UN AZZURRO … DI QUALITA’

Quali sono le soluzioni tattiche a disposizione di Cesare Prandelli e della sua Nazionale per piedi buoni?

Cesare PrandelliPartiamo da un presupposto: mercoledì sera non ho potuto guardare la partita, avendo altri impegni. Né, nei giorni successivi, ho avuto modo di recuperarla altrove. Il tempo è tiranno! Ovviamente sto parlando del confronto tra Germania ed Italia, con cui la simpatica Federcalcio tedesca pare volesse prendersi una piccola rivincita dopo l’eliminazione nella famosa semifinale Mondiale del 2006. Detto ciò, quindi, non mi soffermerò certo sul match in sé, ma credo che un focus generale sul futuro della nostra nazionale sia d’uopo.

L’idea mi è venuta nell’ascoltare la conferenza pre-partita di Prandelli, che nel rispondere alle varie domande dei giornalisti – in particolare a quelle relative alla prima convocazione dell’oriundo Motta – ha parlato delle sue idee relative alla qualità del gioco che dovrà esprimere la sua squadra.
Qualità che dovrà in special modo essere fornita dal centrocampo, che, nell’idea del mister di Orzinuovi, dovrà essere imperniato su giocatori più capaci di trattare il pallone che non dai polmoni d’acciaio (ma dalle scarse abilità tecniche).

Le uniche vie percorribili, tatticamente parlando, vanno tutte in una sola direzione: squadra stretta, scambi rapidi e penetrazioni centrali. Perché il nostro Commissario Tecnico è stato chiaro, ma del resto non serviva nemmeno il suo intervento in questo senso: il campionato italiano oggi non esprime esterni nostrani di qualità ed è quindi impensabile che la nostra nazionale, per tornare ad alto livello nel breve periodo, possa impostarsi proprio in quest’ottica. Per intenderci, quindi, questa è un po’ una bocciatura a tutti quei moduli, come il 4-4-2 classico per dirne uno, che fanno del gioco e delle sovrapposizioni sulle fasce il proprio punto di forza. Non avendo esterni di valore assoluto, infatti, bisogna trovare delle alternative valide.

Settimana scorsa parlai di come Didier Deschamps si trovi ad un bivio, con il suo OM: l’ex tecnico juventino dovrebbe infatti decidere, per provare a ravvivare le sorti della sua squadra, se continuare con l’uso dell’attuale 4-3-3 o passare ad un 4-3-1-2 diversamente bilanciato. Allo stesso modo oggi Prandelli credo si trovi di fronte ad un bivio molto simile: 4-3-2-1 (leggibile anche come 4-3-3, del resto) o 4-3-1-2? La mancanza di esterni puri consiglia infatti di schierare un centrocampo a tre a supporto di un attacco variamente composto. E qui i discorsi si intrecciano.

Ma prima di parlare di centrocampo ed attacco in senso stretto facciamo una piccola digressione parlando di atteggiamento generale di una squadra. Perché da quando seguo la nazionale (1994, questione puramente anagrafica) raramente ho visto gli Azzurri scendere in campo per imporre il proprio gioco come solitamente fanno Spagna e Brasile, per restare in tema di nazionali, o il super Barcellona di Guardiola, per venire ad un club. Solitamente, infatti, le fortune della nostra rappresentativa maggiore si sono costruite più sull’attendismo, su di una impostazione tattica molto prudente ed atta alla ripartenza, che sull’imposizione del proprio gioco. Il tutto però è stato spesso possibile anche grazie alla presenza di veri e proprio Campioni là davanti, in grado di dare qualità alla manovra o finalizzare con estrema efficacia. Campioni che oggi sembrano scarseggiare abbastanza: i vari Gilardino, Cassano, Pazzini e compagni non sono infatti minimamente all’altezza dei Baggio, Vieri, Del Piero e Totti del passato. In una situazione del genere, quindi, si deve andare a maggior ragione alla ricerca di un gioco di squadra che sia quanto più qualitativo possibile nella sua globalità, proprio per colmare la mancanza di veri e propri trascinatori capaci di nascondere le falle del collettivo nel suo intero. Detto ciò, quindi, in cosa consiste il dilemma che si dovrebbe porre Prandelli?

Il discorso concernente il centrocampo varia relativamente rispetto alla scelta tattica in sé. Perché qualsiasi sia l’intenzione rispetto all’attacco da schierare (due mezze punte ed una punta, una mezza punta dietro ad una seconda punta di fantasia e movimento ed un puntero o un trequartista alle spalle di due punte pure) è abbastanza palese come in mezzo al campo dovranno essere schierati tre giocatori che formino una cerniera capace di cucire il gioco quanto di fare da frangiflutti davanti alla difesa. In questo senso quindi Prandelli dovrà decidere, di volta in volta, se sarà meglio schierare un regista puro centrale (alla Pirlo, per intenderci), con al fianco due mezze ali più o meno dedite alla fase offensiva o difensiva, a seconda della necessità. Oppure se piazzarci un mediano ben strutturato fisicamente (come lo stesso Motta, appunto) ma comunque dai piedi sensibili con due mezze ali ai propri fianchi che, anche qui, possano completare il reparto a seconda delle evenienze. Ciò che è certo è che se davvero Prandelli vorrà dare più qualità al gioco di questa squadra dovrà affidarsi a giocatori tecnicamente capaci. Gattuso, anche ai livelli del 2006, farebbe quindi probabilmente fatica a trovare spazio. Le alternative certo non mancano. Il problema vero è capire se questi giocatori sapranno finalmente raggiungere uno status di giocatori di livello mondiale, cosa che si addice a chi si disimpegna da titolare in una squadra quattro volte campionessa iridata. I vari Pirlo, Motta, Montolivo, De Rossi, Marchisio, Aquilani e compagnia compongono comunque un reparto sulla carta sicuramente interessante e più che discreto tecnicamente. Base interessante da cui partire in un’ottica come quella lasciata intendere dal tecnico di Orzinuovi.

I dubbi maggiori sono quindi legati a chi dovrà giocare dalla cintola in su.
Volendo, infatti, il nostro Commissario Tecnico potrebbe ad esempio decidere di schierare una sola punta di ruolo supportata da due giocatori di fantasia che andrebbero etichettati come seconde punte, rendendo quindi quello Azzurro una sorta di attacco a tre a tutti gli effetti, che potrebbero però anche essere letto come una sorta di albero di Natale con due giocatori in appoggio dell’unica punta. Oppure, come dicevo in precedenza, potrebbe decidere di schierare un centrocampista con doti e propensione da trequartista (come il succitato Aquilani stesso, che potrebbe tranquillamente giocare in quel ruolo) dietro a due attaccanti, per un modulo sulla carta più equilibrato. Anche in attacco, comunque, le alternative non mancano. Il problema principale è che manca, come detto, il Campione vero, in grado di cambiare il match a proprio piacimento. Nel contempo, però, con a disposizione Pazzini, Cassano, Matri, Gilardino, Borriello, Rossi, Balotelli e compagnia le alternative non mancano, e non sono nemmeno di così scarso valore.

I presupposti per fare bene ci sono di certo. Vincere è sempre difficile, ma ben figurare è sicuramente possibile.

OM: NECESSARIO UN CAMBIO DI MODULO?

Olympique MarsigliaLo scorso anno si impose al termine di una lunga cavalcata che lo portò a chiudere il campionato con sei punti di vantaggio sul Lione. Quest’anno, invece, la squadra allenata da Didier Deschamps, l’Olympique Marsiglia, ha avuto un inizio piuttosto stentato e si trova ora quarto a sei punti dal Lille primo in classifica. Il tutto grazie alla recentissima vittoria sull’Arles fanalino di coda: la squadra di Michel Estevan, infatti, è stata sinora capace di guadagnarsi otto soli punti in ben ventidue giornate di campionato, ed è già praticamente retrocessa in Ligue 2. Vittoria quindi praticamente scontata quella dell’OM, che serve però a rilanciare le ambizioni di una squadra partita per difendere il titolo guadagnato la scorsa primavera.

Compagine, quella marsigliese, che denota in particolar modo una difficoltà imprevista sotto porta: in ventidue giornate i ragazzi di Didì Deschamps sono difatti stati in grado di realizzare solo trenta reti, contro le quaranta del Lille capolista. Difficoltà, questa, che si è palesata anche contro la peggior difesa della Ligue 1: quella dell’Arles, appunto.  Nei primi 21 match di campionato, infatti, i ragazzi di Estevan si erano fatti bucare ben 42 volte, con una media secca di due reti subite a partita. L’OM, però, è stato capace di trovare la via della rete in una sola occasione, palesando quindi ancora una volta una certa incapacità di pungere. Il tutto nonostante l’ex allenatore juventino schieri una formazione piuttosto offensiva fatta di tre punte tra le più interessanti del campionato ed un centrocampo a tre con un mediano d’interdizione affiancato da due mezz’ali molto tecniche e dal buon piede. Una formazione, insomma, che non dovrebbe incontrare problemi né nel costruire gioco né nel finalizzarlo. Ma analizziamolo meglio questo 4-3-3 marsigliese schierato contro l’Arles.

Tra i pali trova collocazione il capitano della squadra, Mandanda, protetto da una linea a quattro formata dalla coppia centrale Diawara-Mbia con due terzini tendenzialmente bloccati come Fanni ed Heinze. Difesa a sua volta schermata da Charles Kaborè, schierato in mediana, ai cui fianchi agiscono il sempre ottimo Lucho Gonzalez, giocatore che sono convinto farebbe molto bene anche in Italia, e Benoit Cheyrou, mezz’ala mancina molto apprezzata in patria. In attacco, quindi, schierato il trio – sulla carta – delle meraviglie Remy-Brandao-Gignac.

Partita che inizia però subito maluccio per i padroni di casa che mostrano una certa fragilità in fase difensiva laddove i movimenti della linea a quattro non sembrano ben registrati e Kaborè è lasciato dai compagni un poco troppo solo in mediana. In compenso in attacco le cose stentano a decollare: il pallone non scorre fluidamente ed è trasmesso con qualche impiccio da un reparto all’altro, tanto che la prima grande occasione per l’OM è frutto più del caso e della capacità di un singolo, Gignac, che di un convincente gioco di squadra. Ecco quindi come una palla scodellata in mezzo viene alzata a campanile dalla testa di Brandao con l’ex punta del Tolosa che dopo averla fatta rimbalzare s’inventa una splendida rovesciata con cui prende tutti alla sprovvista, venendo però fermato dalla traversa.

Con il passare del tempo i padroni di casa riescono comunque a prendere fiducia nei propri mezzi, guadagnando sempre più campo e creando via via occasioni sempre più importanti. Così dapprima Lucho lancia Remy alle spalle di una difesa spaccata, con Merville costretto all’uscita di piede per anticipare l’ex punta nizzolina. Poi Cheyrou si accentra dalla sinistra e arriva al tiro dopo uno splendido uno-due con Gignac, con Merville ancora bravo ed attento a respingere di piede. In chiusura di primo tempo arriva quindi la seconda traversa marsigliese, con Lucho che calcia una splendida punizione dal limite senza però riuscire a trovare la via di porta.

A dieci minuti dall’apertura di ripresa, quindi, L’OM passa in vantaggio grazie ad una bella azione corale che mette in mostra come, dopotutto, la tecnicità per effettuare certe giocate c’è tutta al Velodrome: Gignac parte da prima della trequarti sinistra scaricando su Lucho per andare poi ad accentrarsi, puntando il centro dell’area. Nel contempo Brandao, schierato centrale nel tridente approntato da Deschamps, effettua il movimento opposto: nel momento in cui Lucho sta venendo in possesso del pallone, infatti, il puntero brasiliano si allarga proprio sulla sinistra, per dettare il passaggio al compagno. Il tutto ottenendo un doppio beneficio: da una parte taglia alle spalle di un avversario andando a portarsi in una zona di campo sguarnita dove potersi impossessare del pallone senza grandi problemi, dall’altra disorienta quello che era il suo diretto marcatore e la difesa tutta, creando un bel buco in mezzo all’area dove s’infilerà, lesto, proprio Gignac.

Una volta arrivato in possesso della palla, quindi, Lucho vedrà subito il movimento del compagno e lo servirà, dando il la ad un’azione che si rivelerà decisiva: una volta portatosi sul fondo, difatti, Brandao centrerà un pallone basso su cui piomberà, puntualissimo, il buon Gignac, che potrà quindi realizzare comodamente la rete della vittoria.  La possibilità di ben comportarsi, insomma, ce l’hanno tutta, a Marsiglia. Del resto quando si può contare su giocatori importanti come Cheyrou, Lucho ed il tridente delle meraviglie è anche scontato averle, queste possibilità.

Il problema vero è che la squadra fatica a creare una propria fisionomia di gioco. Ed in questo uno dei principali colpevoli non può che essere, ovviamente, il buon Didì. Ed è un vero peccato: forti della seconda miglior difesa del campionato (18 reti subite in 22 match, contro le 17 del Rennes) les Olympiens avrebbero davvero tutte le carte in regola per riconfermarsi campioni di Francia.

Ma come si potrebbe rinvigorire una fase offensiva particolarmente deficitaria? In questo senso, è certo, il brutto infortunio occorso a César Azpilicueta, ventunenne terzino spagnolo ex Osasuna, non aiuta di certo. Il suo sostituto, acquistato a dicembre in fretta e furia proprio per poter tamponare al meglio la lunga assenza dell’ex capitano dell’under 20 iberica (che resterà assente sino alla prossima estate a causa di un infortunio ai crociati), non riesce infatti a dare lo stesso apporto in fase offensiva e di costruzione: per quanto sia un giocatore di ottimo livello Rod Fanni è terzino abile in fase difensiva ma che non sa spingere con continuità. L’esatto opposto di un Azpilicueta che, di contro, forse paga qualcosa in fase difensiva ma certo sa spingere con efficacia, risultando spesso un’opzione in più per la propria squadra. Al tempo stesso anche panchinare Taiwo, come successo appunto contro l’Arles, può risultare controproducente. E’ vero che Heinze avendo giocato per anni centrale dovrebbe garantire una miglior copertura ed una maggior robustezza al pacchetto arretrato ma è altrettanto vero che il terzino nigeriano con le sue qualità atletiche tracimanti ed un tiro al fulmicotone sa rendersi indubbiamente molto più pericoloso nella metà campo avversaria, risultando importante tanto in fase propulsiva quanto realizzativa (il venticinquenne di Lagos è infatti il quarto miglior realizzatore ed terzo miglior assistman della squadra in questa stagione).

Lo schierare due terzini prettamente difensivi anziché più portati ad offendere non può comunque spiegare da solo la scarsa vena realizzativa di questa squadra, posto poi che Taiwo ha comunque giocato la maggior parte dei match e che tutto sommato dovrebbe essere ritenuto il titolare di questa squadra (per quanto gli sia stato preferito Heinze come terzino negli ultimi due match). La motivazione principe credo vada quindi ricercata proprio nel modulo adottato dall’ex capitano Bleus. Per proteggere gli investimenti fatti in estate, infatti, Deschamps è quasi costretto a schierare praticamente sempre Gignac e Remy, che stanno mantenendo una media realizzativa piuttosto scarsa: il primo ha sinora disputato venti match realizzando sei sole reti, il secondo ne ha invece giocati ventidue realizzandone sette. Nel complesso, posto che Brandao è riuscito a fare anche di peggio con tre segnature in ventidue partite, ecco che la situazione è realmente piuttosto desolante. E dato che questo tridente sembra non funzionare ecco che bisognerebbe pensare ad una qualche soluzione tattica differente.

In questo senso vedo due vie percorribili: la prima prevederebbe l’utilizzo di questo stesso schema ma con interpreti diversi, la seconda proprio un cambiamento di modulo. Nello specifico: qualora Deschamps voglia a tutti i costi continuare a schierare il suo 4-3-3 dovrebbe pensare a panchinare una volta per tutte Brandao, la cui fisicità può certo venire comoda in alcuni frangenti ma che è assolutamente troppo lontano da una media realizzativa anche solo vagamente accettabile. In questo caso, quindi, potrebbe schierare Gignac fisso nel centro dell’attacco, anziché farlo partire a sinistra come nel derby con l’Arles, con il giovane André Ayew sulla fascia mancina ed il solito Remy su quella destra, andando così a fare molto più affidamento su tecnica ed inventiva che su fisicità e sportellate.

Nel secondo caso, quello del cambio di modulo, si potrebbe invece pensare di passare ad un centrocampo a quattro schierato a mo’ di rombo, magari ispirandosi al Milan di Ancelotti. Per fare questo, però, occorrerebbe avere un regista di centrocampo, ruolo in cui l’OM si ritrova ad essere piuttosto scoperto. Per ovviare alla cosa si potrebbe quindi pensare di spostare Lucho centralmente, dando a lui i compiti di impostazione allor quando l’azione riparte dalla difesa, con Kaborè a ricoprire un ruolo da mastino di centrocampo stile Gattuso e Cheyrou a fare la mezz’ala classica con compiti di sostegno e finalizzazione, un po’ come fatto a suo tempo da Seedorf. Sulla trequarti, poi, potrebbe trovare spazio, una volta ripresosi dall’infortunio, Mathieu Valbuena. Anche se, in alternativa, quel ruolo lo si potrebbe far ricoprire ad Ayew, ragazzo che predilige giocare largo a sinistra ma la cui fantasia potrebbe comunque tornare comoda anche centralmente, a ridosso delle punte. Che, in quel caso, potrebbero essere Gignac e Remy, come prima scelta, con Brandao pronto a subentrare. I tre hanno infatti caratteristiche piuttosto diverse e sono accoppiabili a piacimento: la duttilità di Gignac permetterebbe di fatto tanto di schierarlo con Remy, che potrebbe usarlo come riferimento schierandosi da seconda punta mobile capace di dialogare coi compagni centralmente quanto, alla bisogna, di allargarsi sulla destra per cercare il fondo, quanto di schierarlo con Brandao, andando lui, in quel caso, a giostrare come seconda punta. Così come, del resto, si potrebbe decidere poi di lasciare a riposo l’ex stella del Tolosa, schierando Brandao centravanti boa con l’ex Nizza a supporto.

Gli accorgimenti tecnico-tattici utilizzabili, insomma, sono molteplici. Si tratta solo di trovare la giusta quadratura del cerchio. Al termine del match contro l’Arles il buon Deschamps ha parlato di squadra ancora in convalescenza, che deve ritrovarsi dopo un inizio di stagione sottotono. Personalmente credo che sia il caso, in questo momento, di dare un po’ una scossa ad un gruppo di giocatori che non riesce ad esprimere il proprio enorme potenziale.

Ecco perché personalmente opterei proprio per un cambio di modulo.

LA SUPERCOPPA ITALIANA VA IN CINA

La Supercoppa Italiana ritorna in Cina come già avvenne nel 2009. E’ necessario espatriare per attirare l’interesse degli sponsor?

Supercoppa TIMLa Supercoppa Italiana del 2011 si disputerà in Cina, la notizia risale allo scorso 26 gennaio. Il presidente della Lega Nazionale Professionisti Serie A Berretta, dopo aver siglato un accordo da 10 milioni di euro con la United Vansen International, ha dichiarato entusiasta: «Saremo presenti in Cina per tre volte nei prossimi quattro anni, a partire da quest’anno a Pechino, portando il meglio del calcio italiano ad esibirsi su un palcoscenico tanto prestigioso, a testimonianza che le nostre squadre sono in grado di attrarre l’interesse del pubblico e degli sponsor». Ma perché il trofeo che viene messo in palio tra la squadra vincitrice dello Scudetto e la vincente della Coppa Italia si disputerà in Cina? Il sospetto è che sia necessario espatriare proprio perché non siamo più in grado di attrarre l’interesse del pubblico e degli sponsor.

Da parte cinese, oltre al guadagno legato all’organizzazione, l’obiettivo dichiarato è quello di cercare di far crescere il livello del proprio campionato e soprattutto della propria nazionale, dopo la modesta figura in Coppa d’Asia e gli scandali di corruzione del campionato che hanno azzerato i vertici federali.

Per la neonata Lega Nazionale Professionisti Serie A si tratta sicuramente di un successo notevole in quanto oltre al rientro economico immediato, potrebbe portare a un buon ritorno d’immagine in un paese popoloso e affamato di calcio come la Cina.

Non si tratta nemmeno della prima volta che la Supercoppa Italiana si disputa all’estero. Ideata nel 1988, già nel 1993, alla vigilia dei Mondiali americani, sbarcò a Washington dove il Robert F. Kennedy Memorial Stadium riempito a metà ospitò la vittoria del Milan sul Torino. Già da allora l’interesse del calcio-business firmato Matarrese (all’epoca presidente della lega calcio) e Berlusconi (presidente del Milan non ancora “sceso in campo” politicamente) era volto totalmente alla vendita dei diritti televisivi tralasciando totalmente gli interessi degli spettatori dal vivo. Negli anni Novanta quella trasferta americana, vissuta dalle squadre più come un peso che non un’opportunità, rimase un’eccezione. Nel nuovo millennio invece queste trasferte divennero più frequenti. Nel 2002 sulla scia degli investimenti di Gheddafi in Italia la Supercoppa italiana sbarcò in Libia allo stadio 11 Giugno. L’incontro fu vinto dalla Juventus, della quale il presidente libico aveva delle quote, sul Parma. L’anno successivo si ritornò negli Stati Uniti, questa volta al Giant Stadium di New York, nell’edizione vinta dalla Juve sul Milan ai rigori. Infine nel 2009 la Lazio sconfisse l’Inter nello Stadio di Pechino che aveva ospitato le Olimpiadi, il celebre Bird’s Nest. In generale non si può certo dire che queste trasferte abbiano elevato il prestigio della coppa.

La location esotica rafforzava piuttosto l’impressione di giocare una partita amichevole dal ricco cachet.  Sicuramente questa scelta ha risvegliato l’appetito dei grandi club. Alcuni giorni fa Adriano Galliani ha dichiarato “Noi in Cina vogliamo esserci” in un’intervista in cui l’enfasi sui vantaggi economici della trasferta cinese era tale da sembrare persino più importante della vittoria dello Scudetto o della Coppa Italia. Nel lungo periodo però la via cinese non è detto che si riveli vincente. La Lega Nazionale Professionisti Serie A ha offerto il proprio prodotto al miglior offerente senza – almeno per il momento – cercare di fare un investimento sul futuro di quella che appare tutt’oggi come una “tradizione sportiva inventata” assai debole. Più che degli Yuan cinesi la Supercoppa italiana avrebbe forse avuto un maggior bisogno di simboli identitari come uno stadio nazionale dove giocare una partita secca come in Inghilterra o di far disputare il trofeo in una partita d’andata e una di ritorno, come avviene in Spagna.

Difficilmente nei prossimi tre anni di Supercoppa italo-cinese il prestigio della competizione sarà cresciuto. Il timore è che Berretta stia cercando di rilanciare il calcio italiano all’estero senza però aver prima risolto i problemi interni. Non ha senso cercare di costruire un prodotto spendibile globalmente a discapito delle esigenze degli spettatori e dei tifosi italiani. Il nostro campionato era il più bello del mondo non solo perché vi giocavano i migliori giocatori ma anche perché gli stadi erano pieni, gli spalti erano colorati e gli striscioni irriverenti ma geniali. Oggi gli stadi sono semivuoti e il colore e le coreografie sempre più rare.

In un mondo dominato dalle televisioni, il pubblico degli stadi continuerà ad essere fondamentale; senza gli spalti pieni anche il “prodotto-calcio” rimarrà vuoto e un Milan-Inter o un Roma-Napoli giocato a Pechino non avrà mai lo stesso appeal del medesimo incontro giocato all’Olimpico, al Meazza o al San Paolo.

SPURS-HAMMERS: E’ DERBY PER LO STADIO OLIMPICO

Il futuro dello Stadio Olimpico di Londra è in bilico: West Ham e Tottenham sono in corsa.

Olympic StadiumLo stadio olimpico è, da sempre, il luogo simbolico ed iconico di ogni edizione delle Olimpiadi estive: si pensi al Bird’s Nest di Pechino che per milioni di persone è diventato l’immagine dei Giochi del 2008 superando un gioiello architetturale e tecnologico come il Water Cube. Tutte le città che preparano la loro candidatura per ospitare l’evento a Cinque Cerchi dedicano una particolare attenzione al progetto e alla presentazione dell’impianto destinato ad ospitare la Cerimonia di Apertura, il braciere olimpico e, spesso, le prove di Atletica. Da parte sua, il Comitato Olimpico Internazionale esercita notevoli pressioni perchè proprio questo impianto sia destinato a rimanere negli anni a perenne memoria dell’evento olimpico senza correre il rischio di trasformarsi in un cimitero degli elefanti ma come centro vitale dell’Olympic Legacy, l’eredità che i Giochi dovrebbero lasciare (oltre ai debiti) nelle città che li ospitano.

Per i progettisti di Londra 2012 l’impresa era ardua; nella capitale inglese non mancano i templi dello sport, dallo stadio di Wembley ricostruito completamente nel 2007 a Twickenham che è uscito lo scorso anno da un lifting completo, e difficilmente il nuovo Stadio Olimpico avrebbe in qualche modo potuto fare concorrenza a questi leggendari impianti. La via scelta è stata quella di passare alla storia con il primo esempio di sviluppo sostenibile di un complesso olimpico: si tratterà di un impianto modulare costituito da un primo anello permanente e interrato da circa 22.000 spettatori sormontato da una struttura temporanea in ferro e cemento da 55.000 spettatori costruita in modo da consentirne il riutilizzo in altri impianti al punto che, quando ancora erano in discussione le candidature per le Olimpiadi del 2016, si pensò addirittura di poter trasportare l’anello superiore per il suo montaggio nello Stadio Olimpico di Chicago. Pure con queste premesse, e un probabile futuro di casa dell’Atletica britannica, difficilmente l’uso del nuovo impianto sarebbe stato in grado di consentire la copertura dei costi. E’ per tale ragione che nel corso del 2010, la OPLC, l’organizzazione creata con la missione di massimizzare il ritorno post-Olimpiadi dei nuovi impianti, ha aperto una gara per raccogliere manifestazioni di interesse all’acquisto dello Stadio Olimpico.

David Gold e David Sullivan, nuovi proprietari del West Ham United, sono stati i primi ad esprimere un reale interesse. Da cento anni gli Hammers giocano al Boleyn Ground, meglio conosciuto come Upton Park, che negli anni Novanta ha subito un completo restauro che lo ha portato all’attuale capienza di 35.000 spettatori. Dopo le iniziali perplessità relative alla presenza della pista di atletica ad allontanare gli spettatori dal campo di gioco (una circostanza inusuale in Inghilterra), la dirigenza degli Hammers ha presentato un progetto che prevede la trasformazione in uno stadio da 60.000 posti  con i soli interventi, comunque necessari, per rendere operativo un impianto costruito per le Olimpiadi (aree sponsor da ricondizionare, assenza delle biglietterie,…). La proposta, che sposterebbe il campo del West Ham di  soli 3-4 chilometri verso occidente, è supportata dalla municipalità di Newham che finanzierebbe la società portando i fondi che, uniti ai proventi della vendita di Upton Park, dovrebbero essere sufficienti a coprire l’esborso previsto di 90-100 milioni di Euro. E’ proprio l’aspetto finanziario l’anello debole del dossier degli Hammers: non più tardi di un anno e mezzo la società di Newham era sull’orlo del fallimento e il rischio di una retrocessione in seconda divisione (la Championship) è reale in questa stagione nella quale, dopo 24 partite, il West Ham occupa l’ultimo posto in classifica.

Qualche settimana dopo la presentazione del progetto degli Hammers, è arrivata la notizia bomba della manifestazione di interesse da parte del Tottenham Hotspur: gli Spurs pensano in grande e aver ritrovato la Champions League dopo 49 anni ha portato l’entusiasmo alle stelle. Il centenario White Hart Lane che, dopo la ristrutturazione di fine anni novanta, può ospitare circa 36.000 spettatori sta stretto alle ambizioni dei dirigenti degli Spurs che da alcuni anni stanno pensando ad un nuovo stadio che possa rispondere alle richieste di una lista d’attesa di circa 25.000 nuovi spettatori. Il progetto, non ancora operativo, ha ormai assunto dimensioni faraoniche: stadio, sviluppi commerciali e residenziali, un costo stimato lievitato fino a 500 milioni di Euro. L’alternativa “olimpica” è, quindi, presa in considerazione per ridurre l’impatto finanziario sulla società e arriva come una bomba per almeno due ragioni; in una città come L0ndra dove ogni quartiere ha la sua squadra di calcio dalle tradizioni spesso centenarie, uno spostamento dello stadio di quindici chilometri è destinato a destabilizzare la geografia del tifo e della tradizione. Ma l’aspetto più sconvolgente della proposta della dirigenza del Tottenham è l’intenzione di radere al suolo lo Stadio Olimpico e ricostruire un nuovo stadio, destinato solo al calcio, da 60.000 posti. Come contentino ai difensori dell’idea di un impianto per l’Atletica, il dossier prevede un investimento per la ristrutturazione dell’impianto di Crystal Palace, tradizionale sede delle competizioni londinesi.

La proposta degli Spurs scalda gli animi: ha dalla sua il non indifferente aspetto della solidità economica favorita anche dall’ingresso nella gestione di un colosso dell’intrattenimento come AEG che è stato in grado di risollevare dal flop il Millenium Dome ma è contraria ad ogni concetto di Olympic Legacy. Potenti lobby si scatenano a supporto dell’una e dell’altra proposta. La famiglia “olimpica” supporta gli Hammers e riesce sotto la spinta degli ex-atleti Sebastian Coe, presidente del Comitato Organizzatore di Londra 2012, e Tessa Sanderson a fare scendere in campo il ministro delle Olimpiadi, Tessa Jowell, e il presidente del CIO, Jacques Rogge mentre il presidente della IAAF, Lamine Diack, accusa preventivamente l’intera organizzazione di falsità nel caso non si arrivasse ad una soluzione che mantenga la pista. I calciofili si allineano con la proposta degli Spurs: si espongono Pelè e Jimmy Greaves, il supporto politico arriva, invece, dal sindaco di Londra, Boris Johnson. La decisione, attesa per il 28 gennaio, è stata ora posticipata al mese di marzo per la sua complessità mentre anche i supporter del Tottenham scendono in campo contro lo sradicamento degli Spurs dal loro tradizionale quartiere verso un territorio “nemico”.

Il traserimento renderebbe il Tottenham protagonista di uno “sgarbo” simile a quello che gli Spurs subirono quasi un secolo fa: nel 1913, il presidente del Woolwich Arsenal, con sede lungo le rive del Tamigi nella zona sud-orientale, decise di rilanciare il club portandolo in un’area con un maggiore bacino d’utenza. Propose dapprima una fusione o, in second’ordine, la condivisione del terreno di gioco con il Fulham e quando le sue proposte furono bocciate si mosse nel quartiere di Islington, nella zona settentrionale, invadendo l’area di influenza del Tottenham, scatenando le proteste degli Spurs e dando il la ad una delle più accese rivalità londinesi.

Ancora molte parole saranno spese prima della decisione finale che potrebbe, in ogni caso, ritornare ai piani originali di un impianto da 25.000 posti completamente dedicato all’Atletica.

Stadi di Londra

I SAMURAI FANNO SUL SERIO

Partiti come grandi favoriti della Coppa d’Asia, i Samurai Blu hanno terminato il loro girone in prima posizione per poi battere i padroni di casa del Qatar nei quarti di finale, al termine di una gara molto tirata e spettacolare.

GiapponePartiti come grandi favoriti della Coppa d’Asia, i Samurai Blu hanno terminato il loro girone in prima posizione per poi battere i padroni di casa del Qatar nei quarti di finale, al termine di una gara molto tirata e spettacolare. Parliamo quindi proprio dell’approccio tattico delle due squadre, focalizzandoci in particolare sulla nazionale del Sol Levante, e vediamo com’è andata la partita e chi ne è stato il grande protagonista.

Padroni di casa schieratisi con un classico 4-4-2 con Burhan a difesa dei pali protetto da una linea a quattro composta, da destra a sinistra, da Al-Hamad, Mohammed, Al Ghanim ed Abdulmaged. Ismail ed El Sayed le ali di centrocampo, Rizki e Quaye i mediani. Davanti, infine, Ahmed e Soria l’uno al fianco dell’altro. Di contro i giapponesi rispondono con un 4-2-3-1 con Kawashima in porta, Inoha e Nagatomo terzini e Yoshida-Uchida centrali. Endo e Hasebe i centrocampisti con licenza di rompere il gioco altrui per fare ripartire l’azione, ed un trio di trequartisti composto da Kagawa, Honda ed un Okazaki con licenza di scambiarsi di posizione con l’unica punta, Maeda.

Subito una buona partenza da parte dei padroni di casa che applicando un gran pressing sul centrocampo avversario impediscono alle due fonti di gioco nipponiche di poter impostare l’azione con efficacia. Per amplificare l’operato dei mediani, quindi, anche l’accoppiata Soria-Ahmed si mette a fare pressing alto, dando non pochi problemi al duo Uchida-Yoshida. Pressing, quello qatarese, abbinato ad una linea di difesa molto alta atta a tenere quanto più corta possibile la squadra. Aspetto, questo, riscontrabile anche da parte nipponica. Presto detto quale ne è stato il risultato: congestione massima a centrocampo.

E’ comunque bene, trattandosi di una rubrica di tattica calcistica, soffermarci un pochino di più sulla difesa giapponese. Perché come tutti credo ricorderete il buon Zaccheroni divenne famoso per l’adozione di un modulo poi non molto usato, ovvero sia un 3-4-3 che prevedeva una linea difensiva composta da tre soli uomini, contro i quattro di questo Giappone. Andando bene a vedere, però, la linea difensiva nipponica sa mutare di forma e sostanza un po’ con la stessa facilità con cui un camaleonte cambia il colore della propria pelle. Spesso e volentieri, infatti, uno dei terzini va a stringersi avvicinandosi ai centrali dando via libera all’altro, più libero di avanzare. Questo, che con la formazione base del match in esame vedeva spesso Inoha accentrarsi ed il cesenate Nagatomo sganciarsi, permette quindi alla retroguardia della nazionale del Sol Levante di passare da quattro a tre uomini, mutando quindi anche l’approccio difensivo della squadra intera.

Finezze tattiche a parte va comunque detto che ad inizio match ciò che si fa sentire di più è il fattore campo, che carica a molla i padroni di casa. Spronati dalla voglia di ben figurare davanti al proprio pubblico, infatti, i ragazzi allenati da Bruno Metsu partono subito a spron battuto cercando di imporsi fin dai primi attimi. Non risulta quindi essere un caso se Kawashima sarà chiamato a compiere due interventi importanti già nei primi nove minuti di gioco. Il tutto anche perché la difesa alta di cui abbiamo parlato risulta in realtà rivelarsi un’arma a doppio taglio per i Samurai Blu: se da una parte permetterà loro di tenere corta la squadra dall’altra darà modo agli avversari di poter colpire in velocità, quantomeno quando la trappola del fuorigioco non è in grado di scattare. Un po’ come al dodicesimo minuto di gioco, insomma, quando l’uruguaiano Soria, naturalizzato qatariota proprio per questioni calcistiche, s’infila sulla sinistra della retroguardia nipponica per poi, una volta entrato in area, battere Yoshida nell’uno contro uno andando ad infilare l’estremo difensore avversario con un tiro sul primo palo che, in realtà, sarebbe stato parabilissimo.

Parlando di tasso tecnico, però, il divario è ampio. E questa differenza si fa sentire in special modo quando i nipponici decidono di far girare palla. Come al ventottesimo minuto, quando imbastiscono una bella azione che viene finalizzata da Kagawa, stellina di quel Borussia dei miracoli di cui vi parlai settimana scorsa. Il tutto, e non è un caso, nasce sulla sinistra: come abbiamo detto, infatti, Nagatomo ha licenza di spingere e proprio la sua pressione costante risulta essere un aiuto non indifferente alla squadra. Interessante, nell’occasione, vedere il movimento della star di Dortmund, che dopo aver ricevuto ai venticinque metri dalla porta scaricherà il pallone centralmente per Honda, puntando poi proprio la porta qatariota. Movimento importante, questo: il trequartista del CSKA, infatti, servirà di prima intenzione Okazaki che partito sul filo del fuorigioco si presenterà a tu per tu con l’estremo difensore avversario, provando a batterlo con un pallonetto che si rivelerà però un po’ corto. Non troppo corto, tuttavia, per Kagawa, che scattato alle spalle di tutti i difensori potrà andare a raccogliere il pallone per infilarlo comodamente in rete prima che la retroguardia di casa possa intervenire e sventare la minaccia.

Ad inizio ripresa Metsu, grande giramondo del calcio mondiale, aggiusta la sua squadra arretrando e decentrando Ahmed sulla trequarti destra, per cercare di contrattaccare Nagatomo impedendogli così di affondare con continuità sulla fascia ed inserendo l’ex napoletano Montezine in luogo di El Sayed per avere più qualità a centrocampo. Il match però cambia intorno all’ora di gioco, quando Yoshida viene ingiustamente espulso per doppia ammonizione (la sua entrata su Ahmed è sul pallone, cartellino giallo fuori luogo) e sulla punizione che ne segue Kawashima commette un errore piuttosto grossolano sulla conclusione di Montezine, favorendo il secondo vantaggio della squadra di casa.  A quel punto il nostro Zaccheroni si trova di fronte ad un problema non da poco: c’è in fatti da dare un nuovo equilibrio ad una squadra che va a trovarsi in inferiorità numerica. Per provare a sistemare le cose, quindi, il tecnico di Meldola inserisce un centrale difensivo, Iwamasa, al posto dell’unica punta, Maeda, passando quindi ad un 4-2-3 in cui sarà Honda a dover rivestire il duplice ruolo di trequartista centrale e, all’occorrenza, punta.

I padroni di casa, però, non sapranno sfruttare l’uomo in più: lasceranno infatti assolutamente troppo campo agli avversari che anche grazie ad una maggiore tecnicità riusciranno ad improntare l’ultimo terzo di gara su di un possesso palla spiccatamente in loro favore, con il duo Endo-Hasebe che prenderà in pieno possesso del centrocampo. A fare la differenza, quindi, sarà il maggior tasso tecnico della squadra dell’estremo oriente, così come il loro maggior coraggio e la presenza di un Kagawa assolutamente ispirato: dopo aver realizzato il primo pareggio, infatti, la stellina del Borussia andrà a siglare anche il secondo al termine di un’azione molto manovrata che darà bene l’idea dello schiacciamento verso la propria area dei padroni di casa, la cui fragilità difensiva resterà però praticamente invariata e permetterà al numero 10 nipponico di riequilibrare il risultato.  Non contento, poi, il piccolo trequartista di Hyogo propizierà anche la rete del definitivo 3 a 2 raccogliendo al limite dell’area un suggerimento di capitan Hasebe ed infilandosi all’interno della stessa per poi servire Inoha che potrà quindi realizzare indisturbato la rete della definitiva vittoria dei Samurai Blu.

Soluzioni tattiche interessanti, quelle approntate da Zaccheroni in questa sua esperienza asiatica. E chissà che proprio le scelte del mister di Meldola non risultino alla fine decisive verso una vittoria che tutti quanti attendono, nel paese del Sol Levante.