Quando si dice “nomen omen”. Perché Domenico Morfeo, brillante trequartista che ha girato i campi di mezza Italia, non ha mai nascosto quanto gli piacesse il sonno, la pennichella pomeridiana per ricaricare le pile, magari dopo un allenamento stressante: e Morfeo, com’è noto, era infatti la divinità greca dei sogni, figlio di Ipno e di Notte. Il Domenico Morfeo nato a Pescina, sull’Appennino aquilano, il 16 gennaio 1976 ha però un’altra peculiarità in comune con la figura mitologica, perché certi suoi tocchi, certe sue giocate di classe genuina hanno fatto sognare ad occhi aperti migliaia di appassionati, assolvendo in pieno il compito del suo ingombrante cognome. Un talento irregolare, a sprazzi, incostante, ma capace, nelle non frequenti giornate di grazia, di stravolgere qualunque equilibrio.
La saga del Morfeo calciatore, come detto, inizia nel cuore dell’Abruzzo 35 anni fa: sin da piccolo, il pallone è il suo compagno di vita, l’amico inseparabile dell’infanzia. Si ritrova con gli amici nella piazza di San Benedetto dei Marsi, dove vive con la famiglia, a prendere a pallonate un cerchio rosso disegnato sulla saracinesca della trattoria dello zio: e la facilità con cui centra il bersaglio fa capire a tutti le sue grandi doti. Gioca nella squadra del paese, allenato da mister Bixio Liberale, una sorta di guru del calcio abruzzese: a dieci anni si deve fermare per parecchi mesi a causa del morbo di Osgood, una fastidiosa disfunzione legata alla crescita delle gambe, il primo di una lunga serie di malanni che ne rallenteranno la carriera. Mimmo ritorna più forte di prima e, accompagnato dal suo allenatore, inizia a disputare alcuni provini, prima per il Bologna e poi per l’Atalanta. Quando sembra fatta per il suo trasferimento nella città emiliana, il dirigente bergamasco Alfredo Mosconi incontra la famiglia del ragazzo e regala un braccialetto nerazzurro alla nonna Angela, che così convince il nipote a prendere in considerazione l’approdo ai nerazzurri: il flipper, il tavolo da ping-pong e il biliardino presenti nel convitto dei giovani atalantini sono così simili a quelli del bar di San Benedetto che Morfeo decide di iniziare l’avventura con gli orobici. A soli dodici anni è già nel settore giovanile della squadra italiana che, per antonomasia, punta sul proprio vivaio, e sin dalle prime partite mette in mostra una classe decisamente superiore alla media. La nostalgia per l’Abruzzo lontano e per la famiglia rimasta nella terra d’origine rappresenta però una dura battaglia da vincere, e ci vorrà del tempo prima che il ragazzo si ambienti bene a Bergamo. Scala le categorie giovanili, in compagnia del fratello Mario (destinato ad un’onesta carriera tra B e C), a suon di gol, assist e successi, vestendo anche la maglia azzurra delle selezioni nazionali e facendo parlare di sé come una delle “grandi promesse” del calcio nostrano, definizione che lo accompagnerà anche nei lunghi anni del professionismo, sino a diventare una sorta di scomoda etichetta difficile da togliersi di dosso. Nella Primavera atalantina, guidata da Cesare Prandelli, si conferma un giocatore tutto genio e fantasia, un puro “numero 10” destinato magari ad eguagliare i successi del suo grande idolo, quel Roby Baggio di cui Morfeo conserva gelosamente una figurina nel portafoglio: con la giovanile bergamasca vince il Torneo di Viareggio 1993, la più importante competizione per le squadre di categoria. Sempre in quel 1993 arriva precocissimo il debutto tra i “grandi”, ed è proprio Prandelli, che ha sostituito Guidolin sulla panchina della prima squadra, a lanciarlo nella mischia il 19 dicembre, poco meno che diciottenne, nella sfida contro il Genoa. In quella prima avventura tra i professionisti Morfeo segna tre reti in nove partite, inutili ai fini della salvezza dei bergamaschi ma sufficienti a farlo diventare un idolo della curva atalantina. Retrocessa in serie B, l’Atalanta viene affidata ad Emiliano Mondonico, l’allenatore che segna più di ogni altro la crescita del talento abruzzese. Ex calciatore bruciato in fretta per la poca voglia di allenarsi, il Mondo sa che anche Morfeo corre lo stesso rischio: l’esordio in serie A, forse prematuro, lo ha fatto sentire sulla luna, come se fosse già arrivato e realizzato, e infatti Morfeo reagisce male alle prime mancate convocazioni o alle panchine in cui viene relegato dal mister cremasco. Ma Mondonico sa quanto la disciplina e la professionalità contino per sfondare nel calcio moderno: finché il fantasista non si mette in riga, resta in panchina, anche a costo di inimicarsi tifosi e giornalisti. Allora Morfeo inizia a correre, a svolgere il duro lavoro di squadra oltre ai colpi di genio individuali, a sacrificarsi per i compagni: diventa un giocatore a tutto campo, un numero 10 moderno e completo e riconquista il posto da titolare, guidando l’Atalanta alla promozione e a due brillantissime stagioni nella massima serie, condite da sedici reti, moltissimi assist e giocate memorabili. Nel frattempo, con l’Under 21 di Cesare Maldini, vince l’Europeo 1996, realizzando il rigore decisivo che affossa i sogni della Spagna finalista. Riceve anche una convocazione dalla nazionale maggiore guidata da Arrigo Sacchi, ma non scende in campo: purtroppo, sarà la sua prima e ultima chiamata per i colori azzurri.
Cosa succede poi? Succede che Morfeo…diventa Morfeo. Un talento cristallino ma incostante, spesso fermato anche da dolorosi infortuni che ne limitano le potenzialità, e forse poco aiutato anche da certi allenatori che non hanno la paterna fermezza di mister Mondonico, alcuni dei quali insistono a schierarlo in ruoli a lui poco congeniali, come da seconda punta o da esterno d’attacco, che non possono far risaltare le sue doti da trequartista puro. Alla Fiorentina, dove si trasferisce per la somma di 15 miliardi di lire, viene schierato da Alberto Malesani nel tridente con Batistuta e Oliveira, a far sognare i tifosi viola, ma l’arrivo del brasiliano Edmundo, pupillo del presidente Cecchi Gori, fa relegare in panchina il giovane Domenico. Nel 1998-1999 approda al Milan, quel Milan di Bierhoff, Weah, del debuttante Abbiati e dei “vecchi” Maldini e Costacurta che vince il campionato con una rimonta storica sulla Lazio: l’unico segno del passaggio di Morfeo in maglia rossonera è un tiro-cross deviato nella propria porta dal difensore bolognese Mangone, che regala tre punti d’oro alla squadra di Zaccheroni. Dopo sei mesi tristi a Cagliari, nel gennaio 2000 viene prelevato dal Verona dove ritrova come allenatore Cesare Prandelli, lo stesso delle giovanili atalantine: e qui Mimmo, sereno come un tempo, riprende ad incantare i tifosi con cinque reti in dieci partite che contribuiscono in modo decisivo alla salvezza degli scaligeri. Anche il ritorno a Bergamo, nell’autunno dello stesso anno, sembra restituire il Morfeo degli esordi al grande calcio. Udinese-Atalanta, match del 29 gennaio 2001, è il manifesto del suo calcio: al secondo minuto di gioco, crea un’autostrada nell’area friulana per l’accorrente Nicola Ventola che realizza l’uno a zero; due minuti più tardi, un suo sinistro divino si insacca alle spalle dell’incolpevole Turci; al ventesimo, senza guardare la palla, come solo i grandi sanno fare, lancia in profondità ancora Ventola che realizza la terza rete; e al 41esimo un suo tocco di velluto su assist di Cristiano Doni fissa il punteggio sul 4-2 per i bergamaschi. La brillante annata in maglia nerazzurra è solo una fortunata parentesi prima di due stagioni, a Firenze e all’Inter, che lo fanno ripiombare nella media, di certo non aiutato da qualche infortunio di troppo.
Gli ultimi sprazzi della sua classe genuina si hanno nelle prime due stagioni a Parma, tra il 2003 e il 2005: allenato nuovamente da Prandelli, incanta gli spettatori del Tardini con 12 gol in 54 gare, alcuni dei quali su punizioni eseguite magistralmente dal limite dell’area, quasi senza rincorsa, con quel sinistro velenosissimo a girare che lascia senza scampo il portiere avversario. Poi, lento ed inesorabile, incomincia il declino, a neanche trent’anni: nelle ultime due stagioni in Emilia, le sue apparizioni in campo sono sempre più sporadiche, e i suoi numeri un lontano ricordo. Nell’estate 2008 tenta, con ben poco successo, l’avventura con il Brescia, memore dei fasti che il suo idolo Baggio aveva vissuto al Rigamonti: ora di settembre però il contratto è già rescisso, e a nulla serve un ritorno dal maestro Mondonico alla Cremonese, in serie C1, con la quale disputa solamente tre gare. Nel 2009, a 33 anni, Domenico Morfeo è ufficialmente un ex calciatore, riprendendo a giocare e a divertirsi nella squadra dilettantistica del suo paese.
Genio e incostanza, tutti gli appassionati ricorderanno sempre quei tocchi morbidi, quei colpi di fioretto, quelle punizioni imparabili e quei sinistri velenosi che hanno illuminato la serie A per diverse stagioni. Lo ricorderanno con un po’ di rammarico, perché quel ragazzo che a 18 anni incantava Bergamo, con un po’ più di fortuna e forse di impegno avrebbe potuto avere ben altra carriera.