti nati in Danimarca e punta molto sul talento del capitano e wicket keeper Freddie Klokker, il quale ha accumulato notevole esperienza giocando nel campionato inglese. Nell’ultimo Europeo i danesi ci hanno sconfitto per 3 wicket tuttavia, per una squadra abituata a rivaleggiare con l’Olanda per essere la regina non anglosassone d’Europa, un’eventuale battuta d’arresto contro l’Italia potrebbe comportare una notevole perdita di rango.

ICC PLAYER TO WATCH: Freddie Klokker

ITALIA: In mezzo a queste corazzate quale può essere il destino dell’Italia dopo l’inattesa promozione di quest’estate? I pronostici dei media internazionali non sono certo dalla nostra parte ma il capitano, Alessando Bonora è stato chiaro, si punta a restare nella categoria, strizzando l’occhio anche alla promozione. Inutile farsi illusioni, vero, ma lo scorso anno ci disse lo stesso e portò fortuna. Rispetto a Bologna mancherà Nic Northcote, wicket-keeper titolare, ma tornerà a far parte dell’undici titolare l’ottimo lanciatore Vincenzo Pennazza. Scuderi e Bruno hanno puntato forte sugli oriundi che giocando nei campionati dell’emisfero australe potrebbero garantire maggiore forma. Il nostro auspicio è che la nazionale più multietnica d’Italia non smetta più di sognare.

ICC PLAYER TO WATCH: Peter Petricola

La prossima settimana, prima dell’inizio del torneo, che cercheremo di seguire al meglio, la rubrica “Pionieri” tornerà a parlare di cricket per conoscere gli atleti che difenderanno a Hong Kong la maglia azzurra.

CANTONA, IL RIVOLUZIONARIO

Éric Cantona, ex funambolo del Manchester United, ex allenatore della nazionale francese di beach soccer, si è unito al movimento “StopBanque” dichiarando ufficialmente guerra al sistema bancario francese e internazionale.

Il video incriminato risale ormai all’8 ottobre ma i media internazionali ne hanno dato risalto solamente negli ultimi giorni con l’avvicinarsi del D-day fissato per il 7 dicembre. Éric Cantona, ex funambolo del Manchester United, ex allenatore della nazionale francese di beach soccer, testimonial di mille campagne pubblicitarie, sportivo e attore di successo, si è unito al movimento “StopBanque” dichiarando ufficialmente guerra al sistema bancario francese e internazionale.

Come spesso accade in questi casi il tutto si è sviluppato in maniera un po’ casuale. Intervistato per il quotidiano Presse Ocean nel pieno dello sciopero contro l’innalzamento dell’età pensionabile voluto dal governo Sarkozy, l’ex nazionale francese ha espresso un forte scetticismo sui metodi della protesta. A suo avviso, infatti, di fronte a una sfida di portata globale come quella rappresentata dalla recente e pervasiva crisi economica, i vecchi metodi di pressione sul governo, come le manifestazioni di strada, si rivelano oggi del tutto naïf e poco incisivi. Fra il serio e il faceto, Éric Cantona rifletteva sul fatto che se tutte le persone scese in strada in quei giorni – stime parlano di 3 milioni – avessero ritirato, nello stesso giorno, il loro denaro dalle proprie banche il sistema sarebbe stato concretamente messo in discussione. Tale mossa avrebbe la forza di portare al collasso l’intero sistema bancario, ritenuto dall’ex calciatore il vero responsabile dell’attuale crisi. Con l’andare dei giorni lo spezzone dell’intervista è diventato un cult su Youtube.

È tuttavia bene precisare che le riflessioni del “giocatore del secolo del Manchester United” non sono venute dal nulla, ma sono il frutto del pensiero intellettuale di diverse organizzazioni nazionali e internazionali e nello specifico del movimento anti-globalizzazione di contro-informazione “StopBanque”, il primo a cavalcare le dichiarazioni di Cantona. Proposte simili girano da anni nei siti di contro-cultura e all’interno dei movimenti anti-globalizzazione, tuttavia c’è voluto uno sportivo, una celebrità mediatica, per diffonderle al grande pubblico.

Éric Cantona – genio e sregolatezza, magia e provocazione – alla luce dei fatti si è rivelato un perfetto testimonial. Un testimonial che, date le reazioni governative, del mondo bancario–finanziario e l’inatteso interesse dimostrato dall’opinione pubblica sulla tematica, ha evidentemente colpito nel segno. Se è vero che la proposta di ritirare dalle banche i risparmi il 7 dicembre difficilmente potrà avere successo, la provocazione di Cantona inquieta non poco gli istituti di credito. «Certe persone giocano magnificamente a calcio ma io non mi arrischierei mai. Penso che ognuno debba intervenire nel proprio campo di competenza» ha dichiarato il Ministro delle Finanze francesi Christine Lagarde. Il banchiere Baudoin Prot ha parlato di un appello «irresponsabile, mal fondato» e «portatore di insicurezza» mentre il portavoce del governo François Baroin, giudicando l’uscita di Cantona «poco seria», lo ha attaccato sul piano calcistico affermando che «per quanto si fosse trattato di un ottimo centravanti, dovrà significare qualcosa il fatto che Aimé Jacquet non lo avesse convocato per la Coppa del Mondo del 1998».

Quest’opera di denigrazione, a cui si aggiunge l’ironia sul numero di valigie che serviranno a Cantona per svuotare il proprio conto, rischia di mettere in secondo piano i molti aspetti positivi della provocazione del francese. Una difesa critica è arrivata sulle pagine del quotidiano Liberation che è partito da Cantona (dedicandogli anche la copertina) per aprire un dibattito serio sulle deficienze del sistema creditizio e sul ruolo giocato dai banchieri nella crisi per cercare di individuare proposte meno populiste ma altrettanto efficaci. Riprendendo il pensiero di Nathalie Arthaud, secondo cui «il problema non sono le banche in sé ma i banchieri che le hanno trasformate in casinò personali», dalle colonne del quotidiano francese Vittorio de Filippis ha sostenuto che la campagna di Cantona potrebbe servire per rilanciare l’interesse dell’opinione pubblica nei confronti delle Banche Etiche, nelle quali «depositare il denaro non equivale a giocare in borsa o a speculare».

A prescindere dal seguito, questa vicenda dimostra quale sia la centralità dello sport nella società: ci sono infatti volute le dichiarazioni di un ex calciatore per aprire un dibattito che non fosse di nicchia sulle falle del sistema bancario. Le dichiarazioni al di fuori del mainstream mediatico di celebrità sportive come Cantona hanno la forza di generare il terrore fra i membri dell’establishment politico ed economico: esse risultano avere una presa maggiore nei confronti dell’opinione pubblica. Quando l’atleta smette i panni del burattino che ripete a memoria frasi banali e precostruite, esprimendo liberamente le proprie idee, può finire per creare scompiglio fra coloro che si aspettano che uno sportivo debba parlare esclusivamente di sport. L’aureola di celebrità creatasi intorno a Éric Cantona lo ha reso però immune all’opera di denigrazione guidata da politici e banchieri.

È evidente come la commercializzazione del mondo dello sport tenda a creare campioni ed eroi idolatrati che, generalmente, seguono le regole del gioco diventando un potente alleato del sistema. Ma, in quanto esseri umani, dotati di una propria identità e della libertà d’espressione, possono trasgredire. Éric Cantona, in diversi momenti della sua vita, non si è fatto mancare niente: pur recitando la parte del ribelle, l’attaccante ha comunque accettato le regole del gioco diventando uomo immagine di un noto brand di vestiario sportivo. Oggi, invece, l’ex Red Devil sembra aver indossato i panni del rivoluzionario moderno. Che sia nato un novello Robin Hood?

Nicola Sbetti

Articolo scritto per www.centrostudiconi.it/approfondimenti e per le testate giornalistiche online www.pianeta-sport.net e www.thepostinternazionale.it

SFIDA MONDIALE

Giovedì 2 dicembre la FIFA assegna i Mondiali 2018 e 2022: ecco quali sono i paesi candidati.

Fin dalla sua nascita, nel lontano 1930, la Coppa del Mondo di calcio ha rappresentato qualche cosa di più rispetto a un semplice torneo di calcio. Storicamente, ma ancor di più negli ultimi anni, l’organizzazione di un mega-event come il Mondiale non rappresenta solamente un’occasione per incrementare il prestigio nazionale: se ben sfruttata, infatti, essa può portare a vantaggi in diversi campi come quello economico, turistico e delle relazioni internazionali. Tutto dipende, però, dal tipo di enfasi che si pone nell’evento e dalla sua interconnessione con altri aspetti della società.

Nel 1998 la Coppa del Mondo di calcio in Francia, conclusasi con il trionfo della squadra di casa, portò alla costruzione dell’idea di una Francia vincente non solo sul campo da calcio ma anche nell’arena internazionale, fautrice di un modello integrazionista da ammirare ed esportare rappresentato proprio dai 22 calciatori campioni del mondo, ribattezzati immediatamente (riprendendo l’immagine del tricolore) i “black, blanc, beur”. Come attentamente sottolineato da Patrick Mignon in Fans and Heroes, i simboli e gli appelli all’unità lanciati nelle celebrazioni del 12 luglio 1998 furono assai enfatizzati proprio perché l’unità era molto lontana dall’essere reale, fatto che emerse chiaramente con la ribellione delle banlieue del novembre del 2005. Quello che conta, però, è che i politici nel 1998 cercarono di ottenere attraverso il calcio ciò che non erano stati in grado di raggiungere attraverso le politiche più tradizionali.

Quattro anni più tardi fu il turno di Corea e Giappone. I due paesi non solo dimostrarono al mondo le loro capacità organizzative e il loro sviluppo tecnologico, ma approfittarono anche dell’evento per normalizzare ulteriormente le loro relazioni inducendo la popolazione a fare altrettante. Ovviamente per i coreani tifare per gli ex dominatori imperialisti non rappresentò un’opzione percorribile, ma le cronache riportano che più di qualche tifoso giapponese, a seguito dell’eliminazione della propria squadra, iniziò a simpatizzare per i vicini coreani, in parte istigati dal governo, in parte attratti dal successo sportivo della squadra di Hiddink.

Nel 2006, secondo le cifre della Deutsche Bundesbank, proprio grazie all’ esemplare organizzazione della kermesse, il Mondiale tedesco ha portato nel trimestre in questione a una crescita dello 0,25%.

Quest’anno, come ricordato con insistenza dal jingle della canzone ufficiale, è arrivato il tempo dell’Africa. Non che oggi a Città del Capo o a Johannesburg si siano risolti i problemi di disuguaglianza, violenza e povertà, ma il Mondiale sudafricano ha posto per un paio di mesi il paese e retoricamente l’intero continente africano al centro del mondo.

Insomma, per quanto non sarà certo l’organizzazione dei Mondiali di calcio a risollevare il destino di un paese, questa competizione resta comunque un’occasione di prestigio internazionale e sportivo davvero importante a cui le federazioni calcistiche e i governi non sembrano voler rinunciare. Oltretutto intorno all’evento si crea, fra sponsorizzazioni internazionali, nazionali e diritti televisivi, un giro economico miliardario che fa gola a molti. Scandalizza, ma non sorprende, quindi che, non appena dei giornalisti si sono messi a indagare, siano emersi immediatamente casi di corruzione relativi alle candidature dei Mondiali. A metà ottobre alcuni reporter del Sunday Times si sono finti lobbisti statunitensi e hanno smascherato il membro nigeriano della FIFA Amos Adamu che aveva chiesto ai finti emissari la bellezza di 800mila $ per costruire campi di calcio artificiali. La stessa richiesta è stata avanzata al presidente della Oceania Football Confederation, il quale ha accettato di votare per i fantomatici lobbisti in cambio dei soldi per finanziare un’accademia sportiva.

Una decina di giorni dopo è stata la volta di Michel Zen-Ruffinen. L’ex delfino – poi rivale – di Blatter, filmato segretamente, ha fatto capire che molti dei ventiquattro membri del Fifa Executive Commitee sono da sempre aperti a diverse forme di corruzione e ha reso più credibile la sua affermazione descrivendone vizi e debolezze. Per chi ha letto i libri e le inchieste di Andrew Jennings, il primo reporter a sollevare il velo dell’omertà delle istituzioni sportive, sembra che (almeno nella FIFA) nulla sia cambiato.

La situazione è resa ancora più complessa dalla doppia assegnazione (2018, 2022) in un’unica giornata. “Di doman non c’è certezza” scriveva Lorenzo de’ Medici nel Quattrocento, ma lo stesso potrebbe aver pensato il gran capo Blatter che difficilmente, per questioni anagrafiche, si ricandiderà nel 2014. È chiaro altresì che questa promozione “compri due, paghi uno” facilita lo scambio di voti e la scarsa trasparenza. Ecco allora che, sempre grazie alle dichiarazioni rubate a Zen-Ruffinen, emerge come Spagna e Portogallo si siano accordate con il Qatar per lo scambio di voti, sostenendo le rispettive candidature. Una pratica moralmente disgustosa ma assai comune nei processi poco trasparenti di lobby. La stessa candidatura olimpica di Roma 2020, per esempio, nella fase di pre-selezione per avere la meglio su Venezia, aveva messo sul tavolo tra le altre cose la possibilità di un eventuale accordo Roma – Tokio per ripetere la doppietta (1960-1964 anche nel 2020-2024).

Questioni di prestigio e, soprattutto, economiche rendono quindi la scelta del 2 dicembre davvero importante per le nazioni e le federazioni che ospiteranno il mondiale del 2018 e del 2022. Nel 2018 hanno avanzato le proprie candidature Inghilterra, Russia e, congiuntamente, Spagna-Portogallo e Belgio – Olanda. Per il 2022 si sono, invece, fatte avanti Australia, Qatar, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti.

2018

BENELUX

Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi hanno avanzato la candidatura come un’unica entità geografica, economica e culturale: tuttavia, se si esclude un congresso FIFA in Lussemburgo, gli incontri si disputeranno solamente in terra d’Olanda e in Belgio. I due paesi vorrebbero ripetere l’exploit del 2000 passando dal palcoscenico europeo a quello mondiale. Il progetto prevede quattordici stadi in dodici città (sette in Belgio, cinque nei Paesi Bassi): al momento gli stadi sembrano troppo piccoli alle esigenze, talvolta sproporzionate, della FIFA, tuttavia sia Rotterdam che Bruxelles hanno dato il via libera alla costruzione di due stadi da 80mila spettatori. Quello di Bruxelles, il Nationaal Stadion, potrebbe avere una valenza davvero importante, data la complessa situazione che sta vivendo il paese: in effetti, una delle possibili debolezze di questa candidatura è dovuta all’incertezza politica del Belgio. Nel 2018 esisterà ancora un paese chiamato Belgio? In tal senso però proprio il calcio, al contrario del ciclismo, sembra essere un fattore più unificatore che divisivo. E in ogni caso, malgrado il carisma di Gullit, la candidatura del Benelux non sembra la principale favorita.

INGHILTERRA

Calcisticamente la nazione è ancora ferma alla nostalgia per la vittoria del 1966, considerando che da quella data non è più riuscita a esprimere un gruppo vincente. I migliori risultati sono ancora quelli degli anni Novanta con il quarto posto al Mondiale italiano e la semifinale all’Europeo casalingo del 1996. A livello di organizzazione sportiva, invece, l’Inghilterra è un paese leader: negli ultimi vent’anni l’Inghilterra ha organizzato gli Europei di calcio, i Mondiali di rugby e di cricket e nel 2012 ospiterà i Giochi Olimpici. I Mondiali la confermerebbero come uno dei paesi sportivi d’avanguardia, tenendo sempre presente che nel Regno Unito l’intervento governativo in campo sportivo, benché crescente, è sempre stato ridotto rispetto a quello di molti altri paesi. Gli stadi esistenti e quelli progettati sono assolutamente all’altezza e l’idea di riportare il calcio laddove è stato inventato fanno della candidatura inglese la favorita al pari della Russia.

SPAGNA-PORTOGALLO

Anche in questa occasione, come per Olanda e Belgio, i due principali paesi della penisola iberica hanno pensato di riproporre l’accoppiata vincente dell’Europeo in un palcoscenico più ampio. Ovviamente, alla luce delle dimensioni, e del peso economico e demografico dei due stati, la Spagna farà la parte del leone rispetto al Portogallo. La crisi economica mondiale, però, sembra aver colpito in maniera più pesante i paesi mediterranei che il resto d’Europa e ciò potrebbe forse andare a penalizzare le chance della candidatura iberica. Per controbilanciare le sue carenze la Spagna metterà sul piatto della bilancia il suo indiscutibile prestigio sportivo, che però potrebbe non bastare.

RUSSIA

Senza l’Ucraina il calcio russo pare aver perso davvero molto rispetto a quello sovietico, ma la federazione, con l’investimento importante su Hiddink nel recente passato, ha dimostrato a suon di rubli di voler invertire questo trend. I soldi non bastano, è vero, ma nel caso russo sembrano essere davvero l’asso nella manica. Almeno cinque stadi nuovi di zecca e lo Stadio Olimpico, che sarà inaugurato a Soči in occasione delle Olimpiadi invernali del 2014, si andranno ad aggiungere agli stadi moscoviti, a quello di Kazan e a quello di San Pietroburgo. La federazione ha fatto sapere che il governo non baderà a spese – 10 miliardi di dollari – e che darà, con il primo ministro Putin in prima linea, pieno sostegno alla candidatura.

2022

AUSTRALIA

Nella terra dei canguri in cui il football si gioca con palloni ovali in stadi della stessa forma ci si sta preparando con alacrità per la progettazione dei Mondiali del 2022. Malgrado la scarsa tradizione calcistica, che permane ancor oggi nonostante alla generazione dei Kewell e Viduka sia seguita quella dei Cahill e Bresciano, l’Australia resta terra dello sport e degli sportivi per eccellenza. Il paese sembra avere l’imbarazzo della scelta per quel che riguarda gli stadi: tuttavia molti di essi non sono, e non saranno mai, destinati esclusivamente al calcio. Il rugby e l’australian rules football restano gli sport invernali preferiti dai tifosi australiani e il regolare svolgimento di questi campionati potrebbe entrare in concorrenza con l’organizzazione dei Mondiali. In ogni caso la federazione australiana, come dimostra anche il passaggio dalla confederazione oceanica a quella asiatica, vuole a tutti i costi alzare il livello del calcio australiano e l’organizzazione di un Mondiale resta sempre il miglior viatico.

GIAPPONE

Nel paese del Sol Levante il successo organizzativo del 2002, in coppia con la Corea del Sud, ha reso appetibile la possibilità di un bis. Il paese, oltretutto, non sembra accontentarsi solo del calcio visto che in ballo ci sono anche le candidature alle Olimpiadi del 2016 e dei Mondiali di rugby del 2019. Gli stadi usati per il Mondiale del 2002 e quelli previsti eventualmente per il 2022 fanno del Giappone un rivale temibile. Tuttavia, come per i vicini coreani, la federazione giapponese potrebbe essere penalizzata dalla vicinanza temporale: sono infatti passati solo otto anni tra l’esperienza del 2002 e la scelta del prossimo 2 dicembre. Oggettivamente, però, l’arco temporale di venti anni fra il 2002 e il 2022 pare comunque essere sufficiente lungo per non screditare la candidatura nipponica.

QATAR

Gli sceicchi, che nella storia dei Mondiali non sempre hanno fatto bella figura, sono ormai una realtà nello sport e nel calcio internazionale: dopo aver contribuito alle campagne acquisti fantasmagoriche di alcune squadre e ad alimentare le false speranze di altre, in Qatar si sono messi in proprio. Automobilismo, tennis e i Giochi Asiatici hanno dimostrato che, quando i soldi non mancano, si può fare sport anche nel bel mezzo del deserto. La tradizione è pressoché inesistente, ma le tecnologie sono all’ultimo grido e in grado di sconfiggere quello che sembra essere il vero tallone d’Achille della candidatura del paese: il clima. Benché le temperature scendano raramente sotto i 30°, il comitato organizzatore ha promesso che negli stadi la temperatura non sarà superiore ai 20°. La minaccia del terrorismo internazionale potrebbe forse incidere nella scelta di qualche delegato FIFA, tuttavia il Qatar in questo senso non pare essere particolarmente vulnerabile. Come riportato da Al Jazeera, Blatter ha sdoganato la candidatura del Qatar affermando che “il mondo arabo merita la Coppa del Mondo”. Qatar fra i favoriti, quindi? Sicuramente, anche se rimane comunque incomprensibile l’utilità di costruire undici stadi da 50mila posti in un paese abitato da poco più di 1600 persone. Mai come in questo caso, a competizione finita, l’espressione “cattedrale nel deserto” rischia di essere più appropriata.

COREA DEL SUD

Come per il Giappone, la vicinanza con il Mondiale del 2002 potrebbe forse limitare le chance di successo, o almeno dovrebbe. I coreani, però, hanno imparato davvero bene a fare lobby e, dopo aver messo uomini chiave nel Comitato Olimpico Internazionale, stanno tentando la scalata anche nella FIFA. Il sostegno governativo non manca, gli stadi sono all’avanguardia: gli unici problemi potrebbero venire dai cugini del Nord. Malgrado il vicino militarmente ingombrante, però, l’esperienza del 2002 (al contrario di quella del 1988, dove la Corea del Nord aveva boicottato l’evento) ha dimostrato che in linea di principio la Corea del Sud non dovrebbe rischiare di essere penalizzata da questioni di sicurezza internazionale. Tuttavia la transizione che si sta vivendo a Pyongyang e l’ampio arco temporale fanno sì che le ipotesi di riunificazione, democratizzazione del Nord, guerra o di nulla di fatto siano tutte plausibili, indebolendo un po’ la forza della candidatura coreana.

STATI UNITI

Nella prima metà degli anni Novanta il soccer statunitense veniva trattato con ironia e disprezzo. Oggi, a più di quindici anni dal mondiale casalingo, la nazionale a stelle e strisce è riuscita ad affermarsi come una realtà del calcio internazionale da non sottovalutare grazie anche ad un campionato che, oltre ad attirare stelle prossime alla pensione, produce anche interessanti prospetti. Non sembra creare problemi neppure livello organizzativo: il Mondiale del 1994 aveva portato ufficialmente il calcio nella nuova dimensione iper-globalizzata che tanto piace alla FIFA. Benché non costruiti per il calcio ma per il football americano, gli stadi sono immensi e non entrerebbero nemmeno in conflitto con la stagione dell’NFL che inizia ad agosto inoltrato. La Concacaf, inoltre, sarà la federazione calcistica – OFC esclusa – a cui mancherà da più tempo l’organizzazione della Coppa del Mondo. Il presidente Obama, che sostiene la candidatura, dopo essere stato malamente snobbato in seno al CIO, potrebbe paradossalmente ottenere una rivincita simbolica proprio grazie al meno americano degli sport.

Nicola Sbetti

NUOVI SPORT ASIATICI ALL’ARREMBAGGIO

L’evoluzione degli sport dei Giochi d’Asia rispecchia la sempre maggior centralità del continente nello scacchiere mondiale, non solo a livello economico e militare ma anche a livello culturale. Se alle Olimpiadi, ancora dominate da un’élite conservatrice europea, gli sport di origine non-occidentale si contano sulle dita di una mano, nei Giochi d’Asia aumentano di quadriennio in quadriennio. Nel 1951 le competizioni in programma erano tutte di origine occidentale; solo nel il sollevamento pesi alcuni paesi asiatici potevano vantare una certa tradizione. Tra il 1954 e il 1962 furono inseriti alcuni sport come la lotta, l’hockey su prato, il tennistavolo e il badminton che pur essendo di origine europea avevano un’importante diffusione in Asia. Dalla metà degli anni Sessanta a quella degli anni Ottanta furono aggiunti nel programma esclusivamente sport olimpici di origine occidentale. Nel 1986 spinti dal crescente peso politico-economico delle tigri asiatiche fecero il loro ingresso lo sport nazionale giapponese, il Judo, e quello coreano, il taekwondo.

La vera “rivoluzione asiatica” avvenne però negli anni Novanta quando apparvero sulla scena il kabaddi, lo sepaktakraw, il soft tennis, il wushu e il karate. Il kabaddi è uno sport tradizionalmente praticato nel subcontinente indiano in cui un atleta, seminudo e scalzo, affronta i quattro avversari cercando di lottare con uno di esso o semplicemente toccarlo prima di ritornare “sano e salvo” dietro la linea di partenza. Sviluppatosi come sport semiprofessionistico già dagli anni Trenta, il kabaddi è ampiamente diffuso fra la comunità indo-pakistana e bengalese del nostro paese, tant’è che la nostra nazionale ha conquistato un prestigioso quarto posto nella recente Kabaddi World Cup.

Lo sepaktakraw, sport assai praticato in Indocina è una specie di calcio-tennis indoor in cui si fronteggiano squadre composte da tre atleti utilizzando un piccolo pallone realizzato con intrecci di rattan (un tipo di palma). I maestri indiscussi del gioco sono i tailandesi.

Il soft tennis è uno sport prettamente asiatico (introdotto in Europa solo nel 2004), è molto simile al tennis, anche se prevede racchette più lunghe e palline più morbide.

Il wushu infine è il frutto della fusione di diverse arti marziali cinesi al fine di crearne un’unica riconoscibile a livello nazionale. In un certo senso l’evoluzione del wushu per la Cina rispecchia quella del judo giapponese e il passaggio da arte marziale a sport. Tuttavia difficilmente questo sport cinese riuscirà ad avere lo stesso successo internazionale del suo “rivale” giapponese.

Nell’edizione in corso si sono aggiunte le dragon boat, uno degli sport cinese per eccellenza che si sta diffondendo globalmente, e un po’ a sorpresa il cricket (versione Twenty20), che da qualche anno sta spostando inesorabilmente il suo baricentro dall’Inghilterra verso l’Asia. È curioso notare però come l’India non abbia mandato una squadra a competere in quello che rimane senza alcun dubbio il suo sport nazionale.

Di tutti questi sport di origine asiatica solo judo e karate sono riusciti a diventare sport globali in cui i migliori atleti non provengono esclusivamente dal paese in cui lo sport è nato e si è sviluppato tuttavia il loro possibile successo e la loro eventuale diffusione passa proprio dai Giochi d’Asia in corso in questi giorni a Guangzhou in Cina.

Nicola Sbetti

STORIA POLITICA DEGLI ASIAN GAMES

Venerdì 12 novembre si sono aperti in Cina i XVI° Giochi d’Asia. Se Pechino aveva avuto le Olimpiadi e Shanghai l’Expo, alla terza città della Cina, Guangzhou, sono toccati i Giochi d’Asia.

Nati nel secondo dopoguerra, dopo i falliti tentativi degli anni ’10 e ’30, i primi Asian Games si disputarono nel 1951 a Nuova Delhi in India. Questa scelta rispecchiava l’intenzione della neonata repubblica di svolgere un ruolo di guida politico-culturale fra sui suoi vicini. Le sole undici nazioni che vi parteciparono riflettevano la situazione di decolonizzazione e instabilità presente nel continente asiatico: del resto, nel 1951 era ancora in corso la Guerra di Corea.

Dal ’51 a oggi i Giochi si sono tenuti regolarmente in nove paesi diversi. Le squadre partecipanti sono passate da 11 a 45, gli atleti da 489 a 9.704 e gli sport da 6 a 42. Bangkok è stata la città che ha ospitato più edizioni, ben 4. Nel 1970 e nel 1978 la capitale della Tailandia salvò i Giochi dopo l’abbandono della Corea del Sud (1970) e del Pakistan (1978). Dal 1986 si disputano anche i Giochi d’Asia invernali e dal 2005 i Giochi d’Asia Indoor. L’ultima partecipazione di Israele fu quella del 1974; dopo di che, per ragioni politiche legate al crescente peso dei paesi arabi in seno all’Olympic Council of Asia, fu escluso e costretto a migrare nei Comitati Olimpici Europei.

È stato detto che il medagliere può essere visto come il barometro della salute delle nazioni. Personalmente non credo troppo a questa teoria, ma osservare la sua evoluzione resta sempre un esercizio molto interessante.

Dal 1951 al 1978, il Giappone, nazione sconfitta dalla guerra con un passato olimpico importante e bastione del cosiddetto occidente in Asia, ha dominato nettamente il medagliere, prima di cedere il passo alla Cina.

Quest’ultima, ammessa ai Giochi nel 1974, abbandonò l’ideologia maoista legata all’idea di uno sport salutista e non competitivo, ottenendo risultati stupefacenti. Con un sincronismo impressionante, infatti, i successi in campo sportivo andavano di pari passo a quelli economici. Dal 1982 a oggi la Cina ha sempre dominato il medagliere e, a partire dal 1990, le sue medaglie tendono ad essere più del doppio rispetto a quelle vinte dalla seconda. Ciò rende ancor più evidente l’egemonia, non solo sportiva, del paese sul continente.

I Giochi d’Asia sono stati anche un palcoscenico per le potenze medio-piccole. È il caso dell’Indonesia di Sukarno che sfruttò i giochi di Jakarta del 1962 per rafforzare il nazionalismo indonesiano e porsi come uno dei leader del movimento dei “non allineati”. Il veto a Israele e Taiwan da quell’edizione dei Giochi costò l’esclusione del Comitato Olimpico Indonesiano da parte del Cio.

La Corea del Sud, negli anni Sessanta, emerse anch’essa come potenza sportiva (ed economica) sotto il regime di Park Chung Hee. Poco prima di essere assassinato nel 1979, l’ex generale golpista aveva dato il là alla candidatura olimpica per Seul 1988.

Non fa testo invece l’India, la cui cultura sportiva è assai lontana da quella occidentale delle competizioni olimpiche, presenti in massa nei Giochi d’Asia. Gli unici sport di origine occidentale che appassionano realmente le folle indiane sono il cricket e, in seconda battuta, l’hockey su prato. Il suo essere una potenza asiatica con ambizioni globali quindi non si riflette, al contrario della Cina, nelle medaglie vinte, anche perché, se è vero che l’India vuole essere un “player” internazionale, è evidente che cerca di esserlo alle sue condizioni, non rinnegando la propria cultura.

Nicola Sbetti