IL NONNO IN ROSA

La storia di Andrea Noè, il più anziano tra i corridori al Giro d’Italia.

Tra i 207 corridori in gara al Giro d’Italia 2011 attualmente in corso, il più anziano è Andrea Noè, 42 anni compiuti lo scorso 15 gennaio. Alle spalle una carriera onesta, quasi sempre al servizio dei più quotati compagni di squadra, ma con qualche grande soddisfazione che ha contribuito a farlo entrare, ancora di più, nel cuore degli appassionati.

Andrea Noè nasce a Magenta, cittadina alle porte di Milano, all’inizio del 1969. Nel suo caso, sarebbe sbagliato parlare di “una vita a pedali”, come si fa con molti atleti che iniziano a pedalare sin dalla tenera età: infatti, trascorre l’infanzia sui campi di pallavolo, innamorandosi della bicicletta solo da adolescente. E quando dice ai genitori che intende passare al ciclismo, questi, preoccupati, lo portano dal medico. Tutti gli dicono che è troppo magro per poter reggere le fatiche delle due ruote, ma Andrea, sin dalla prima gara disputata a 16 anni e mezzo dove finisce davanti al fratello che correva già da qualche anno, dimostra una costanza e una grinta fuori dal comune. La trafila nelle categorie giovanili è costellata di sudore ma anche di qualche successo, come la vittoria nella Bologna-Raticosa, impegnativa scalata al colle appenninico, che mette in mostra le sue doti di scalatore puro.

Nel 1993, all’età di 24 anni, arriva il debutto tra i professionisti, con la maglia della Eldor dove corre anche Marco Giovannetti, vincitore della Vuelta nel 1990: al servizio dell’esperto corridore toscano, Noè scopre il “suo” ciclismo, la sua vocazione, il suo modo di interpretare le corse. Non attaccare da lontano o fare volate (nelle quali più di una volta ha ammesso di essere assolutamente negato), non staccare i big in salita o tentare azioni da falco in discesa: ma lavorare per gli altri, tirare, faticare, sudare. Proteggere e servire, per usare il gergo poliziesco. E come molti altri “gregari”, termine che racchiude tutta l’umiltà, la leggenda e la professionalità del ruolo, si guadagna presto il soprannome di “Brontolo”, del corridore che, stando spesso in testa o in coda al gruppo principale, si trova a litigare con le telecamere della ripresa televisiva, a volte troppo vicine ai primi corridori. Una stagione dopo l’altra, una tirata dopo l’altra, questo corridore alto, castano e occhialuto si trova in squadra con tutti i più grandi atleti dell’ultimo quindicennio ciclistico: Tony Rominger, Johan Musseuw, Claudio Chiappucci, Michele Bartoli, Paolo Bettini, Mario Cipollini, Stefano Garzelli, Ivan Basso e Vincenzo Nibali. Dei big, perlomeno italiani, gli manca solo aver corso con Marco Pantani, quello che, come ricorda il milanese in una recente intervista, “quando scattava, noi ci giravamo dall’altra parte”, per non vedere il distacco clamoroso che infliggeva al gruppo in pochi metri. Tra una brontolata e una salita presa a tutta per il proprio capitano, la sua carriera ha anche un paio di perle degne dei più grandi campioni.

San Marino, 27 maggio 1998, Giro d’Italia: 173 km di fuga, scatti e controscatti con l’altro attaccante Chepe Gonzales sull’ascesa del Titano, una grinta scatenata a grandi scariche sui pedali per contenere il ritorno dei migliori. Alla fine, le mani al cielo, sette secondi sette e una cinquantina di metri di vantaggio su Marco Pantani, dopo una giornata tutta in testa. La gioia, poca, perché lui è un Brontolo di natura; la soddisfazione, tanta, perché una vittoria così vale una carriera, anche se il capitano Bartoli si arrabbia, perché credeva che quella tappa fosse disegnata apposta per lui. E due giorni dopo, a Schio, proprio quando Bartoli si rifà della delusione vincendo allo sprint su Guerini e Bettini, il milanese indossa la prima maglia rosa della sua vita. Nella frazione successiva, sotto la pioggia battente di Piancavallo, l’avventura da leader di Noè finirà, con un po’ di rammarico ma la consapevolezza di aver dato il massimo, come sempre.

Pur essendo un gregario, in salita è sempre tra gli ultimi a staccarsi, nonostante la fatica del lavoro di squadra: si spiega così il quarto posto nella classifica finale del Giro d’Italia 2000, addirittura davanti al capitano ufficiale della sua Mapei, ovvero il russo Pavel Tonkov. Lo stesso piazzamento nella graduatoria conclusiva viene ripetuto tre anni più tardi, nel secondo Giro vinto da Gilberto Simoni. Oltre a quei due giorni di gloria nel 1998 e a questi importanti risultati, la vita da gregario di Noè gli ha riservato anche il successo nella tappa di Leysin al Giro di Romandia nel 2000. Anno dopo anno, diventa uno dei corridori più esperti del gruppo, e non è raro sentire voci di ritiro sul suo conto. Ma anche da “vecchio”, lui c’è sempre, e a 38 anni inoltrati, nel 2007, indossa per altre due volte il simbolo del primato al Giro d’Italia, diventando così la maglia rosa meno giovane nella storia della nostra corsa nazionale.

Quando la Liquigas lo esclude all’ultimo dal Giro 2009, il quarantenne magentino sembra veramente prossimo ad appendere la bici al chiodo, ma tiene duro ancora un anno: tuttavia, la stagione 2010 in maglia Ceramica Flaminia non gli permette ancora di prendere parte alla corsa rosa, visto che la sua squadra non viene invitata per le vicende di Riccardo Riccò. Mollare? Mai. Si arriva a 42 anni, stagione 2011, e promette nuovamente che sarà l’ultima. Andrea detto “Brontolo” deve finire la propria avventura ciclistica al Giro d’Italia, e oggi, finalmente, è al via della cronosquadre di Venaria, al servizio del campione nazionale Giovanni Visconti. 600.000 chilometri pedalati nei 18 anni da professionista, pari a quattordici giri della Terra. Tutto in quel cognome, Noè, come il vegliardo della Bibbia che campò, si dice, 950 anni. In sella, una vita di fatica e di servizio. In casa, una vita tranquilla, come tutti gli antidivi che si rispettano, con la moglie Simona e la figlia Camilla. Con la cronometro di Milano del 29 maggio la sua epopea ciclistica, proprio nel giorno del compleanno della sua sposa, finirà definitivamente. Ma il mito dell’eterno e fedele Noè aleggerà sempre sul gruppo, come quello dei grandi campioni.

UNA VITA A DUE RUOTE

Dieci anni in gruppo, quasi sempre a tirare per i più blasonati capitani, ma con alcune grandi soddisfazioni personali come la vittoria in una tappa al Giro d’Italia e in un’altra al Tour de France. Tante stagioni in ammiraglia, a dirigere Marco Pantani e Mario Cipollini, giusto per citarne due. E poi il suo inconfondibile accento toscano è diventato un simbolo, una garanzia di qualità per gli appassionati italiani delle due ruote, grazie alle sue telecronache con Andrea Berton, sulle frequenze di Eurosport. Senza dimenticare anche la passione dell’ippica, condivisa con un altro grande ex del ciclismo come Claudio Chiappucci, che lo porta a trottare per gli ippodromi d’Italia. Riccardo Magrini, classe 1954 di Montecatini Terme, è questo e tanto altro.

Riccardo Magrini, una vita legata al ciclismo: cosa ti spinse a salire in bicicletta?

«Ho cominciato la mia avventura casualmente, grazie al cugino di mio padre che aveva una bici da corsa e faceva il cicloamatore. Dopo essere stato promosso, chiesi ai miei un motorino in regalo, ma loro, ritenendolo troppo pericoloso, preferirono darmi una bicicletta da corsa. Così un giorno chiesi a Lauro Monti detto “Canardo”,il mio parente,  di portarmi con gli altri cicloamatori per vedere come fosse questo sport; pur senza forzare, li staccai tutti su una salitella, e proprio lui mi convinse a tentare la strada delle corse».

Com’era il Riccardo Magrini corridore? Qual è la vittoria che ricordi più volentieri?

«In gruppo mi chiamavano Jerry Lewis o Adriano Celentano, ma fondamentalmente per tutti ero il “Magro”, soprannome che mi è rimasto per sempre. Ero un corridore votato alla squadra, il classico gregario. Da dilettante andavo forte, e dopo la partecipazione ai Campionati del Mondo di Montreal nel 1974 sarei dovuto passare tra i professionisti, tuttavia rimasi ancora in quella categoria a causa di un inghippo regolamentare. Forse fu proprio questo episodio a condizionare tutta la mia carriera, ma comunque direi che è andata più che bene. La vittoria più bella? Beh, ho vinto solo tre gare e quindi le ricordo tutte volentieri: il Giro della Provincia di Reggio Calabria nel 1982, la tappa di Montefiascone al Giro d’Italia e quella di Île de Oléron al Tour de France nel 1983».

Poi sei salito in ammiraglia e hai diretto tanti grandi atleti: uno  rimasto nel cuore in particolare?

«Un nome secco: Marco Pantani».

L’esperienza di Eurosport, al fianco di Andrea Berton: come valuti questo lavoro? Dovessi ripartire da capo, rifaresti tutto il tuo percorso professionale?

«È un’esperienza bellissima che ho sempre desiderato di fare, sin da ragazzo. Grazie ad Andrea Berton sto avendo un grande consenso da parte di tanti appassionati che ci seguono assiduamente ed evidentemente apprezzano il nostro modo di raccontare il ciclismo. Se rifarei tutto? Correggendo qualche episodio sì, ma comunque non ho grossi rimpianti».

Quanto è diverso il ciclismo di oggi da quello che hai vissuto come atleta?

«Forse sono cambiati i rapporti umani, ma in fin dei conti, sia che vai in bici per divertimento, sia che lo fai per lavoro, alla base deve esserci sempre una grande passione. Il ciclismo è un bello sport proprio per questo».

Una curiosità: la tua insana passione per Carlos Barredo (corridore spagnolo della Rabobank, ndr) da dove deriva?

«(ride) È tutto nato dal mio modo di accostare, a volte, il cognome di un atleta con quello di altri personaggi. Con Carlos è stato facile, perché da Barredo a Barreto cambia solo una consonante, e quindi per me è diventato “Carlos Marino Barredo jr” giocando sull’assonanza del suo nome con un noto cantante cubano degli anni cinquanta, ovvero Don Marino Barreto jr. Il resto lo ha fatto lui col suo modo di interpretare le corse. Quando ho avuto il piacere di incontrarlo, si è dimostrato veramente molto gentile: da qui è nata l’insana passione, che mi porta a “tifare” per lui durante le varie competizioni».

Qualcuno ti avrà anche detto, nel corso degli anni, di “darti all’ippica”: alla fine hai seguito il consiglio… meglio un cavallo o una bicicletta?

«Entrambe sono due grandi passioni. Il cavallo da corsa è l’atleta, esattamente come il ciclista, quindi avresti dovuto chiedermi di scegliere tra la bici e il Sulky. In quel caso ti avrei risposto così: che tutti e due hanno un sellino e le ruote, la differenza la fa proprio l’atleta, e io stimo sia il corridore, sia il cavallo. Come dico sempre in telecronaca, “Donne, Cavalli e Corridori non c’ha mai capito nulla nessuno!».

COMMESSO, UNA VITA ALL’ATTACCO

La testa piegata sul manubrio, le mani sul volto per coprire le lacrime di rabbia e delusione. E’ questa l’immagine di Totò Commesso rimasta nella mente di molti appassionati: un corridore umano, non una macchina come certi suoi colleghi, che, dopo essersi visto soffiare una vittoria attesa da 4 anni, sfoga tutta la sua frustrazione. Tour de France 2006, quattordicesima tappa, traguardo di Gap: sotto un sole che spacca le pietre, si presenta sul rettilineo finale il napoletano in compagnia del francese Pierrick Fédrigo, al termine di una fuga lunga e combattuta, col gruppo trainato dalla Liquigas che cerca di rientrare fino all’ultimo metro. Totò è favorito, parte ai -150 metri, ma ha un rapporto troppo duro, e il suo compagno d’avventura lo passa, lo beffa, lo scaraventa nella disperazione. Uno dei momenti più duri nella carriera di questo bravo corridore, una vita sempre in fuga, sempre all’attacco, sempre pronto a sorprendere.

Nato a Torre del Greco, cittadina della provincia napoletana, il 28 marzo 1975, Salvatore Commesso detto Totò non segue la strada abituale dei giovani di quelle parti, una strada a forma di pallone da calcio: gli piace andare in bici, gli piace pedalare, e allora inizia a correre con la squadra degli zii paterni, il GS Macelleria Fratelli Commesso, nella categoria Esordienti, appena undicenne. Ma nel nostro Meridione il ciclismo non è così sviluppato e seguito come in Toscana, in Veneto e in Lombardia: le corse sono poche, e le trasferte da sobbarcarsi per mettere a frutto questa grande passione sono enormi e dispendiose. Per chi vuole fare il corridore professionista, l’unica via percorribile è emigrare al Nord, lasciandosi tutto alle spalle, inseguendo il proprio sogno. Totò non si tira indietro: d’estate va sempre a Cesana Brianza, nel lecchese, dove abitano alcuni parenti, e nel 1989 trasferisce definitivamente la sua residenza a Pusiano, sempre da quelle parti, tesserandosi per l’Unione Ciclistica Costamasnaga, in una realtà così diversa dalla sua Campania. In tre stagioni con la squadra brianzola conquista 25 successi, dando prova non solo di ottime doti da corridore, ma anche di un carattere allegro ed altruista che lo fanno stimare da tutti: con queste vittorie, e un buon numero di piazzamenti, si rende conto che il sogno di diventare professionista non è così irrealizzabile. Continua la trafila delle categorie giovanili, con società comasche e bergamasche: ai mondiali Under 23 del 1996, a Lugano, una sua lunga fuga spiana la strada alla tripletta azzurra, guidata dal suo corregionale Giuliano Figueras; nello stesso anno è campione regionale di categoria e la stagione successiva vince il titolo europeo e i Giochi del Mediterraneo.

Finalmente, nel 1998, dopo un percorso caratterizzato da sudore e sacrifici, Totò Commesso passa tra i professionisti, nella rossa Saeco di Re Leone Cipollini. Quello stesso anno vince una tappa al Giro del Capo, in Sudafrica, e coglie una serie di buoni piazzamenti, tra cui spiccano il terzo posto al Campionato di Zurigo e il quarto ad Amburgo in prove di Coppa del Mondo: questi risultati sono la conferma di come sia uno dei giovani più interessanti del panorama ciclistico italiano, dotato di una buona velocità negli sprint e soprattutto di una propensione all’attacco fuori dal comune. Il 1999, seconda stagione tra i pro, è forse la più bella per Commesso: il 28 giugno ad Arona si disputa il Campionato Nazionale e, dopo una corsa combattutissima, sul traguardo con vista sul Verbano si presentano in quattro, tre dei quali (Commesso, Petito e Celestino) in maglia Saeco. Proprio Celestino si sacrifica lanciando lo sprint ai compagni, e in volata Commesso sorprende tutti precedendo Petito, che non la prende propriamente bene perché quel giorno la squadra aveva lavorato per lui, e rimane stupito dall’esuberanza e da questa “mancanza di rispetto” dello scugnizzo napoletano. Comunque sia, Totò onora al meglio la maglia tricolore conquistata in queste condizioni un po’ particolari: al Tour de France dello stesso anno, nella tappa di Albi, il campione nazionale corona una fuga di ben 232 chilometri, precedendo in uno sprint senza storia l’altro azzurro Serpellini, e diventando così il primo napoletano di sempre ad imporsi in una frazione della Grande Boucle. In quell’anno, ad onor del vero, si macchia anche di una vicenda non propriamente onorevole, visto che alla Vuelta di Spagna reagisce agli insulti di uno spettatore con un cazzotto in diretta televisiva.

Tour de France e Tricolore, sono queste le corse della vita per il bravo Totò. Nel 2000, sempre in maglia Saeco, sempre alla corsa francese, stavolta sul traguardo tedesco di Friburgo, realizza un altro capolavoro: 242 chilometri di fuga, prima in compagnia e poi in coppia con il solo Vinokourov, puntualmente sconfitto nello sprint finale da questo napoletano piccolino (165 cm di statura) ma con due gambe che girano a meraviglia.

Nel 2002 invece, sulle strade trevigiane, dopo un paio di stagioni buie, segnate da soli due successi in Portogallo, la sua stella torna a splendere, vincendo il secondo campionato nazionale della sua vita, davanti a Dario Frigo e Francesco Casagrande. Quella stessa estate si aggiudica il Trofeo Matteotti e il Criterium d’Abruzzo, importanti classiche di metà stagione. Da lì in poi inizia una sorta di maledizione per questo corridore tanto amato dal pubblico: sempre all’attacco e sempre in fuga, non riuscirà più a trovare quella brillantezza e quella lucidità necessaria per vincere. Non si contano i suoi piazzamenti tra i primi cinque, tanto nelle frazioni di Giro e Tour quanto in svariate corse in linea: per sei, interminabili anni Commesso, che veste anche le maglie di Lampre e Tinkoff, insegue il successo senza ottenerlo, con punte di assoluto rammarico come quella descritta in apertura.

L’incantesimo si spezza in una tappa del Giro del Lussemburgo 2008 quando, con la divisa della piccola Preti Mangimi, può finalmente scatenare tutta la sua incontenibile gioia, tornando ad alzare le braccia al cielo dopo questa lunga e dolorosa astinenza. E’ l’ultimo squillo in carriera per questo simbolo della Campania ciclistica, che chiude la sua avventura da professionista accasandosi per due stagioni alla Meridiana-Kalev, la prima squadra della storia con base nel nostro Meridione. Un atleta particolare, sempre all’attacco senza paura e spesso senza calcoli, capace in questo modo di guadagnarsi gli apprezzamenti degli addetti ai lavori e del grande pubblico, come solo i veri campioni sanno fare.

ROBERTO LAISEKA, CUORE BASCO

Andiamo alla scoperta di Roberto Laiseka, uno dei principali intepreti del ciclismo basco

Roberto LaisekaDa anni ormai, in ogni grande corsa a tappe del ciclismo mondiale c’è una presenza fissa, una squadra che non cambia né sponsor né maglia: è la Euskaltel-Euskadi, una vera nazionale basca, formata unicamente da corridori e tecnici di questa particolare comunità della Spagna pirenaica. Sin dal 1994 le divise arancioni di questo team sono il simbolo ciclistico dei Paesi Baschi: persino le biciclette usate dagli atleti, di marca Orbea, sono fabbricate in quella regione. Considerando il paesaggio tipicamente montano della zona in questione, non c’è da stupirsi che quasi tutti i ciclisti della Euskaltel siano scalatori puri. Nelle tappe di montagna, infatti, sono sempre tra i protagonisti principali, incitati da migliaia di loro tifosi e corregionali che accorrono sulle principali salite alpine e pirenaiche, colorando di arancione la giornata al grido di “Gora Euskadi”, forza Paesi Baschi. Roberto Laiseka, al pari di Iban Mayo e Haimar Zubeldia, è stato uno dei principali interpreti non solo del ciclismo basco, ma anche del carattere mai domo, fiero ed orgoglioso di quella gente.

Nato a Guernica, la città immortalata in tutto il suo dolore da Pablo Picasso, il 17 giugno 1969, Laiseka cresce negli anni in cui, a breve distanza, si alternano due campionissimi delle due ruote, ovvero Eddy Merckx e Bernard Hinault, stagioni nelle quali il ciclismo spagnolo è comunque brillante con ottimi atleti dal calibro di Luis Ocaña, José Manuel Fuente e Pedro Delgado. Alto e slanciato (184 cm per 63 kg), Roberto ha dunque il “phisique du role” per fare lo scalatore. Dopo la tradizionale gavetta nelle categorie giovanili e dilettantistiche, passa tra i professionisti nel 1994, con la neonata Euskadi. Nelle prime stagioni da professionista non riesce a dare pieno sfogo alle sue grandi capacità, sbagliando spesso i tempi dell’azione in corsa: anno dopo anno tuttavia, l’esperienza accumulata gli permette di guadagnare lucidità e razionalità, doti fondamentali per vincere ad alto livello, perché anche nelle tappe di montagne, notoriamente le più spettacolari, spesso non bastano un gran cuore e due gambe in forma per poter trionfare. Per scoprire la gioia della vittoria, Laiseka deve aspettare i 30 anni: è la diciottesima tappa della Vuelta a España 2000, con traguardo sul temibile Alto de Abantos, salita che l’atleta basco doma sfruttando in maniera perfetta la volontà di Ullrich, Gonzales de Galdeano e Heras, i big della classifica, di controllarsi reciprocamente; in un mare di bandiere arancioni, Roberto transita per primo sul traguardo con una ventina di secondi sul belga Vandenbroucke, straordinario e sfortunato campione. L’anno dopo la stessa corsa gli regala il secondo urrà della carriera: al termine di una lunga fuga a sei, Laiseka scatta ad una manciata di chilometri dall’ambito traguardo di Andorra-Arcalis, facendo letteralmente il vuoto, visto che il secondo classificato, il bravo Carlos Sastre, è a quasi un minuto di distacco. Sfiora il successo anche dieci giorni più tardi, a Ciudad Rodrigo, ma qualche incomprensione di troppo con l’altro fuggitivo García Acosta permette al kazako Vinokourov di rientrare su di loro, beffandoli a 400 metri dall’arrivo, tra lo sconforto generale del pubblico. Per quanto in montagna sia sempre tra i protagonisti, Laiseka perde un’eternità nelle prove a cronometro, come succede sempre agli scalatori più puri, e quindi non può mai essere pienamente competitivo per la vittoria finale di una grande corsa a tappe, dovendosi accontentare solo di qualche piazzamento: infatti, potrà vantare al massimo un sesto posto nella graduatoria generale proprio di quella Vuelta.

L’impresa più bella della sua carriera non arriva sulle strade spagnole, ma su quelle francesi: è la quattordicesima tappa del Tour de France 2001, ultima frazione di montagna di quella Grande Boucle, col traguardo posto a Luz Ardiden, spettacolare località pirenaica. Ullrich, Kivilev e Beloki non hanno né le possibilità né le gambe per attaccare Lance Armstrong, dominatore assoluto, per la seconda delle sue sette volte, di quel Tour, e dunque c’è spazio per i cacciatori di tappe, per gli scalatori puri in cerca di gloria. La lunga fuga partita sin dal mattino si sparpaglia tra l’Aspin e il Tourmalet, e il bergamasco Wladimir Belli, eterno piazzato del grande ciclismo (basti pensare ai 25 piazzamenti tra i primi dieci in tappe del Giro d’Italia, senza la gioia di un successo), culla il sogno dell’impresa, ma non ha fatto i conti con Roberto Laiseka: quel giorno, l’atleta basco non è da solo, perché tutto il suo popolo è sulle strade di quell’ascesa, tra prati e tornanti, in un tripudio di bandiere arancioni e di Gora Euskadi. Ai -10 dal traguardo Laiseka rompe gli indugi, salutando il gruppo dei migliori e piazzandosi all’inseguimento del bergamasco, ormai sfinito, raggiungendolo nel giro di pochi minuti. In testa da solo, gli ultimi chilometri segnano il vero trionfo del ragazzo di Guernica, incitato da due ali di folla che sembrano due pareti umane a fianco della strada: uno spettacolo, quello di un pubblico del genere, che solo il ciclismo sa regalare. Laiseka passa la linea d’arrivo facendosi ripetutamente il segno di croce e fatica, dopo uno sforzo ed un’emozione del genere, a trovare il fiato e le parole giuste per rispondere alle domande degli incombenti cronisti; Belli, che dedica il piazzamento al compianto Casartelli, è secondo a 54’’.

Dopo quel giorno di gloria, il Cuore Basco di Laiseka, sempre più in sintonia con una grande lucidità tattica e un’ottima visione di corsa, brillerà altre due volte: ad Arrate, nella Bicicletta Basca del 2004, e ad Aramón Cerler, stazione sciistica dell’Aragona, nella Vuelta 2005. Appende la bicicletta al chiodo al termine della stagione successiva, a 37 anni suonati solamente a causa di un infortunio al ginocchio: la sua carriera gli ha regalato solo cinque successi, ma di una qualità veramente straordinaria. Le tredici stagioni in sella lo hanno visto indossare unicamente la casacca dell’Euskaltel-Euskadi, contribuendo a renderlo un vero idolo dei tifosi baschi, tra i quali è ancora oggi idolatrato come una delle principali espressioni sportive del coraggio, del temperamento e, appunto, del cuore di quella popolazione.

FABIANO FONTANELLI, VELOCE E FURBO

Fabio FontanelliNelle stagioni d’oro di Marco Pantani, al centro del gruppo c’era sempre una “chiazza gialla”: era il Pirata con i suoi uomini della Mercatone Uno, presenza fissa nel plotone di quegli anni. Fabiano Fontanelli faceva parte di quella squadra, ma sarebbe riduttivo descrivere il corridore nato a Faenza nell’aprile di 46 anni fa come un gregario duro e puro. In quindici anni di onorata carriera il “Fonta” ha infatti portato a casa qualcosa come 37 vittorie, tra le quali spiccano quattro tappe al Giro d’Italia. Negli anni del fortunato sodalizio con Pantani, le sue doti di passista-veloce tornavano molto utili alla causa della Mercatone Uno: nelle stagioni precedenti invece, con le divise di Selca, Italbonifica, Navigare, ZG Mobili ed MG, spesso Fontanelli rivestiva i gradi di capitano e battagliava nelle volate di gruppo con Zabel, Cipollini e gli altri grandi sprinter dell’epoca, non disdegnando qualche coraggioso tentativo nelle grandi classiche del Nord. Sceso di sella a fine 2003, per un paio di stagioni ha diretto dall’ammiraglia la Ceramiche Panaria, la storica squadra guidata da Bruno e Roberto Reverberi, prima di staccare definitivamente la spina col ciclismo professionistico. Abbiamo avuto il piacere di sentirlo e di farci raccontare alcuni aneddoti della sua brillante carriera.

Fabiano Fontanelli, 37 successi in 15 anni di carriera: qual è quello che ricordi con maggior soddisfazione?

Sicuramente il mio primo successo al Giro d’Italia: era l’undicesima tappa dell’edizione 1993, col traguardo a Dozza, nella “mia” Romagna, davanti ai miei tifosi. Vincere praticamente in casa è stata davvero una grande gioia.

E invece, ripercorrendo tutte quelle annate, qual è il rammarico più grande?

Credo di aver fatto una bella carriera, per cui non ho grossi rimpianti: certo, sarebbe stato bello vincere una delle grandi classiche, però quella…è roba da campioni!

È normale che il tuo nome, data la lunga militanza in Mercatone Uno, sia associato a quello di Pantani: che ricordo hai di lui?

Non credo che il mio nome sia sempre e solo associato a quello di Marco, anche se, avendo corso con lui negli ultimi cinque anni di carriera, un po’ ci sta: era proprio un bel personaggio, che aveva la sua forza nella semplicità, e credo fosse questo il motivo per cui piaceva così tanto agli appassionati.

In diverse occasioni ti abbiamo visto lanciato anche negli sprint di gruppo: non bisogna essere un po’ “pazzi” per fare una volata a 70 km/h?

Eh sì, bisogna essere un po’ pazzi, non c’è che dire. Io comunque ho fatto poche volate di gruppo, quasi tutte nei primi anni di carriera: mi rendevo conto di essere veloce, ma non così tanto da mettere in fila duecento corridori. Per questa ragione, ho gradualmente cambiato il mio modo di correre, cercando di portar via una fuga già a parecchi chilometri dal traguardo per regolare i compagni di avventura allo sprint finale, sfruttando la mia rapidità. Veloce sì, ma anche furbo!

Come valuti la tua esperienza da direttore sportivo con la Ceramiche Panaria? Come mai non è proseguita?

E’ stata indubbiamente una bella esperienza, ma alla fine avevo dei problemi di salute ed ero anche stanco di star sempre via da casa: dopo 15 anni in gruppo, non sarei riuscito a farne altrettanti in ammiraglia, era davvero un grande impegno. Oggi seguo dei dilettanti (fa parte della Commissione Tecnica federale dell’Emilia-Romagna, ndr), lavoro un po’ meno impegnativo ma che mi permette anche di stare al contatto con i giovani, e questo è gratificante.

Cosa pensi del problema-doping nel mondo del ciclismo?

È assolutamente fondamentale combattere il doping con la massima serietà, ma a volte ho l’impressione che nel ciclismo ne sia stata fatta quasi una questione “politica”, che preferisco non commentare perché esula dalle mie capacità di comprensione.