LE COREE E LA DIPLOMAZIA DEL CALCIO

Divise sul campo di battaglia, vicine su quello di calcio: ecco il destino di Corea del Nord e Corea del Sud.

Quando, nel 1948, viene adottata la decisione di suddividere la penisola coreana in due diversi Stati – l’uno ispirato al modello delle democrazie liberali, l’altro invece di stampo comunista – probabilmente, anzi, sicuramente nessuno si sofferma a riflettere sulle ripercussioni in ambito sportivo che essa avrà. Eppure, prima o poi, le strade di Corea del Nord e Corea del Sud troveranno un punto d’incontro (o di scontro, vedetela come volete) non solo in un campo di battaglia, ma anche da gioco. Forse perché, come sosteneva qualche anno prima George Orwell, lo sport non è altro che un’imitazione della guerra. E così fu.

Lo scrittore inglese, morto esattamente in quell’anno, sottolineava gli aspetti negativi dello sport: non è altro che una causa di attriti o, nel migliore dei casi, un pretesto per esibire con orgoglio una presunta superiorità tecnica nei confronti dei dirimpettai. E questo corrispondeva in parte a verità anche nel caso della Corea di fine anni ’20: la linea di demarcazione tra i due paesi, in corrispondenza del 38° parallelo, è un’ipotesi ancora piuttosto remota ma nello sport emerge comunque una rivalità tra Pyongyang e Seoul. Una rivalità calcistica che trova sfogo nell’istituzione dei giochi Gyung-Pyong, appuntamento fisso a partire dal 1929. Una tradizione che si ripete per otto volte, fino al 25 marzo 1946: è questa la data dell’ultimo incontro di calcio tra le due città con il paese unito. Trascorre un paio di anni e la Corea cessa di esistere, lasciando spazio a due nuovi stati che parlano la stessa lingua ma che finiscono sotto aree di influenza agli antipodi. Poi arriva il momento del conflitto bellico, quello vero: scoppiato nel 1950, finirà solamente tre anni dopo, con un accordo di pace che mai troverà una sua reale applicazione. Anche tra le due Coree è guerra fredda.

Poi, all’improvviso, a quasi trenta anni di distanza dalla divisione della penisola, ecco che il destino inizia a metter mano sui rapporti tra i due paesi: il 6 maggio 1976 diventa una data storica, allorché le rispettive selezioni calcistiche si ritrovano da avversarie. Per la prima volta, Corea del Nord e Corea del Sud si sfidano a colpi di pallone anziché di cannone: è Bangkok ad ospitare l’incontro, valido per le semifinali dei Campionati asiatici di calcio giovanili, che si conclude con la vittoria stringata (1-0) della metà settentrionale della penisola. Due anni dopo, poi, è la volta della prima sfida tra le nazionali maggiori: ironia della sorte, è nuovamente Bangkok il teatro della sfida fratricida tra Pyongyang e Seoul. E, questa volta, si lotta per un premio ancor più prestigioso: la vittoria dei Giochi asiatici. Quella del 22 dicembre 1978 diventa, così, un’edizione ricca di significati: la capitale thailandese viene scelta dopo le precedenti rinunce di Singapore per motivi finanziari e di Islamabad a causa dei conflitti che vedono il Pakistan impegnato contro Bangladesh e India. È anche l’edizione che coincide con l’espulsione delle rappresentative israeliane dai Giochi asiatici. Soprattutto, è l’edizione che regala Corea del Nord-Corea del Sud come duello finale del torneo di calcio nel trentesimo anniversario della loro data di fondazione: entrambe marciano spedite verso l’atto supremo, senza perdere un solo incontro e dando saggio di grande forza. Ma nell’atteso scontro tra titani nessuna delle due riesce a prevalere, neppure dopo i tempi supplementari: niente rigori, il regolamento prevede che il primo posto sia assegnato ex aequo. Vince, è il caso di dire, la Corea, senza operare distinzioni geopolitiche.

Il terzo confronto tra i due stati separati avviene, ancora una volta, in Thailandia: è qui che, nel novembre 1981, si disputa la quattordicesima King’s Cup, torneo internazionale a cadenza annuale al quale prendono parte anche alcune nazionali europee. Ad onor del vero, Corea del Nord e Corea del Sud inviano le loro rappresentative militari, i cui giocatori fanno in realtà parte delle forze armate, entrambe inserite nel girone 2: la vittoria, ancora una volta, arride ai settentrionali che, imponendosi per 2-0, ipotecano la qualificazione al turno successivo. In tre incontri, la Corea del Nord ne vince due, senza mai subire reti. Una gioia destinata, tuttavia, a non ripetersi per otto anni. 16 ottobre 1989: mentre la guerra fredda tra USA e URSS volge ormai al termine – e di lì a poche settimane crollerà il Muro di Berlino – a Singapore le due nazionali scendono in campo in un match valido per le qualificazioni ai Mondiali di Italia ’90. Dopo due sconfitte, un pareggio e nessun gol segnato, la Corea del Sud riesce a porre fine al malefico sortilegio: dopo diciotto minuti Hwang Sun-Hong segna la rete che decide l’incontro. Un successo storico bissato qualche mese dopo, il 29 luglio 1990: a Pechino le due nazionali tornano a fronteggiarsi per tenere a battesimo la Dynasty Cup, una manifestazione sportiva riservata alle federazioni calcistiche dell’Estremo Oriente e destinata a breve vita. E la Corea del Sud si impone nuovamente con il minimo scarto, trovando tuttavia solamente al novantesimo il gol della vittoria, a firma di Hwangbo Kwan.

Ma il vero evento è a ottobre: a distanza di due settimane, il derby del 38° parallelo si gioca per la prima volta nei rispettivi paesi. Una tantum, non ci sono trofei o qualificazioni ai Mondiali da vincere: Corea del Nord e Corea del Sud danno vita ad una serie di amichevoli meglio note come “partite della riunificazione”. Il calcio, dunque, diventa uno strumento diplomatico – come il ping pong lo fu per Cina e Stati Uniti – per favorire il disgelo tra i due paesi, far avvicinare le rispettive posizioni e, perché no?, sognare di unire nuovamente la penisola coreana sotto un’unica bandiera. Si arriva così ad un altro, storico incontro: quello dell’11 ottobre 1990 che ha per scenario il mastodontico stadio “Rungrado – May Day” di Pyongyang, avveniristica struttura simile ad un fiore di magnolia che può ospitare oltre 150mila spettatori. E, non a caso, gli spalti fanno registrare il tutto esaurito. A metà del primo tempo la rete del sudcoreano Kim Joo-Sung sembra presagire alla terza vittoria consecutiva di Seoul, ma ad inizio ripresa il capitano Yoon Jung-Soo fa impazzire i sostenitori locali siglando il gol del pareggio. Ed in pieno recupero, due minuti oltre lo scadere dei tempi regolamentari, Tak Yong-Bin trasforma il rigore che completa la rimonta e regala alla Corea del Nord il successo per 2-1. Dodici giorni dopo, il 23 ottobre, si torna nuovamente a giocare ma a campi invertiti: all’Olimpico di Seoul la sponda meridionale della penisola vendica il recente ko con un’altra rete decisiva di Hwang Sun-Hong, messa a segno dopo venticinque minuti.
Il 1991 è un anno di pausa, quanto ad amichevoli o partite di un certo peso. Ma non è un anno qualsiasi. Ai Mondiali di calcio Under 20, ospitati dal Portogallo, Nord e Sud uniscono le forze e si presentano sotto un’unica bandiera: è quella della Corea unificata, un vessillo bianco al cui centro risalta il profilo, colorato di azzurro, della penisola. Una circostanza che, però, non avrà alcun seguito, nonostante i giovani coreani scrivano una delle pagine più belle battendo di misura l’Argentina. Il confronto diretto tra le due Coree ritorna il 24 agosto 1992: ancora Pechino, ancora Dynasty Cup. A differenza delle precedenti sfide, però, in terra cinese esce un salomonico pareggio: al (solito) vantaggio sudcoreano del futuro capitano Hong Myung-Bo replica, nuovamente nelle battute conclusive, Choi Yong-Son. Senza storia, invece, l’incontro che va in scena in Qatar il 28 ottobre 1993: la Corea del Sud è in piena corsa per la qualificazione ai Mondiali americani ed i cugini del nord proprio non riescono ad opporre resistenza. Al triplice fischio finale è 3-0, la vittoria con il maggior scarto nella storia delle sfide fratricide, con le reti che giungono tutte nella ripresa: i marcatori sono Ko Jung-Woon, Ha Seok-Joo e, soprattutto, Hwang Sun-Hong. Segnando il momentaneo raddoppio sudcoreano, l’attaccante transitato brevemente dalla Bundesliga diventa il detentore di un curioso record: con tre reti è lui il cannoniere più prolifico nella storia delle sfide sull’asse Pyongyang-Seoul.

Per dodici anni, poi, non succede più nulla (eccezion fatta per un’amichevole a Seoul nel settembre 2002 tra le nazionali giovanili, organizzata dalla Fondazione Europa-Corea e sponsorizzata dalla federcalcio del Sud). Fino al 4 agosto 2005, nel pieno dei Campionati est-asiatici, competizione che ha raccolto l’eredità della Dynasty Cup: a Jeonju, città sudcoreana che ha ospitato alcune partite dei Mondiali di calcio, le due nazionali si preoccupano prima di tutto della fase difensiva e non si aggrediscono vicendevolmente. Come nel primo incontro tra le nazionali maggiori, avvenuto nel 1978, tra Corea del Nord e Corea del Sud è pareggio a reti bianche. Non sarà così dieci giorni dopo per un altro appuntamento con le amichevoli della riunificazione: è il 14 agosto e a Seoul regna un clima gioioso e ridanciano. Il giorno dopo, infatti, si celebra l’anniversario della liberazione dal Giappone. E i sessanta anni della prestigiosa ricorrenza non potevano ricevere miglior festeggiamento: i “diavoli rossi” assestano il secondo 3-0 nella storia dei confronti diretti, andando in gol con Chung Kyung-Ho, Kim Jin-Yong e Park Chu-Young.
Ma il vero anno che rimarrà nella storia è il 2008: per quattro volte in meno di sette mesi Nord e Sud si sfidano in ambito calcistico. Un’abbuffata di derby che si chiude senza vinti né vincitori. Si inizia il 20 febbraio con un altro incontro valido per i Campionati est-asiatici, nella città cinese di Chongping: l’ennesima illusione di supremazia sudcoreana si concretizza con il gol di Yeom Ki-Hun, ad un quarto d’ora dal termine Jong Tae-Se riporta tutti con i piedi per terra. Il 26 marzo, invece, ci si gioca la qualificazione ai Mondiali in Sud Africa: è Shangai ad ospitare, per motivi politici, l’incontro che vede i nordcoreani come nazione ospitante. Niente reti, niente vincitori o sconfitti: la stessa trama che offre il match di ritorno a Seoul, giocato il 22 giugno. Finita l’estate, è nuovamente Corea del Nord-Corea del Sud: a Shangai, il 10 settembre, le due cugine osano maggiormente rispetto alle precedenti uscite e segnano un gol a testa. E, come a voler spezzare la catena, stavolta sono i padroni di casa a sbloccare il risultato con il rigore di Hong Young-Jo, cui fa seguito dopo nemmeno cinque minuti il pareggio definitivo di Ki Sung-Yong. L’ultimo incrocio avviene il 1° aprile 2009 a Seoul, per la gara di ritorno della seconda fase della qualificazione mondiale: mancano appena tre minuti alla fine quando Kim Chi-Woo regala alla Corea del Sud la sesta vittoria in questa serie di derby dal sapore particolare.

A rendere ancor più intricati i legami tra calcio e politica nelle vicinanze del 38° parallelo ha poi provveduto la FIFA: giovedì 2 dicembre, infatti, verranno decisi i paesi che ospiteranno le edizioni 2018 e 2022 dei Mondiali di calcio. Nel secondo caso ha avanzato la propria candidatura anche la Corea del Sud, opposta ad Australia, Qatar, Stati Uniti e Giappone (già, c’eravamo tanto amati…). E Seul ha fatto sapere che, in caso di assegnazione, lavorerà affinché alcune partite siano giocate al di là del 38° parallelo. Assai singolare, comunque, che negli stessi giorni le due Coree siano coinvolte in questi giochi: non sorprenderebbe se nuovi, paventati scontri influissero negativamente sulla decisione della FIFA e se, viceversa, l’assegnazione dei Mondiali 2022 alla Corea del Sud indirizzasse i due paesi verso una riappacificazione e, chissà, una riunificazione della penisola.  La partita, insomma, si gioca tanto a Zurigo quanto nel Mar Giallo. Può un semplice pallone di cuoio decidere i destini di due paesi?

Simone Pierotti

MORTE NEL POMERIGGIO

Novanta anni fa, una partita qualunque di football gaelico si macchiava di sangue.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Secondo una leggenda mai provata fino in fondo, quel giorno i militari inglesi si sfregano le mani: non importa quale faccia della moneta verrà restituita dal lancio in aria, gli irlandesi la pagheranno cara, in quella domenica di fine novembre del 1920. Da qualche anno i rapporti tra l’Irlanda e la corona si sono irrigiditi: il Parlamento britannico approva l’Home Rule, riconoscendo così l’autogoverno dell’isola dei celti, mentre in Europa divampa la Prima guerra mondiale. Lo scoppio del conflitto porta al rinvio dell’entrata in vigore dell’atto e contribuisce ad innervosire gli animi: il 1916 è l’anno dell’Easter Rising, la Rivolta di Pasqua, una ribellione armata di sei giorni sedata duramente dagli inglesi. Lo scontro tocca l’apice con le elezioni del 1918, le prime con la nuova riforma elettorale che estende il diritto di voto anche alle donne ultratrentenni: il Sinn Féin, partito nazionalista irlandese, ottiene 73 seggi in Parlamento ma i suoi militanti si rifiutano di sedere sugli scranni di Westminster. Decidono, invece, di costituire un’assemblea irlandese – il Dáil Éireann – ed un proprio governo – l’Aireacht, guidato da Éamon de Valera: entrambi gli organi proclamano l’indipendenza dell’isola. Si apre, così, il conflitto anglo-irlandese, del quale la Bloody Sunday del 21 novembre 1920 costituisce una tappa cruciale.

La lunga domenica di sangue a Dublino inizia con il sorgere del sole: di buon mattino, le squadre dell’IRA (Irish Republican Army) entrano in azione. Il piano è già predisposto: il capo dell’intelligence, nonché ministro delle finanze dell’Aireacht, Michael Collins ordina l’assassinio di alcune spie inglesi presenti in città. In particolare, l’attenzione è rivolta alla Cairo Gang, un gruppo di diciotto alti ufficiali britannici che hanno prestato servizio per Sua Maestà in Egitto e Palestina e che vorrebbero infiltrarsi nell’organizzazione di Collins: nessun dubbio, sono loro il bersaglio da colpire. Con la complicità di alcune domestiche e grazie alle soffiate di un poliziotto della RIC (Royal Irish Constabulary), gli uomini di Collins riescono a scovare il domicilio di numerosi agenti britannici: la maggior parte di essi è localizzata in un sobborgo meridionale di Dublino. All’alba iniziano le operazioni, che portano all’omicidio di quattordici persone, tra cui due appartenenti alla Divisione Ausiliaria, quattro ufficiali dell’intelligence britannica ed altrettanti agenti dei servizi segreti: sono meno della metà dei trentacinque nomi finiti sulla lista nera, ma la notizia scuote l’intelligence britannica presente in Irlanda. E la vendetta non tarda ad arrivare.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Le truppe inglesi stanno predisponendo il contrattacco. Due le alternative: o si mette a ferro e fuoco Sackville Street, oppure si fa irruzione a Croke Park, cattedrale del football gaelico. Testa o croce. Croce. In tutti i sensi. Nonostante il clima di tensione, cinquemila – anzi, diecimila secondo altre fonti – persone si dirigono allo stadio: i locali del Dublino affrontano la squadra di Tipperary (nella foto a sinistra, il biglietto della partita). Iniziato alle 15.15, con mezzora di ritardo, l’incontro viene interrotto dopo dieci minuti: è in quell’istante che i Black and Tans, un gruppo paramilitare britannico, forzano i tornelli dell’entrata da Canal End e irrompono sul campo di gioco, spalleggiati all’esterno da truppe della RIC e della Divisione Ausiliaria. I militari aprono il fuoco sulla folla, sparando per novanta, interminabili secondi. Gli spettatori, in preda al panico, fuggono terrorizzati: alcuni di loro provano a mettersi in salvo scavalcando il muro della tribuna Canal End, altri si dirigono verso l’altra estremità dello stadio, gli ingressi su Clonliffe Road. Ad attenderli c’è un altro cordone di militari, supportato da un’autoblindo che lascia partire altri proiettili sopra le teste della folla impaurita. Per un macabro scherzo del destino, Londra restituisce il colpo a Dublino: quattordici le vittime del mattino, quattordici le vittime del pomeriggio. Al Croke Park sono sette le persone crivellate, mentre cinque vengono ferite mortalmente e, infine, altre due muoiono calpestate dalla folla in fuga: la morte si porta via due bambini di appena 10 e 11 anni e Jeannie Boyle, una ragazza che si era recata alla partita in compagnia del fidanzato che, cinque giorni dopo, l’avrebbe dovuta portare all’altare. Anche lo sport piange: rimangono a terra Jim Hegan del Dublino, che riesce tuttavia a sopravvivere, e Michael Hogan, capitano del Tipperary, che invece non viene risparmiato dai proiettili. Ed è proprio a lui che, qualche anno dopo, verrà intitolata una delle tribune del Croke Park. Ma gli irlandesi non hanno ancora finito di versare sangue: due alti ufficiali dell’IRA, Dick McKee e Peadar Clancy, assieme all’amico Conor Clune vengono portati al Castello di Dublino, quartier generale inglese sull’isola. Qui subiscono torture e muiono in circostanze misteriose. Il numero delle vittime sale, così, a trentuno. L’Irlanda paga con il sangue di alcuni suoi figli la sollevazione nei confronti dell’Inghilterra, ma la tragica vicenda segna le menti dell’opinione pubblica: la credibilità del Regno Unito sullo scenario politico internazionale ne esce a pezzi, il sostegno al governo repubblicano di de Valera si fa sempre più forte.

L’escalation di violenza prosegue per oltre un anno, fino all’11 luglio 1921, quando viene firmata la tregua e lo Stato Libero d’Irlanda viene riconosciuto da Londra come dominion, una comunità cioè associata all’impero britannico ma con poteri autonomi ed un proprio Parlamento. Nel frattempo la GAA, l’associazione che promuove e coordina gli sport gaelici, vieta agli appartenenti alle truppe britanniche o alle forze dell’ordine nordirlandesi di assistere a eventi sportivi organizzati dalla GAA stessa. Al contempo, fa sì che gli sport “stranieri” e, nella fattispecie, britannici – ad esempio calcio e rugby – non possano essere giocati negli impianti della GAA come il Croke Park. Le conseguenze più importanti, però, si hanno in ambito giudiziario: due corti militari aprono immediatamente l’inchiesta sui fatti del 21 novembre e, in poco più di due settimane, emettono un verdetto. Il governo britannico, però, fa sparire le carte processuali, rimaste nascoste per oltre ottanta anni: una volta rinvenute – dieci anni fa – è stato possibile venire a conoscenza della sentenza. E cioè che il fuoco aperto sulla folla dagli inglesi era da considerarsi un gesto indiscriminato ed ingiustificabile e, soprattutto, veicolato senza alcun ordine superiore. Resta, ancor oggi, qualche dubbio su chi abbia effettivamente iniziato gli spari a Croke Park tra gli uomini dell’IRA e le truppe al servizio della Gran Bretagna (qui trovate tutte le ricostruzioni e numerose testimonianze). Ma sul sangue che scorreva a fiotti in quella maledetta domenica, no, non v’è dubbio alcuno.

AMERICA SOTTO SMACCO

Esattamente cinque anni il Maccabi Tel Aviv divenne la prima squadra europea di basket a sconfiggere una formazione NBA sul suolo americano.

No, gli Stati Uniti proprio non volevano saperne di ammettere di essere stati sconfitti dai “pivellini” europei. 8 settembre 1978: a Tel Aviv il Maccabi disputa un’amichevole contro i Washington Bullets, vincitori del loro primo – e, finora, unico – titolo NBA. Dick Motta, artefice del miracolo, porta in Israele appena nove giocatori, comprese le stelle Elvin Hayes e Wes Unseld. Ma i campioni americani sono fuori forma e con la testa ancora in vacanza: il raduno inizierà solamente tra un mese. I mediorientali intuiscono che può essere il momento propizio per scrivere una pagina di storia. E così è: Miki Berkovich, indiscusso trascinatore del Maccabi e della nazionale, segna da solo 26 punti. E contribuisce ad una clamorosa vittoria per 98-97. L’Europa batte l’America. O, data la nazionalità del Maccabi, David affossa Golia. Ma l’America non riconosce l’impresa compiuta dagli israeliani, che negli anni immediatamente successivi ottengono altri tre successi contro una selezione NBA, i New Jersey Nets ed i Phoenix Suns. Le amichevoli, però, si sono giocate nel mese di agosto: per il massimo organo cestistico d’oltreoceano le vittorie sono dunque da invalidare. Un boicottaggio che prosegue sino al 1987, anno di istituzione del McDonald’s Open, triangolare prima e quadrangolare poi che manda in pensione la Coppa Intercontinentale. Qui le squadre NBA, forse per la compartecipazione della Federbasket mondiale alla creazione dell’evento, non accettano semplicemente di confrontarsi ancora con avversari del Vecchio Continente: da questo momento, infatti, i confronti tra Europa e America acquisiscono il valore dell’ufficialità. Nello stesso anno la nazionale dell’URSS sconfigge, in amichevole, gli Atlanta Hawks con un pazzesco 132-123. Che facciamo, la riconosciamo? “No, non ancora. Il confronto è impari, è una nazionale opposta ad una franchigia NBA” bofonchiano dall’altra estremità dell’Atlantico. Le prime europee a sfiorare, questa volta sì, l’impresa sono le italiane: la Tracer Milano dà il via ai confronti ufficiali sull’asse America-Europa e la Scavolini Pesaro si arrende soltanto ai supplementari ai Knicks nel corso della quarta edizione del Mc Donald’s Open. Passano quattordici anni e la Benetton Treviso rischia un colpo ancor più grosso, perdendo 86-83 all’Air Canada Centre di Toronto contro i Raptors. La lacuna sembra ormai colmata.

17 ottobre 2005. Stesso scenario, stesso avversario. L’Europa lancia ancora il guanto di sfida ai Raptors e nella circostanza si affida alla vincitrice dell’Eurolega, il Maccabi Tel Aviv, seguito sugli spalti dell’arena canadese dalla numerosa comunità ebrea. Per quanto sia un’amichevole, il coach americano Sam Mitchell non vuol passare per il buon samaritano e fin da subito schiera Chris Bosh, Morris Peterson e Jalen Rose, i giocatori più talentuosi della sua squadra. Pini Gershon replica con un dispiegamento di forze tutt’altro che inferiore: Nikola Vujčić, Anthony Parker e l’ex di turno Maceo Baston sono della partita già dal primo minuto.
La trama dell’amichevole è paragonabile a quei libri gialli in cui nelle pagine iniziali si deduce già il nome dell’assassino, perché i Raptors mantengono sempre la situazione a proprio vantaggio e chiudono il primo quarto avanti per 24-20. Il Maccabi non abbassa la guardia e, anzi, durante il successivo parziale pareggia temporaneamente con una schiacchiata di Anthony Parker. I canadesi riordinano presto le loro idee: nella seconda metà del quarto segnano diciassette punti, concedendone appena sette, e arrivano così all’intervallo lungo con dieci lunghezze di vantaggio (56-46).

In America, esattamente in occasione del titolo NBA di Washington di ventisette anni prima, fu coniata una massima divenuta assai presto di uso comune: “L’opera non è finita fino a quando canta la donna grassa”. Mai darsi per spacciati nello sport, almeno fino a quando il direttore di gara non fischia la fine della contesa. Il Maccabi, sospinto dal calore degli ebrei canadesi, prova a giocarsi le sue carte vincenti anche quando si trova a dover saldare un debito da quattordici punti. Due tiri liberi di Baston avvicinano nuovamente gli israeliani che hanno il merito di decurtare di sei punti lo scarto: l’impresa non appare più così impossibile da portare a compimento. E, quando il tabellone dell’Air Canada Centre ricorda che ci sono meno di tre minuti da giocare, il Maccabi passa per la prima volta in vantaggio (95-93), spinto da una tripla di Will Solomon. Una prodezza preceduta dalla monumentale difesa di Yaniv Green, vigile custode del canestro israeliano che stoppa un tiro in sospensione di Mike James e, soprattutto, rende nullo il tentativo di lay-up di Rose. Le certezze dei canadesi si sono sgretolate, oramai si lotta punto su punto.

Diciannove secondi alla conclusione. James ha appena messo dentro il canestro del 103-103. Il Maccabi gestisce l’ultima azione dell’incontro. Gli israeliani puntano tutto su Anthony Parker, miglior giocatore dell’Eurolega vinta dai gialloblù di Tel Aviv. Lui è nato a Naperville, Illinois, ha giocato a Philadelphia e Orlando, il basket americano non è certo un mistero per lui. E la guardia del Maccabi si mette in testa di diventare un eroe. Otto decimi alla conclusione: Parker, tutto isolato in un angolo, mira il tabellone e spicca il volo, Peterson prova ad oscurargli la visuale ma invano. Il pallone si accoccola tra le maglie della retina. Canestro. 105-103. Il Maccabi riscrive la storia del basket: mai una formazione europea aveva sconfitto una franchigia NBA sul suolo americano. Gli Stati Uniti erano usciti malconci dai Mondiali di Indianapolis e dai Giochi olimpici di Atene, ma con le squadre di club avevano sempre salvato l’onore. Adesso no, non più. Inutili i puerili tentativi della NBA di occultare, sul proprio sito web, anche questa sconfitta, stavolta sì ufficiale: l’ultimo baluardo è stato abbattuto.

Simone Pierotti

PALLANUOTO: FUORI SAVONA E BRIXIA

Nel secondo turno di qualificazione di Eurolega, le due italiane sono eliminate.

Grande delusione per le due formazioni italiane impegnate nel secondo turno di qualificazione dell’Eurolega di pallanuoto: Rari Nantes Savona e Brixia Leonessa non riescono ad accedere alla fase a gironi e vengono, conseguentemente, retrocesse in Coppa LEN. Se i liguri hanno qualcosa da recriminare per essere stati eliminati solamente a causa di un gol di differenza, i lombardi hanno racimolato appena un punto in tre partite.

Girone E. Spesso il fattore campo incide in maniera limitata nella pallanuoto: d’accordo il sostegno dei tifosi, ma in acqua la differenza di valori tecnici emerge. A quanto pare, però, il calore del pubblico catalano ha fatto sì che nello spareggio per il secondo posto e, dunque, per la qualificazione alla fase a gironi la spuntassero i padroni di casa del Club Natació Barcelona che superano in volata il Savona. Gli uomini di Mistrangelo, dopo una buona partenza, si giocano la qualificazione perdendo contro i montenegrini del Budva, promossi come primi classificati, e gli spagnoli. Nel match decisivo non bastano i quattro gol di Mlađan Janović per evitare la cocente eliminazione. A Barcellona prime presenze europee con la nuova calottina per il portiere Goran Volarević e per il difensore Jesse Smith.

CLASSIFICA

1) VK Budva 9 pti

2) CN Barcelona 6 pti

3) RN Savona 3 pti

4) NO Vouliagmeni 0 pti

Girone F. Un punto, e nulla più. Il Brixia era giunto a Novi Sad con ottimismo ma l’obiettivo della fase eliminatoria non è stato centrato. La strada si è fatta subito in salita con il pareggio (9-9) contro i russi del Sintez Kazan, poi la sconfitta contro il locale settebello del Vojvodina ha dato il colpo di grazia alle residue speranze. Ai bresciani sono mancati soprattutto i gol di Roberto Calcaterra, a segno solamente per due volte nell’ultimo match, quello contro gli ungheresi dello Szeged Beton, quando i giochi erano ormai fatti. Anche il Brixia, al pari del Savona, parteciperà adesso al secondo turno di qualificazione della Coppa LEN assieme al Sintez. Promossi alla fase a gironi il Szeged Beton allenato da Zoltán Kásás, padre di Tamás, ed il Vojvodina.

CLASSIFICA

1) Szeged Beton 9 pti

2) Vojvodina Novi Sad 6 pti

3) Brixia Leonessa 1 pto

4) Sintez Kazan 1 pto

Girone G. Unico gruppo in cui la squadra ospitante non riesce a superare il turno: a Berlino lo Spandau 04 di Hagen Stamm chiude infatti con un misero terzo posto. A regnare incontrastato, e non poteva essere altrimenti, è il Mladost Zagabria che sfoggia subito il fiore all’occhiello della campagna acquisti, quel Vanja Udovičić che al momento può forse essere considerato il più forte pallanotista al mondo. Gli ungheresi dell’Eger staccano l’altro biglietto per la fase eliminatoria, ultimi e senza vittorie i francesi del Marsiglia.

CLASSIFICA

1) Mladost Zagabria 9 pti

2) ZF Eger 6 pti

3) Spandau 04 3 pti

4) CN Marsiglia 0 pti

Girone H. Il Primorje Rijeka vince a punteggio pieno il quarto gruppo facendo leva sull’entusiasmo dei suoi sostenitori accorsi alla piscina di Fiume. Un trionfo che arriva nel giorno in cui Predrag Sloboda, presidente della società, viene eletto a capo della Federpallanuoto croata. In acqua vengono domati tutti gli avversari, compresi i vicecampioni in carica del Primorac Kotor che riescono comunque a centrare almeno il secondo posto. Finiscono in Coppa LEN i greci del Panionios, secondi a nessuno quanto ad abnegazione e buona volontà ma evidentemente inferiori sul piano tecnico a croati e montenegrini, e gli slovacchi dell’Hornets Košice, squadra materasso del girone.

CLASSIFICA

1) Primorje Rijeka 9 pti

2) Primorac Kotor 6 pti

3) Panionios 3 pti

4) Hornets Košice 0 pti

Le prime due classificate di ogni girone raggiungono così la fase eliminatoria, al via il 13 e 14 novembre, alla quale sono già qualificate Pro Recco, Jug Dubrovnik, Jadran Herceg Novi, Olympiakos, Atlétic Barceloneta, Vasas Budapest, Partizan Belgrado e Spartak Volgograd. Le terze e quarte classificate, invece, partecipano al secondo turno di qualificazione della Coppa LEN.

Simone Pierotti

PALLANUOTO: OLYMPIAKOS IN GRAVE CRISI

La società non paga gli stipendi e i giocatori si rifiutano di allenarsi: acque agitate al Pireo.

Hanno semplicemente deciso di difendere i loro diritti e di scioperare. Una scena divenuta oramai una pratica pressoché quotidiana in Grecia, dopo l’avvento di una recessione economica senza precedenti. Ma loro non sono dipendenti statali, portuali, insegnanti o agricoltori, tra le figure che più volte hanno incrociato le braccia nell’ultimo semestre. Sono i giocatori della squadra di pallanuoto dell’Olympiakos, celebre polisportiva del Pireo che ha in calcio e pallacanestro i suoi fiori all’occhiello: la società non paga da tempo gli stipendi e adesso i campioni di Grecia hanno deciso di incrociare le braccia, rifiutandosi di presenziare agli allenamenti. E, tra polemiche e disperati tentativi di trovare una soluzione, c’è chi ha già fatto le valigie.

La bolla è scoppiata un mese fa, il 6 settembre: i giocatori e l’allenatore Vangelis Pateros avrebbero dovuto riprendere gli allenamenti in vista della nuova stagione (il campionato greco inizia il 6 novembre e, qualche giorno dopo, sarà la volta dell’Eurolega) ma, invece di scendere in acqua, hanno deciso di scioperare fino a quando non riceveranno garanzie sul futuro. L’Olympiakos ha dovuto fare i conti con la sciagurata gestione del magnate Sokratis Kokkalis: un anno fa ammontava a 70 milioni di euro il debito della società, al momento solo parzialmente ripianato dal nuovo proprietario Vangelis Marinakis, re delle navi da trasporto (la sua flotta è di 170 cargo). In estate si era addirittura rincorsa la voce di un possibile ingaggio del fuoriclasse serbo Dejan Udovičić, ma la realtà ha assunto assai presto i connotati di una tragedia in perfetto stile di Sofocle.

Le risorse economiche di Marinakis sono state principalmente impiegate per rafforzare la squadra di calcio, reduce da una delle stagioni più fallimentari della sua gloriosa storia (scudetto al Panathinaikos dopo la vittoria di cinque campionati consecutivi e mancata qualificazione alla Champions’ League prima e all’Europa League poi). E mentre approdavano al Pireo i calciatori Riera e Rommedhal, due pilastri della squadra di pallanuoto si imbarcavano verso altre destinazioni, alla luce delle incertezze che aleggiano attorno alla società: il centroboa Georgios Afroudakis, miglior marcatore nella storia dello sport ellenico, ha sposato l’ambizioso progetto del Panathinaikos. Ma l’addio più doloroso è stato senza dubbio quello del capitano Theodoros Chatzitheodorou, vera e propria icona dell’Olympiakos: quindici gli anni trascorsi in calottina biancorossa, ventisette i trofei conquistati (nel 2002 pure un grande slam con campionato, Coppa nazionale, Coppa dei Campioni e Supercoppa Europea). Gli era stata proposta una riduzione dell’ingaggio, ma giocatore e società non hanno trovato l’accordo: Chatizitheodorou è adesso libero sul mercato ed il Panionios, vicecampione nazionale in carica, lo sta corteggiando.

Nel frattempo il portiere Nikolaos Deligiannis ed il centroboa Antonis Vlontakis hanno fatto da portavoce dei giocatori nelle trattative con la società, alle quali non era però presente Marinakis: finora solo fumate nere, con gli amministratori che hanno formulato la proposta di decurtare del 60% gli ingaggi.  In una lettera firmata, la squadra ha lamentato la mancanza di trasparenza e gratitudine da parte della società: “Il vicepresidente Yannis Kent ci aveva assicurato che all’avvio della stagione tutto si sarebbe risolto e invece per due mesi c’è  stato silenzio assoluto.  Noi abbiamo fatto il nostro dovere vincendo il campionato da imbattuti per il secondo anno consecutivo. Per sette mesi non ci hanno pagato e, in seguito, ci hanno annunciato che gli ingaggi della stagione 2009-2010 verranno pagati a rate fino a dicembre 2011!”. Christos Afroudakis, intervistato dall’emittente radiofonica Sentra, ha rincarato la dose: “Riceveremo 400mila euro invece del milione che ci spetterebbe. E hanno detto che i nostri stipendi sono troppo cari, quando noi giocatori già in due precedenti occasioni avevamo accettato una riduzione. Da parte nostra non c’è l’intenzione di usare ancora una volta la buona volontà, è una vergogna per lo sport greco dal momento che nella squadra dell’Olympiakos ci sono giocatori che hanno preso parte alle Olimpiadi”. Non è da escludere che si arrivi alle vie legali: “Certo, è una soluzione estrema. Ma non so come la squadra riuscirà a scendere in acqua se non troviamo una soluzione, probabilmente con i giovani. La questione, tuttavia, è che non ci siamo allenati per tutta l’estate: ci costerà molto, ma avrà importanza solo se troveremo una soluzione. In caso contrario, non parteciperemo al campionato”.

Campionato che inizierà solamente tra un mese. Il tempo stringe. Come nelle commedie di Aristofane, ci vorrebbe che dall’alto calasse un deus ex machina pronto a risolvere l’intricata situazione. Ma l’Olympiakos sembra davvero sull’orlo del precipizio.

Simone Pierotti