A VOLTE RITORNANO

Prima uscita ufficiale per i nuovi New York Cosmos, in campo domani per la partita di addio al calcio di Paul Scholes.

Per un calciatore in particolare è l’ultima battaglia da affrontare, è il crepuscolo di una carriera luminosa che, novanta minuti dopo, tramonterà definitivamente. Per la squadra schierata nell’altra metà del campo quell’ora e mezzo di fallacci e azioni corali annuncerà il sorgere del sole dopo essere stata circondata per oltre un quarto di secolo dalle tenebre. Ecco come una banalissima amichevole estiva diventa una partita della vita, della vita sportiva di un atleta che giunge a compimento e della seconda vita sportiva di una società. C’è più di un buona ragione per creare interesse attorno a Manchester United-New York Cosmos: domani sera il centrocampista inglese Paul Scholes scorrazzerà per l’ultima volta sul prato dell’Old Trafford, congedandosi dal pubblico, il suo pubblico. Il braccio teso, la mano che ondeggia: addio, certo. Ma non solo. “Ciao Cosmos, bentornati Cosmos: io mi fermo qui, voi ricominciate”. I Cosmos, l’undici che negli anni Settanta fece – temporaneamente – decollare il calcio in quegli Stati Uniti mai troppo accoglienti verso il pallone, l’undici per cui tifava Henry Kissinger, l’undici che aveva Franz Beckenbauer e Carlos Alberto in difesa e addirittura Pelé e Giorgio Chinaglia in attacco, l’undici che dopo ogni incontro di campionato al Giants Stadium aveva il tavolo riservato al frequentatissimo Studio 54. Sono passati ventisei anni dall’ultima volta in cui i Cosmos misero piede in campo: era il 16 giugno 1985, chiusero malamente con una sconfitta per 2-1 contro la Lazio di Giordano e Manfredonia.

Il desiderio di alcuni utenti di Facebook, manifestato in tempi non sospetti, è stato al fin esaudito: “Bring Back The New York Cosmos”. Roba di un paio di anni fa: una cordata che fa a capo all’immobiliarista Paul Kemsley, già vicepresidente del Tottenham, rileva i diritti d’immagine della squadra che cessò la propria attività nella primavera del 1985. Inattiva, ma non defunta per sempre. Il direttore generale “Peppe” Pinton, braccio destro di Chinaglia, aveva tentato, in maniera lodevole ma del tutto inutile, di amministrare la società assieme all’ex bandiera della Lazio: il declino del calcio americano era però inesorabile e Ross, nel frattempo, era stato costretto a vendere la Atari e la Global Soccer Inc. Naufragato il tentativo, Pinton  tiene in piedi la baracca continuando ad organizzare i campus giovanili al Ramapo College, nel New Jersey: rimane lui il depositario del marchio dei Cosmos. Quasi fosse il profeta del loro verbo, il loro angelo custode, non cede alle lusinghe di chi vuole far risorgere l’undici newyorkese nella MLS, il campionato americano di calcio professionistico. Almeno fino a quando non bussano alla porta Kemsley ed i suoi soci: Pinton si lascia persuadere, sulla scia del contemporaneo ripristino di franchigie che rivaleggiavano con i Cosmos, e cede i diritti alla nuova proprietà. 1° agosto 2010, il giorno del grande annuncio: i Cosmos sono tornati. Ma la cordata britannica si spinge oltre: dateci tre anni di tempo e quella che un tempo fu la squadra più glamour di tutte si iscriverà alla MLS.

Quaranta anni prima nasceva la franchigia che, assai prima del Real Madrid di Florentino Pérez, ebbe l’idea di plasmare una squadra di calcio con le stelle (cadenti) del firmamento mondiale: ebbero l’iniziativa Ahmet e Nesuhi Ertegün, i fratelli turchi dell’etichetta discografica Atlantic Records, ed il magnate Steve Ross, numero uno della Warner Bros. Oggi nella stanza dei bottoni i nomi pronunciati sono quelli di Kemsley stesso, di Rick Parry, ex amministratore delegato del Liverpool, e di Terry Byrne, un passato da agente di David Beckham. E si parla persino dell’ingresso di Robert De Niro tra i soci. Ma c’è un filo conduttore che, in un  solo istante, polverizza i quattro decenni di differenza, come se l’orologio avesse smesso di scandire il passare delle ore: il presidente onorario della rediviva franchigia è nientemeno che Pelé, il ruolo di ambasciatore internazionale viene affidato all’ex portiere Shep Messing, all’ex difensore Carlos Alberto e a Giorgio Chinaglia, il cannoniere più prolifico nella storia della NASL con 242 reti in 254 apparizioni.

IERI AMICI, OGGI RIVALI. Nicky Butt, Éric Cantona e Paul Scholes.

E ci sarà un filo rosso, come la maglia del Manchester United, ad unire le due avversarie di domani, apparentemente prive di legami: tra i giocatori assoldati nell’undici statunitense ci sono anche Nicky Butt, Gary Neville e Dwight Yorke, tre vecchi compagni di spogliatoio di Scholes. I Cosmos non sono ancora in grado di allestire una prima squadra propriamente detta: ad oggi ci sono solamente le scuole calcio sparpagliate nel paese e la formazione Under 23, recentemente iscritta alla quarta divisione nazionale. A fianco dei suoi elementi più validi, come il centravanti bulgaro Stefan Dimitrov, l’imprevedibile colombiano David Diosa ed il talentuoso salvadoregno Marvin Iraheta, sono stati così convocati alcune vecchie glorie o giocatori prossimi alla pensione. Per una notte appena, la mitica casacca bianca dai risvolti verdi finirà sulle spalle degli ex nazionali inglesi Wayne Bridge e Sol Campbell, degli americani Brad Friedel e Brian McBride, dello spagnolo Michel Salgado, del francese Robert Pirès. Nella lista dei prescelti figurano anche vecchie conoscenze dell’Inter come Robbie Keane e Patrick Vieira e, soprattutto, l’ex capitano azzurro Fabio Cannavaro. Ad allenare l’inedita squadra una coppia altrettanto insolita:  la compongono Éric Cantona e Cobi Jones, rispettivamente direttore e vicedirettore tecnico dei nuovi Cosmos. Strani incroci, nella pancia dell’Old Trafford: sir Alex Ferguson avrà come diretto rivale un suo ex giocatore che ha peraltro condiviso per anni lo spogliatoio assieme a Scholes.

Ma la collezione di figurine non avrà seguito dopo la notte di gala a Manchester. Il futuro passa dalla squadra giovanile e dalle scuole di avviamento, il futuro – non troppo ipotetico – si chiama MLS. Niente scimmiottatura calcistica degli Harlem Globetrotters, buoni solo per esibirsi in acrobazie autoreferenziali, niente cimitero degli elefanti come, seppur in buona fede, fece erroneamente Steve Ross. “Ci sono quelli che lavorano tutto il giorno, ci sono quelli che sognano tutto il giorno e ci sono quelli che trascorrono un’ora sognando prima di recarsi a lavorare per realizzare quei sogni. Vai nella terza categoria, virtualmente non c’è competizione” gli sussurrò il padre in punto di morte. Oggi Kemsley e soci si stanno adoperando per trasformare nuovamente in realtà il sogno di riportare in auge i Cosmos. Sai che derby, con i New York Red Bulls…

RAGAZZI D’ORO

I profili degli azzurri campioni del mondo.

Stefano Tempesti, 32 anni, portiere. Per anni ha vissuto con l’ingombrante eredità lasciatagli da Francesco Attolico. Ne è stato, e ne è tuttora, un degno sostituto al quale, fino a oggi, mancava però qualcosa: le vittorie. Tornato ad esprimersi a livelli stratosferici, di fatto è il migliore al mondo nel suo ruolo: basterebbero i due rigori parati alla Serbia per avvalorare la tesi, noi ci mettiamo anche le parate decisive contro Spagna e, soprattutto, Croazia. Infonde sicurezza, sprona e tranquillizza i compagni, assolvendo alla perfezione al ruolo di capitano.

Amaurys Pérez, 35 anni, difensore. Ancor prima della medaglia d’oro, il possente cubano ha vinto la sfida, tutta personale, con i suoi detrattori: qualche naso arricciato alla presenza del suo nome tra i convocati, soprattutto per l’età anagrafica, ma poi la realtà dei fatti parla un linguaggio diretto e poco equivocabile. In acqua dimostra di poter essere utile alla causa azzurra: in difesa è tenace, in attacco va di tanto in tanto a fare le veci dei centroboa. Una favola emozionante, un’immagine bellissima dell’Italia multietnica.

Niccolò Gitto, 24 anni, difensore. Chiude il suo Mondiale con uno schiaffo sul collo a Udovičić che gli riserva un’espulsione per gioco violento e lascia l’Italia senza un marcatore del centro nelle fasi concitate della finale. Anche nella semifinale con la Croazia la sua partita si conclude anzitempo. Peccato, perché il mastino laziale si è comunque fatto apprezzare nei quindici giorni di torneo: da incorniciare la doppietta contro gli Stati Uniti, soprattutto il primo gol, e la magnifica rete della liberazione nella sofferta vittoria contro la Germania.

Pietro Figlioli, 27 anni, attaccante. Forse sarà una pura e semplice coincidenza. Da quanto ha ottenuto il passaporto italiano, però, il Settebello ha vinto l’argento europeo, è arrivata secondo alla World League e poi ha conquistato il mondo. Rapido nella nuotata ed imbattibile sullo scatto iniziale, i ragazzini lo hanno sempre idolatrato per le sue conclusioni al fulmicotone: in Cina è stato bravissimo nel mettersi maggiormente al servizio della squadra. Indimenticabili i quattro gol rifilati alla Spagna nel quarto di finale.

Alex Giorgetti, 23 anni, attaccante. La sorpresa più bella di questo Settebello: escluso eccellente agli Europei di Zagabria, tagliato fuori dalla Pro Recco nella squadra per l’Eurolega, ha puntato tutto sul campionato per riconquistare la calottina azzurro. Arrivato a giugno in ottime condizioni fisiche, a Shanghai non ha fatto che replicare quanto di buono aveva fatto in World League: ormai maturo per i grandi palcoscenici, contro la Croazia è stato eccezionale. E adesso meriterà un minutaggio maggiore nella sua squadra.

Maurizio Felugo, 30 anni, attaccante. Pochi ma buoni, nel senso dei gol decisivi: si sblocca contro gli Stati Uniti, apre le danze con la Spagna e firma la rete che ci regala il Mondiale. Autentico uomo spogliatoio, prima di ogni incontro carica i compagni e si carica spesso dei compiti più gravosi, mettendo a segno autentici capolavori della pallanuoto. Assieme a Tempesti conquista l’oro dopo anni di battaglie e di competizioni concluse lontano dal podio: nessuno più di loro due merita davvero questa medaglia.

Niccolò Figari, 23 anni, difensore. Ha avuto pazienza ed è stato ricompensato: un anno fa rimase fuori dai tredici per gli Europei di Zagabria, con la Pro Recco ha giocato quasi esclusivamente nelle competizioni nazionali, in World League è sempre costretto al ruolo di spettatore non pagante. A Shanghai è finalmente il suo turno e lui, il cucciolo del gruppo, si toglie la soddisfazione di andare a rete contro la Croazia. Il futuro del Settebello.

Valentino Gallo, 26 anni, attaccante. Il mancino siracusano, due anni fa, si era rivelato come una delle poche note liete di un Mondiale nerissimo per la pallanuoto italiana. Eppure il suo rendimento era stato altalenante, e così pure a Zagabria, dove comunque era piaciuto. Adesso è uno dei trascinatori del Settebello: raramente non si assume la responsabilità di chiudere l’azione offensiva, spesso rifornisce i compagni di palloni invitanti da spingere in rete. E, quando azzecca il tiro, non ce n’è per nessuno.

Christian Presciutti, 28 anni, attaccante. Provate a scovare uno più contento di lui: da poco è diventato papà, a Shanghai ha superato il traguardo delle cento presenze in nazionale ed ha vinto, da protagonista, un Mondiale. Il contropiedista del Settebello è lui: sia contro gli Stati Uniti, sia in finale contro la Serbia dà avvio ad una ripartenza poi capitalizzata con il gol. Impeccabile quando l’Italia affida a lui il ruolo di terminale offensivo nelle situazioni di superiorità numerica, abilissimo anche nel difendere sui centroboa avversari.

Deni Fiorentini, 27 anni, difensore. Dopo l’argento di otto anni fa a Barcellona del fratello Goran, ecco la medaglia più preziosa fare il suo ingresso nella famiglia italocroata. Se in acqua non c’è Figlioli è lui a ricevere l’onere di compiere lo scatto iniziale. Non ha il gol facile – tre i centri personali in totale -, in compenso svolge un compito poco appariscente eppure fondamentale: è il grimaldello che scardina le altrui difese, trascinandosi dietro gli avversari più pericolosi e liberando al tiro i cecchini del Settebello.

Matteo Aicardi, 25 anni, centroboa. Non arriva in doppia cifra, ma con nove reti è il capocannoniere degli azzurri: rispetto ad altri avversari più caldeggiati gli mancano chili e centimetri, lacune cui sopperisce con un lavoro oscuro sulla linea dei due metri. A livello meramente statistico verrà ricordato per la tripletta nella finale con la Serbia, merita semmai un plauso per la caparbietà con cui ha lottato fino in fondo quando, oramai esausto, non poteva essere sostituito a centroboa. Stoico.

Arnaldo Deserti, 32 anni, centroboa. Rispetto al compagno di reparto è meno reattivo ma più anziano: per questo, quando tocca a lui ingaggiare appassionanti duelli con i marcatori avversari, prova a giocare di astuzia e di esperienza. Parte benissimo segnando quattro gol nella gara d’esordio con il Sudafrica, non riuscirà più a ripetersi. Poco male, perché guadagna espulsioni e rigori. Che, per un centroboa, valgono quasi quanto una rete.

Giacomo Pastorino, 31 anni, portiere. Tanto in nazionale quanto nella Pro Recco è chiuso dal monumentale Tempesti. Ma sarebbe un delitto considerarlo suo rivale: a Firenze, nella World League, segue attentamente le gesta dei compagni, prende nota degli errori. Soprattutto, galvanizza il numero uno azzurro quando compie una parata decisiva e gli fornisce suggerimenti preziosi. Elemento fondamentale all’interno dello spogliatoio azzurro.

Alessandro Campagna, 48 anni, allenatore. Non per fare della retorica, ma l’artefice dell’oro mondiale è soprattutto lui. Dopo aver condotto la Grecia tra le migliori squadre al mondo torna sulla panchina del Settebello, del quale era stato da giocatore una colonna portante: inizia con l’undicesimo posto a Roma, non si perde d’animo e riporta piano piano l’Italia nell’empireo della pallanuoto. Ora il capolavoro che ogni allenatore sogna. Ha saputo imporre una mentalità vincente ai giocatori, ha vinto alcune scommesse personali – Luongo agli Europei e Pérez ai Mondiali – ed ha saputo offrire una pallanuoto innovativa e fuori dagli schemi tradizionali. E ora, sotto con i Giochi di Londra.

I CAMPIONI SIAMO NOI!

Vittoria da antologia sulla Serbia ai supplementari (8-7): il Settebello conquista l’oro mondiale!

BALLIAMO SUL MONDO. La gioia di Tempesti, Presciutti, Felugo e Figlioli.

Quando l’Italia della pallanuoto vinse il suo primo oro mondiale, a Berlino nel 1978, il difensore azzurro Amaurys Pérez aveva appena due anni e viveva ancora nella natìa Cuba: i suoi attuali compagni, invece, non erano ancora venuti alla luce. Quando l’Italia della pallanuoto vinse il suo secondo oro mondiale, a Roma nel 1994, l’allenatore Sandro Campagna era ancora un atleta che segnava e faceva segnare, Tempesti e Felugo erano due adolescenti e tutti gli altri nuotavano le prime vasche e toccavano i primi palloni. Oggi quei bambini sono cresciuti ed hanno scritto un’altra bellissima pagina dello sport italiano: due anni esatti dopo l’umiliante undicesimo posto a Roma ecco il terzo oro mondiale nella storia del Settebello. Un’oro che balugina tra i riflettori del “fiore di magnolia”, un oro messo al collo dopo la battaglia infinita con la Serbia, arrivata fino ai supplementari e vinta meritatamente per 8-7 dagli azzurri.

Vittoria di nervi. Il successo del ct Sandro Campagna e dei suoi meravigliosi ragazzi è, forse, soprattutto mentale. Per giocare, e vincere, la finale di un Mondiale non basta essere tecnicamente superiori, o tatticamente più disciplinati, della squadra che occupa l’altra metà della vasca: bisogna batterla con la testa. L’Italia è stata esemplare nel non smarrire la diritta via nei momenti difficili: andata sotto di un gol nel secondo e nel terzo tempo, dopo una prima metà gara contrassegnata da una sola marcatura e dagli errori in superiorità numerica, la nazionale azzurra ha mantenuto la calma. Gli schemi hanno iniziato a girare, soprattutto sull’uomo in più, e i serbi – peraltro assai limitati nel loro potenziale – si sono trovati a rincorrere. Gli azzurri sono stati ancor più straordinari nell’ultimo parziale ed infine ai supplementari: tre rigori subiti con Tempesti sbalorditivo che ne respinge un paio, due espulsioni definitive pesanti, specie quella del centroboa Deserti, qualche decisione arbitrale dubbia. Cambia la geografia della pallanuoto: è finita l’egemonia balcanica, da oggi Serbia e Croazia ci guardano dal basso verso l’alto. E anche Rudić lo ha ammesso: l’allievo Campagna non ha più nulla da imparare, adesso può muoversi con le proprie gambe.

Finale leggendaria. La cronaca della finale è un racconto epico, altamente emotivo, struggente. Perfetto equilibrio, come in entrambe le semifinali e nella sfida per il bronzo, segno che gli scarti tra le varie nazionali sono davvero minimi e questo è certamente un bene per la pallanuoto. Chiudiamo i primi sette minuti in vantaggio di un gol, quello messo a segno da Gallo dopo poco più di un minuto, poi ci lasciamo andare ad un passaggio a vuoto prima dell’intervallo lungo: Giorgetti recupera un pallone in inferiorità numerica e cede a Tempesti, ma il suo retropassaggio non è ben calibrato e così diventa un passaggio per Prlainović che deve solo depositare in rete. E poi il ventunenne Ćuk, giovane virgulto del Partizan, azzecca la conclusione dalla distanza. Tre gol in due tempi, di cui appena uno in superiorità numerica: Italia e Serbia si equivalgono, ma con il passare dei minuti, con la tensione che sale e quel nodo alla gola che si fa più stretto le maglie della difesa si allargano. Specie quelle della Serbia: Aicardi si libera di Rađen al centro e infila Soro con una beduina, il centroboa savonese sblocca poi gli azzurri in superiorità numerica e così fanno pure Presciutti in controfuga – i serbi avevano protestato per una trattenuta di Giorgetti su Udovičić – e Figlioli con una pregevole finta che pietrifica il portiere serbo. I balcanici segnano solamente con Filipović: con un tempo ancora da giocare, l’Italia vede l’oro, con un paio di reti di vantaggio.

Che pathos! L’ultimo quarto, e i due supplementari da tre minuti ciascuno sono di una sofferenza atroce: Deserti inciampa nel terzo fallo personale fermando Udovičić, ma poi Tempesti neutralizza il rigore di Filipović. Ma i serbi sono squadra indomita e l’errore dai cinque metri, anziché demoralizzarli, li incattivisce: Udovičić infila la difesa e batte Tempesti e poi, dopo il nuovo gol azzurro firmato da Presciutti, arrivano il tocco vincente di Duško Pijetlović ed il rigore, stavolta impeccabile, di Filipović aspramente contestato dagli azzurri. Parità: 6-6, non bastano gli ultimi due minuti, ci vogliono i supplementari e l’Italia perde anche Gitto per gioco violento. Un impagabile Aicardi, stremato perché senza ricambi a centroboa, ha ancora la forza per riportarci in vantaggio, ma poi Filipović fa ancora centro, ancora in superiorità numerica. In un minuto si decide la finale: Tempesti respinge a Udovičić il secondo rigore di giornata e, esattamente sessanta secondi dopo, Felugo indovina la conclusione vincente dal lato cattivo. Manca ancora il secondo supplementare, ma il dado ormai è tratto. Gli ultimi, disperati tentativi dei serbi si infrangono sui galleggianti dietro il fortino di Tempesti: rinvio dal fondo, Felugo si defila, tiene il pallone e lo alza al cielo. La vendetta della finale di World League – guarda caso, anche lì finì 8-7, ma per la Serbia – è servita: azzurri campioni del mondo, per la terza volta nella storia. Dopo anni di delusioni, di critiche, di scoramento, l’Italia (della pallanuoto) s’è desta.

 

Sabato 30 luglio 2011
SERBIA-ITALIA 7-8 dts (0-1, 2-0, 1-4, 3-1; 1-2, 0-0)
Natatorium, Shanghai

 

SERBIA: Soro, Avramović, Gocić, Vanja Udovičić 1, Ćuk 1, Duško Pijetlović 1, Nikić, Aleksić, Rađen, Filipović 3 (1 rig.), Prlainović 1, Mitrović, Gojko Pijetlović. All. Dejan Udovičić.

ITALIA: Tempesti, Pérez, Gitto, Figlioli 1, Giorgetti, Felugo 1, Figari, Gallo 1, Presciutti 2, Fiorentini, Aicardi 3, Deserti, Pastorino. All. Campagna.

ARBITRI: Tulga (TUR) e Koganov (AZE).

NOTE: superiorità numeriche Serbia 3/10 + 3 rig., Italia 5/11. Espulsi definitivamente Deserti a 7’21” qt e Aleksić a 5’50” qt per somma di falli, Gitto a 0’51” qt per gioco violento e Pastorino a 1’34” pts per proteste. Tempesti respinge rigore a Filipović a 7’21” qt e a Udovičić a 1’34” pts.

ITALIA E SERBIA, A VOI

A Shanghai è il giorno della finalissima nella pallanuoto maschile: pronostico più che mai incerto.

Non più tardi di due anni fa, nessuno avrebbe nutrito dubbi: la Serbia è la squadra più forte, l’Italia vive del suo glorioso passato e non fa paura. Esito fin troppo scontato, neanche a giocarle, queste partite. Era il 30 luglio di due anni fa: a Roma, ai Mondiali dei record stracciati ma anche delle piscine sequestrate, l’Italia batteva la Cina nella finale per l’undicesimo posto mentre la Serbia, il giorno dopo, vinceva l’oro contro la Spagna. Anche oggi è il 30 luglio, anche oggi come allora una delle due finaliste è la squadra guidata da Dejan Udovičić. is weight watchers site down L’altra finalista, però, non è la formazione iberica, e nemmeno la Croazia, l’Ungheria o gli emergenti Stati Uniti: è l’Italia, sì, proprio lei. Possibile?

Sì, possibilissimo. Sandro Campagna è già tornato sulla panchina azzurra quando Roma ospita i Mondiali. Entusiasmo, pubblico a proprio favore, attesa. E delusione: undicesimo posto, mai così in basso il Settebello. Ma Campagna non si  demoralizza, anzi: raccoglie le macerie e prova a ricostruire il movimento, partendo dal recupero di quelle generazioni che ormai parevano bruciate.  E, con un po’ di pazienza, i risultati arrivano. Solo la differenza reti nei confronti diretti con il Montenegro ci nega la qualificazione alla Super Final di World League, poi vinta agevolmente dalla Serbia. Poi l’incoraggiante successo al trofeo Otto Nazioni di Siracusa. E poi la straordinaria impresa, il ritorno ad una finale europea dopo nove anni di attesa: a Zagabria vince, praticamente senza storia, la Croazia, sospinta dal tifo di 5mila sostenitori. Ma l’Italia, intanto, prende l’argento. Il resto è storia nota: gli azzurri ospitano la World League a Firenze, questa volta battono la Croazia in semifinale e si arrendono alla Serbia per un solo gol di differenza.

Un mese dopo, è ancora finalissima tra Italia e Serbia. Sui balcanici c’è poco da dire: un portiere affidabile (Soro), un capitano carismatico (Vanja Udovičić), due centroboa di peso (Nikić e Duško Pijetlović), un mancino micidiale (Filipović) e cecchini infallibili (Prlainović, Aleksić e Mitrović, autore del gol decisivo nella semifinale con l’Ungheria). Un gruppo piuttosto omogeneo, che si conosce alla perfezione ed abituato a giocare finali di grandi competizioni. Meno prestante sul piano fisico, meno esperta in campo internazionale, l’Italia ha comunque le sue carte da tirare sul tavolo: è squadra vera, con i giocatori che si incitano e si aiutano l’un l’altro. Ognuno, indipendentemente dal numero di reti segnate, è stato utile a modo suo: Deserti si è sacrificato molto a centroboa guadagnando dei rigori, Figlioli ha messo i compagni nelle condizioni di segnare, Fiorentini ha creato dei varchi da sfruttare, Pérez ha spesso contribuito a serrare la difesa. E ora è il momento di provarci ancora: a Firenze ci mancò qualcosa, forse l’inesperienza, forse il gol che avrebbe dato ai serbi il colpo di grazia, forse qualche marcatura troppo blanda su Udovičić e Filipović. E quel qualcosa, forse, oggi potrebbe essere l’arma in più degli azzurri.

Così in acqua (ore 15, diretta Rai 3 e Rai Sport 1):

SERBIA: Soro, Avramović, Gocić, Vanja Udovičić, Ćuk, Duško Pijetlović, Nikić, Aleksić, Rađen, Filipović, Prlainović, Mitrović, Gojko Pijetlović. All. Dejan Udovičić.

ITALIA: Tempesti, Pérez, Gitto, Figlioli, Giorgetti, Felugo, Figari, Gallo, Presciutti, Fiorentini, Aicardi, Deserti, Pastorino. All. Campagna.

ARBITRI: Tulga (TUR) e Koganov (AZE).

LA GRECIA NELL’OLIMPO DELLA PALLANUOTO

Storica prima volta delle elleniche ai Mondiali di nuoto: 9-8 sulla Cina. Niente bronzo per il Setterosa.

Non dimenticheranno facilmente l’anno solare in corso Alkisti, Ilektra, Stavroula e Triantafyllia. Che poi sarebbero, nell’ordine, Avramidou, Psouni, Antonakou e Manolioudaki, professione pallanotiste. Per loro la vittoria del campionato nazionale e, soprattutto, un posto nella storia dello sport ellenico: mai la Grecia aveva vinto la medaglia d’oro ai Mondiali di nuoto prima d’oggi. Un anno reso ancor più indimenticabile dalle difficoltà economiche che hanno segnato la stagione dell’Olympiakos, la loro squadra: mesi e mesi senza percepire lo stipendio, serate appositamente organizzate per reperire fondi. Drammi personali che, come per magia, finivano sott’acqua quando le giocatrici si trovavano in piscina, a preparare le partite e poi a vincerlo.

Sembra quasi uno scherzo del destino che nella finalissima del torneo femminile siano arrivate Cina e Grecia, non certo le favorite d’obbligo alla medaglia d’oro. Che strano, le elleniche vicecampioni d’Europa e le asiatiche padrone di casa, la Grecia messa in ginocchio da una recessione senza precedenti opposta alla Cina, potenza economica che con il gruppo Cosco ha rilevato il terminal container del porto ateniese del Pireo, il più importante del Mediterraneo orientale. La vera sorpresa non è la vittoria finale (9-8) della squadra di Morfesis, cresciuta mostruosamente in pochi anni, bensì la Cina: dopo l’ultimo posto, non più tardi di sei anni fa, ai Mondiali di Montréal la squadra è stata affidata ad un santone come Juan Jané. E, contro ogni pronostico, il tecnico spagnolo ha condotto le sue giocatrici all’atto finale, portando il grande pubblico sugli spalti del “fiore di magnolia”. Non sono però bastati il sostegno dei tifosi, le doppiette di Liu e Yi Wang, la pressione dei sessanta secondi finali per limitare le greche: immarcabile la Asimaki sui due metri (per lei si parla di un futuro al nuovo Rapallo), letale la Roubessi dal perimetro, oramai matura per i prosceni più importanti il portiere Kouvdou. Le elleniche non si sono lasciate impressionare dal calore dei cinesi né si sono disunite dopo le espulsioni definitive di Gerolymou per gioco violento e di Psouni e Tsoukala per raggiunto limite di falli. Non è mancata un po’ di apprensione nel finale, quando la Cina è riuscita a riportarsi appena sotto di un gol e, a trenta secondi dal termine, ha avuto tra le mani la palla del pareggio. Ma, alla fine, sono loro ad alzare la mani al cielo e a lasciarsi andare al canonico tuffo collettivo.

Da brividi, infine, la sfida per il terzo posto che vedeva opposte Russia e Italia: vincono in maniera risicata (8-7) le campionesse europee in carica, e al Setterosa non manca qualche piccolo rimpianto visto l’andamento della sfida. Davanti ad un avversario assai più scafato, che conduceva per 6-1 a terzo parziale già iniziato, le azzurre hanno reagito strepitosamente, segnando addirittura sei reti in nemmeno sette minuti, portandosi a “meno uno”. Peccato che le reti rimangano inviolate nell’ultimo quarto: è la Russia la squadra che sale sul podio. La medaglia di legno in quel di Shanghai fa il pari con quella di dieci mesi fa a Zagabria, agli Europei, eppure c’è di che sperare: l’Italia è comunque tornata tra le prime quattro al mondo, con una squadra giovane e promettente che ancora deve farsi le ossa (sei, lo ricordiamo, erano le esordienti convocate dal ct Fabio Conti), specialmente ad alti livelli. Pazienza, non intesa come espressione di rassegnazione ma nel senso di attesa: diamo tempo alle azzurrine. E non esageriamo troppo nei confronti, scomodi, con il Setterosa di Formiconi: quella squadra scrisse la storia della pallanuoto femminile italiana, la nazionale attuale può arrivare a farlo ed aprire, così, un nuovo ciclo.