ANDRÉ VILLAS BOAS , LO SPECIAL TWO

La favola di André Villas Boas, per otto anni secondo di Josè Mourinho

André Villas BoasPiù che una storia sembra una favola, la sua. Perché André Villas Boas sta dominando il campionato portoghese alla tenerissima età – per un allenatore – di trentatre anni. E senza aver praticamente mai tirato calci ad un pallone. I suoi inizi sono stati realmente molto particolari:  si dice infatti che abitasse nello stesso palazzo dell’allora allenatore del Porto Robson, cui faceva continuamente trovare nella cassetta delle lettere alcune sue considerazioni sulla squadra ed il suo inquadramento tecnico-tattico. Il tutto, è bene sottolinearlo, quando aveva solo diciassette anni. La cosa, manco a dirlo, impressionò molto il tecnico inglese che propose alla società lusitana di assumerlo come scout prima ed allenatore poi.

Tra il 2000 ed il 2001, quindi, fece la sua prima esperienza come mister quando accettò l’incarico, ricoperto per 18 mesi, di Commissario Tecnico delle Isole Vergini Britanniche, che non riuscì però a qualificare al Mondiale nippo-coreano (ma l’impresa, posso garantirvelo, sarebbe stata impossibile per chiunque). Lasciato l’incarico di C.T. ecco il suo ritorno al Porto, dove guiderà per un certo periodo la formazione under 19 dei Dragões.

Dopo l’ingaggio di Mourinho, quindi, ecco la sua promozione a vice proprio del futuro Special One. Il tutto sino allo scorso anno, quando accetterà l’offerta dell’Academica che prenderà all’ultimo posto in campionato per condurla ad una molto più tranquilla undicesima posizione.
Lo scorso tre giugno, poi, l’ennesimo ritorno al Porto, ma questa volta da allenatore in capo: dopo aver vinto tutto al fianco di Mou, insomma, il delfino di uno dei migliori allenatori del mondo è finalmente pronto a spiccare il volo.  E sembra averlo spiccato con buona lena, il volo. Perché al suo primo anno disputato sedendo sin dall’inizio su di una panchina il tecnico di Oporto sta compiendo delle grandissime imprese. Dopo aver vinto la Supercoppa nazionale contro il Benfica si è da poco aggiudicato il campionato con ben cinque giornate di anticipo, imponendosi proprio contro la squadra guidata, a livello societario, da Rui Costa. Porto che è inoltre ai quarti di Europa League. Anzi, potremmo dire in semifinale dato che il 5 a 1 dell’andata contro lo Spartak sa molto di qualificazione.

Villas Boas ha costruito una macchina da guerra praticamente perfetta. Basti pensare che in campionato ha totalizzato ventiquattro vittorie e due pareggi senza mai venire sconfitto, con ben sessantuno reti realizzate (otto più del Benfica secondo) e sole undici subite (quattordici meno del Benfica, secondo anche come miglior difesa). Il tutto in special modo grazie ad un percorso netto fatto registrare davanti al proprio pubblico che ha quasi dell’incredibile: tredici vittorie in tredici match, con trentasette reti realizzate a fronte di sei sole subite.

Le cose non vanno certo peggio in Europa: il Porto parte infatti dal turno di playoff dell’EL, dove si sbarazza facilmente dei belgi del Genk con un 3 a 0 alla Cristal Arena cui farà seguito il 4 a 2 dell’Estádio do Dragão. Inseriti nel Gruppo L con Besiktas, Rapid Vienna e CSKA Sofia, quindi, i lusitani raccoglieranno cinque vittorie ed un pareggio. Nella fase ad eliminazione diretta, poi, arriverà la sconfitta contro il Siviglia, che sarà comunque eliminato grazie alle due reti segnate fuori casa all’andata. Dopo aver posto fine anche al torneo del CSKA Mosca i lusitani sono destinati a chiudere ora i giochi anche per lo Spartak.

Questa sequela di numeri e risultati dimostra la bontà del lavoro svolto da Villas Boas in quel di Oporto. Villas Boas che predilige un 4-3-3  che non lascia niente al caso. Al solito, infatti, bisogna ricordare che parlare di moduli in sé e per sé è riduttivo. Si tratta di freddi numeri che vogliono dire davvero poco. Perché Leonardo schiera tre centrocampisti e tre punte, di fatto, ma dimostra di non curare al meglio la fase difensiva, che è spesso gestita da sei soli giocatori. Villas Boas, invece, fa proprio l’opposto: partendo dall’assunto che la miglior difesa è l’attacco (e che più la palla la si tiene là davanti meno rischi si corrono) dà anche mandato ai suoi di tornare quantomeno a coprire gli spazi, quando non a fare legna nella propria metà campo.

Ed allora ecco che oltre ad una classica linea di difesa a quattro schiera un mediano a protezione della stessa, e con compiti ben precisi: fare filtro a centrocampo scoprendo la linea arretrata il meno possibile per non far perdere il giusto equilibrio alla squadra. Al suo fianco, poi, due mezz’ali tecnicamente dotate che siano ben in grado, come nella miglior tradizione lusitana, di effettuare buon palleggio a centrocampo ma, nel contempo, di aiutare la squadra in fase di non possesso (ruolo questo ricoperto magistralmente, ad esempio, dal colombiano Guarin, piuttosto abile in entrambe le fasi di gioco).

Davanti, poi, un tridente amalgamato se non alla perfezione comunque in maniera magistrale: una prima punta rapace e dotata di senso del goal unico come Falcao affiancato da punte esterni agili, veloci e soprattutto dedite al sacrificio. In questo senso è bene sottolineare la presenza di quella che assieme – se non più – allo stesso Falcao è un po’ la stella della squadra, il brasiliano Hulk: fisico notevole, potenza rara, tecnica più che discreta e buona abilità nel dribbling. Non è e non sarà mai un Fenomeno in quanto tale, ma resta giocatore molto solido e che varrebbe bene un investimento importante.

Il titolo di questo articolo parla chiaro ed è un riferimento che sicuramente tutti avrete colto. Ma attenzione, come chi sa chi segue più o meno assiduamente quanto scrivo il mio non è affatto un paragone campato per aria. Come avrete potuto capire anche grazie a questo pezzo, difatti, i punti in comune tra Mourinho e Villas Boas sono molti. Innanzitutto la nazionalità ed il fatto che entrambi siano sbocciati nel Porto. Ma anche che ambedue diano un’attenzione particolarissima alla fase difensiva, così come che esattamente come era per Mourinho il modulo preferito da André è il 4-3-3 (che certo ricorderete essere lo stesso modulo che Mou provò ad imporre anche al suo arrivo a Milano, quando proprio per quel motivo si fece comprare i flop Mancini e Quaresma).

Insomma, diverse assonanze tra i due. E chissà che lo Special Two non superi il maestro, un giorno.

IL GAUCHO DI PIANORO

Luis Di Giglio è nato nel 1989 a Bahia Blanca in Argentina (come Emanuel Ginóbili) ma è al 100% un prodotto del cricket italiano. Cresciuto alla scuola di Arcidio Parisi, da più di un decennio Luis calca i pitch italiani con la maglia del Pianoro. Il talentuoso lanciatore mancino ha vestito anche la maglia della Nazionale, dapprima a livello giovanile, poi dal 2008, in occasione degli Europei (2008 e 2010) e della serie contro Jersey (2009), anche di quella maggiore. Nelle due recenti edizioni della World Cricket League Luis è rimasto a casa come riserva, ma continua ad essere considerato un importante talento per la nazionale tanto che la Federazione italiana l’ha segnalato all’ICC Europe per l’Emerging Player Program tenutosi dal 21 al 26 marzo a La Manga in Spagna.

 

Caro Luis, le tue origini sono argentine ma la tua crescita sportiva è interamente italiana. Puoi raccontarci come ti sei avvicinato al cricket e chi sono stati i tuoi principali maestri?

«Premetto che non avevo idea di cosa fosse il cricket prima di arrivare in Italia quando avevo dieci anni. In Argentina giocavo a calcio, poi alle scuole medie ho conosciuto il mio professore di tecnica, Arcido Parisi, che è anche il presidente del Pianoro Cricket Club, la squadra dove gioco. È stato lui ad invitarmi a giocare a cricket; preso dalla curiosità sono andato a provare e me ne sono innamorato. I miei primi maestri sono stati Valerio Zuppiroli, allora capitano del Pianoro, e Michel Minghetti, che ogni tanto allenava noi piccoli. In seguito grazie alle nazionali under 13 e 15 ho imparato molto da Kamal Kariyawasam che era il coach. In questi ultimi anni devo molto a Philip Hudson e Richard O’Sullivan, allenatori delle accademie europee, e a Joe Scuderi, l’allenatore della nazionale italiana».

 

Prima di partire per la Spagna avevi disputato la “Supercoppa italiana” che impressione hai avuto a giocare indoor?

«Giocare indoor è stato molto divertente, ma è molto diverso dal vero cricket; può però sicuramente essere un ottimo allenamento durante l’inverno, visto che in quel periodo non si può giocare all’aperto».

 

Che esperienza hai vissuto in Spagna?

«Dal punto di vista umano è stata un’esperienza indimenticabile; ho conosciuto ragazzi da tutto il mondo, ognuno con la propria specifica cultura. È stato bellissimo convivere ed allenarmi con ragazzi all’apparenza così diversi da me, ma in realtà con moltissime cose in comune, soprattutto con la passione per il cricket».

 

In quali aspetti hai migliorato il tuo gioco?

«Credo che nelle accademie si impari molto, specialmente a livello tecnico. Per quanto riguarda la battuta con lo staff ci siamo concentrati su come affrontare un lanciatore spinner e come giocare correttamente tutti i colpi con il backfoot, mentre per il lancio abbiamo sistemato alcune cose riguardanti la giusta posizione del corpo prima e dopo il lancio. La cosa più importante però è che ora credo di sapere come correggere i miei errori e come allenarmi nella maniera giusta».

 

Tornato in Italia, la nuova stagione è alle porte. Il Pianoro è campione in carica, quali sono i vostri obiettivi stagionali?

 

«Sicuramente puntiamo a mantenere lo scudetto a Pianoro, anche se come ogni anno credo sarà molto dura».

 

Un pensiero finale alla nazionale. Sei del giro ma nelle ultime due World Cricket League sei stato chiamato solo come riserva a casa; pensi che quest’estate potrai rivestire la maglia azzurra?

 

«Spero vivamente di poter rappresentare l’Italia quest’estate e per questo voglio giocare il meglio possibile in campionato e dimostrare di essere all’altezza della maglia azzurra».

LA FAVOLA DI MORENO TORRICELLI

Moreno Torricelli, il “Geppetto” del Calcio degli Anni Novanta

Moreno TorricelliIl mondo dello sport, e del calcio in particolare, è una piramide spietata: tutti ambiscono alla vetta, ma solo in pochissimi ci arrivano. Ogni ragazzo che gioca nella squadra del quartiere sogna ad occhi aperti correndo dietro al pallone, immagina il suo futuro sui campi dorati della serie A invece che su quelli fangosi della periferia, pensa a quando alzerà quella Coppa con le “grandi orecchie” come hanno fatto Maldini, Zanetti, Vialli, Baresi e tanti altri miti del passato. Tuttavia, quei sogni sono destinati a rimanere tali: a meno che, sin dalla tenera età, non si dimostrino doti tecniche tali da meritarsi il passaggio al settore giovanile di una squadra professionistica, per iniziare la scalata al vertice. Pochi ce la fanno a seguire questa strada, e ancora meno sono quelli che, pur crescendo e debuttando in qualche categoria inferiore, vengono successivamente notati dagli osservatori delle big; perché è chiaro, ormai si preferisce puntare solo calciatori affermati, su improbabili stranieri oppure (caso già più raro) su qualcuno svezzato in casa dal proprio settore giovanile. Come se nella nostra serie D non ci fossero giocatori, magari già di 23 o 24 anni, degni di un’occasione, anzi, dell’Occasione, quella che ti cambia la vita, che ti fa realizzare i sogni dell’infanzia. È per questo che la storia di Moreno Torricelli ha dell’incredibile, considerando la fredda (e stupida) razionalità del calcio moderno.

Moreno Torricelli nasce ad Erba, nella Brianza comasca, il 23 gennaio 1970, e cresce nel paese di Inverigo in una famiglia dove la determinazione e lo spirito di sacrificio sono sempre state le parole d’ordine, dal bisnonno che lavorava come fuochista in filanda al papà che, nonostante l’impegnativo lavoro di camionista, troverà sempre il tempo per seguire Moreno nelle sue avventure col pallone. Calcisticamente muove i primi passi nella Folgore di Verano Brianza; in una stagione, nella categoria Allievi Regionali, passa in prestito al Como, che ai tempi frequentava la serie A, ma ritorna poi nella squadra di origine, con la sensazione che il treno sia passato per sempre. Sacrificio e determinazione, si diceva. Passato all’Oggiono, in Promozione, e successivamente alla Caratese, nel Campionato Nazionale Dilettanti, è ancora ai margini del calcio professionistico, e dunque ha sì uno stipendio, ma non sufficiente per vivere in modo tranquillo: così Moreno, tutti i giorni, lavora fino alla sei di sera al mobilificio Spinelli come magazziniere, prima di recarsi al campo di allenamento, tornando a casa comprensibilmente stremato. Il pallone è un passione, il ventiduenne Torricelli non si aspetta certo chissà quali novità: dopo una gioventù come libero, si è riadattato a fare il terzino tutto grinta e corsa, su intuizione di Roberto Dustin Antonelli, già regista nel Milan dello scudetto della Stella e tecnico di quella Caratese che, nella primavera 1992, viene visionata da Claudio Gentile. L’indimenticabile campione del Mondo del 1982 è il direttore sportivo del Lecco, squadra di serie C2, e viene impressionato favorevolmente da questo ragazzo alto e con i capelli a spazzola (sono ancora lontani i tempi del suo look incolto, quasi western). Così, Gentile suggerisce il nome a Giovanni Trapattoni, allenatore della Juventus, che lo convoca prontamente e sorprendentemente per le tradizionali amichevoli di fine stagione, quando altre società di serie C erano ormai pronte ad avanzare un’offerta. Moreno Torricelli si trova, all’improvviso, catapultato nel sogno, indossando la maglia di uno dei club più prestigiosi; certo, il ragazzo, come da tradizione familiare, è interista, ma ovviamente non ci sono problemi “sentimentali” di fronte ad un’opportunità del genere. Il Trap gli parla in dialetto, lo sprona, lo incita e Torricelli sfrutta al volo questa grande possibilità; durante l’estate, tre giorni prima della partenza, gli arriva la telefonata che gli cambia la vita, perché viene convocato al raduno estivo della squadra, proprio quando nemmeno lui ci credeva più, visto che il telegramma di convocazione mandato in precedenza non era mai giunto a destinazione a causa di un refuso sull’indirizzo.

Inizia così la favola di Geppetto, il babbo e falegname della storia di Pinocchio, nomignolo scelto da Roberto Baggio: pronti via, alla seconda giornata di campionato è già titolare, e da lì in poi non lascerà più la fascia destra della difesa bianconera. La Juve di Trapattoni non fa faville in serie A ma si scatena in Coppa Uefa, vincendo il trofeo a spese del Borussia Dortmund, col comasco inamovibile sulla linea arretrata. Dopo un’altra stagione ad alti livelli, nella quale i torinesi giungono secondi alle spalle del Milan, inizia l’era Lippi: il tecnico viareggino non ha uno splendido rapporto con Torricelli, del quale però non può fare a meno, contribuendo a farlo crescere sul piano tecnico e a rafforzare sempre più il suo ruolo di indispensabile per quella Juventus che, tra il 1995 e il 1998, vincerà ben tre campionati, una Champions League e una Coppa Intercontinentale. Sono tre annate indimenticabili per Geppetto che, proprio contro l’Ajax, nella finale di Coppa 1996 disputata all’Olimpico di Roma, gioca probabilmente la sua migliore partita, contenendo le azioni offensive di Kanu e Kluivert, la coppia gol dei Lancieri. La mamma, vedendo Moreno alzare quel trofeo con le grandi orecchie, piange davanti al televisore, come le era successo solamente con Antonio Cabrini ai Mondiali di Spagna 1982. In sei anni con la divisa bianconera totalizza 153 presenze realizzando un’unica rete, e superando un gravissimo infortunio nel marzo 1997 che gli causa la lesione del crociato anteriore del ginocchio. Nel frattempo, per lui si spalancano anche le porte della nazionale italiana, con la quale contro il Galles nel 1996 e prende parte agli sfortunati Europei di quello stesso anno. Nonostante i problemi fisici, Cesare Maldini lo chiama per i Mondiali 1998, dove però non scende mai in campo, per poi chiudere la sua esperienza azzurra con una serie di amichevoli durante la gestione di Dino Zoff.

Tuttavia, nell’estate 1998 qualcosa si rompe nel suo legame con la società bianconera: senza essere avvertito, la dirigenza lo mette sul mercato e Moreno, pur deluso da un trattamento simile, rifiuta un’importante offerta del Middlesbrough per accasarsi alla Fiorentina, dove ritrova l’amico Trapattoni sulla panchina. Sempre presente e sempre affidabile, in maglia viola disputa quattro stagioni davvero significative, con la squadra più volte ad un passo da uno storico scudetto, prima dell’inglorioso fallimento della gestione Cecchi Gori. Il comasco conclude la carriera con un’esperienza a Barcellona, nelle file dell’Espanyol, ed infine all’Arezzo, prima di lanciarsi nella carriera di allenatore: gestisce i ragazzi della Fiorentina e passa poi alla Pistoiese e al Figline. La carriera da tecnico è difficile e ricca di ostacoli, e probabilmente Geppetto deve ancora trovare la sua giusta dimensione per questo ruolo, per quanto anche in panchina riesca a sfoggiare quella grinta da falegname che lo ha contraddistino nei lunghi anni in serie A. Il fatto che in queste avventure sia sempre seguito dagli amici Anselmo Robbiati e Gianmatteo Mareggini, conosciuti in maglia viola, conferma come Firenze sia la città del cuore per Torricelli, dove tuttora continua a vivere con la sua famiglia: è infatti sposato con Barbara, dalla quale ha tre figli, che viene tragicamente a mancare nell’ottobre 2010, a causa di un male incurabile. In fondo, in ogni favola c’è sempre un lato triste.

MONACO 1860: I CUGINI POVERI DEL BAYERN

Le speranze del Monaco 1860 di salvarsi dalla bancarotta sono affidate a un giovane uomo d’affari giordano. Nei 152 anni di storia della seconda squadra di Monaco pochi successi e tanti guai finanziari.

Monaco 1860Come si può facilmente dedurre, il Monaco 1860 deve il nome all’anno della propria fondazione, anche se all’epoca non era ancora altro che una polisportiva di ginnastica e atletica. Per l’avvento del calcio si sarebbero dovuti aspettare altri quarant’anni, precisamente il 1899. Poi, solo un anno dopo, da un gruppetto di diciotto dissidenti della società di ginnastica Münchner TurnVerein avrebbe visto la luce il Bayern.

Col passare dei decenni l’ingombrante presenza del Bayern ha creato un complesso d’inferiorità nei tifosi della più antica squadra di Monaco di Baviera. Ma almeno fino alla seconda guerra mondiale il 1860 era ancora la squadra più popolare della capitale bavarese, mentre il Bayern raccoglieva i propri simpatizzanti soprattutto in provincia. Godendo della compiacenza dei gerarchi nazisti, il 1860 aveva conosciuto negli anni trenta una fase di successo, fino all’apice della conquista della Coppa di Germania nel 1942. Sarà poi il dopoguerra a generare un nuovo complesso, quello di colpa, nei suoi sostenitori e nei suoi dirigenti: complesso tanto vivo e vegeto tuttora, al punto di far rimuovere integralmente gli anni del Terzo Reich dalla sezione storica del sito ufficiale della squadra.

L’epoca d’oro del Monaco 1860 comincerà negli anni sessanta e durerà per tutto quel decennio, sotto la guida dell’allenatore austriaco Max Merkel, per coronarsi in tre splendide annate: il 1964 con la conquista della seconda Coppa di Germania, il 1965 con l’approdo alla finale (poi persa) di Coppa delle Coppe, e il 1966 con la prima ed unica vittoria in campionato della propria storia. Ma la fortuna volgerà presto le spalle ai “leoni”, come vengono anche chiamati per via del loro stemma raffigurante un leone rampante. Alla fine del 1969 il bilancio societario comincia a presentare le prime crepe, con un’esposizione debitoria di oltre due milioni di marchi. E come una tegola, nel 1970 si abbatte anche l’onta della retrocessione in Zweite Bundesliga, la seconda divisione del campionato tedesco, con una conseguente emorragia di pubblico e di incassi.

Gli anni settanta erano stati anni di difficoltà finanziarie per tutto il calcio tedesco, e persino il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt era dovuto intercedere presso le banche per salvare dalla bancarotta l’Amburgo, la sua squadra del cuore. Dall’altra parte della barricata, Erich Riedl, uno dei maggiorenti della CSU, il partito conservatore alla guida della Baviera, era diventato il presidente del Monaco 1860, ed aveva utilizzato la propria influenza nel governo locale per mendicare finanziamenti.

Come sperato, gli aiuti erano arrivati a destinazione, e il Monaco 1860 era potuto ritornare in prima divisione; ma in cambio la dirigenza del club aveva assunto una forte connotazione politica. E questi politici, anche se tutti appartenenti alla CSU, avevano cominciato a litigare tra loro come tanti galli nello stesso pollaio. A questo si era poi aggiunta una campagna acquisti tanto dispendiosa quanto infruttuosa, che alla fine degli anni settanta aveva dissanguato il club, fino a spingerlo al fallimento nel 1982.

A causa del fallimento si era dovuto dire addio col fazzoletto agli occhi alla ribalta della Bundesliga per ripartire da zero, ossia dai campionati regionali bavaresi: un purgatorio dove il Monaco 1860 avrebbe languito lungo tutti gli anni ottanta. La rimonta sarebbe arrivata nel decennio successivo, ed sotto la guida di un nuovo rampante e spregiudicato presidente, Karl Heinz Wildmoser, di professione imprenditore nel campo della ristorazione. Così, per la gioia dei tifosi, a fine anni novanta la seconda squadra di Monaco sarebbe rientrata in prima divisione, fino a guadagnarsi anche una fugace comparsata nella fase preliminare della Champions League del 2000.

I problemi finanziari ricompaiono però nella prima metà degli anni duemila, in concomitanza con la preparazione dei mondiali di Germania 2006, quando viene deliberata la costruzione di un nuovo avveniristico stadio a Monaco: il futuro Allianz-Arena. I costi della nuova struttura sono esorbitanti: 340 milioni di euro, e vengono sostenuti da una società costituita pariteticamente dal Bayern e dal Monaco 1860, con il figlio di Wildmoser, Heinzi, sullo scranno di amministratore delegato.

Se per il Bayern, coi suoi oltre 150mila soci, 2.500 fans club sparsi per il mondo, e un’attività internazionale di merchandising straordinariamente redditizia, non è stato un problema reperire i fondi necessari, per i cugini del Monaco 1860 l’investimento si è rivelato un salasso in piena regola. Un escamotage per sovvenzionare le aziende di famiglia lo avevano trovato invece i Wildmoser padre e figlio, che nel marzo del 2004 verranno arrestati per essersi intascati tangenti dalla società costruttrice dello stadio per circa 2 milioni e 800mila euro. Anche se poi il padre e presidente patriarca della squadra verrà scagionato dalle accuse (peggior sorte si abbatterà invece sul giovane Heinzi, condannato a quattro anni e mezzi di galera), dovrà subire la defenestrazione dalla presidenza della squadra. Per il Monaco 1860, retrocesso contemporaneamente in Zweite Bundesliga, significherà la fine di un percorso e l’imbocco di un tunnel.

Inevitabilmente, nel 2006 la nuova amministrazione aveva comunicato di essere rimasta con le casse vuote, impotente a raccogliere i 12 milioni di euro necessari a pagare le licenze alla federazione per proseguire l’attività. Urgeva una misura estrema, una di quelle a cui l’orgoglio del club non avrebbe voluto ricorrere mai: chiamare in soccorso i cugini e rivali del Bayern. E questi, anche se di malavoglia, avevano risposto alla chiamata, acquistando la quota di capitale del Monaco 1860, ossia il 50%, nella Allianz Arena Gmbh, la società incaricata della gestione dello stadio. La bancarotta era scongiurata, ma solo temporaneamente. E proprio il mese scorso il nuovo presidente ha annunciato un’ennesima emergenza: casse nuovamente vuote e, senza più i gioielli di famiglia da poter mettere in vendita, urgenza di procacciarsi un finanziatore, possibilmente disposto a devolvere pronta cassa almeno 10 milioni di euro.

Si è ricorso ancora all’aiuto dei cugini, che però questa volta hanno voltato le spalle dispiaciuti; si è implorato l’aiuto del land della Baviera, che però si è dovuto tirare indietro, adducendo il divieto comunitario sugli aiuti di stato, finché la scorsa settimana è comparso, o meglio è sembrato apparire dal nulla l’atteso cavaliere bianco. Ë un giordano di 34 anni, ma non assomiglia neanche lontanamente a Lawrence d’Arabia. Si chiama Hasan Abdullah Ismaik, e allo stato attuale sembra seriamente intenzionato ad acquisire il 49% del capitale del centocinquantenario club monacense (per la legge tedesca il 50% + 1 delle azioni delle squadre di calcio della Bundesliga devono restare di proprietà del club stesso).

E se l’uomo d’affari giordano si dovesse tirare indietro, per il Monaco 1860 le speranze di salvarsi dal secondo fallimento della propria storia si ridurrebbero ai minimi termini. A tutt’oggi il temuto ritorno ai campetti delle divisioni regionali nel prossimo campionato non è ancora scongiurato.

ALLEGRI 3 – LEONARDO 0

Massimiliano Allegri e LeonardoLeonardo contro il suo passato, Allegri alla prova del nove. Ecco cosa rappresentava, per i due tecnici, il derby milanese giocato nel corso dell’ultimo week-end. A spuntarla, alla fine, è stato proprio l’ex coach del Cagliari di Cellino, che ha schierato una squadra molto compatta e determinata, abile a sfruttare al meglio tutte le mancanze degli avversari. In campo scendono i giocatori, certo. Ed in questo senso espressi sul mio blog il mio punto di vista, con i giocatori del Milan tutti oltre la sufficienza e quelli dell’Inter in più casi incapaci di profondere le giuste energie.  Per ciò che riguarda questa partita nello specifico, però, credo che una chiave di lettura importante sia data proprio nel confronto tra quanto svolto tra i due tecnici perché mai come in questo caso le scelte dell’uno e dell’altro hanno inciso così profondamente una partita.

Iniziamo dallo sconfitto, allora: Leonardo che schiera il suo solito 4-2-1-fantasia che, e dovrebbe averlo ormai capito, risulta totalmente inadeguato in partite di questa importanza e contro avversari così dotati.
I più attenti potrebbero ora obiettare che quello adottato dal tecnico brasiliano sia fondamentalmente lo stesso modulo utilizzato da Mourinho nella stagione del Triplete: una punta centrale, Eto’o, Sneijder e Pandev a dare sostanza alla fase offensiva, due mediani ed una difesa a quattro a protezione del solito Julio Cesar. La realtà dei fatti è però ben diversa. Perché non sono sempre i numeri possono spiegare tutto, ed anche volendo davvero azzardare questo parallelismo finiremmo col cadere in errore. Perché un modulo in sé e per sé vuol dire poco. Molto più importante è come lo stesso viene interpretato.

Facciamo un esempio slegato dalla situazione di cui stiamo parlando per provare a spiegare meglio. Il modulo classico nel calcio di oggi è il 4-4-2. Modulo che però può variare molto a seconda degli interpreti in campo ed a seconda di come gli stessi occupino le posizioni a loro assegnate. Pensate ad un 4-4-2 con Marchisio a sinistra, Aquilani e Melo centrali e Krasic a destra: facile vedere sovente – e così è successo più volte, infatti – il serbo arrivare quasi ad allinearsi con le punte, con lo scivolamento degli altri centrocampisti a formare, in buona sostanza, una linea a tre. Ben diverso, invece, sarebbe utilizzare due ali di ruolo che limitandosi a giocare solo sugli esterni darebbero un volto molto più lineare a questo modulo. O, ancora, ben diverso è trovarsi a giocare con un 4-4-2 utilizzando i terzini bloccati piuttosto che mettere in campo lo stesso modulo ma farlo sfruttando dei terzini dalla buona capacità di spinta e capaci di andare ad effettuare continue sovrapposizioni.

Allo stesso modo nel caso in esame ecco che non si può fare un facile parallelismo tra il modulo utilizzato sovente da Mourinho e quello schierato nel derby da Leonardo. Perché non basta notare certe somiglianze, bisogna entrare più nel merito dell’approccio tattico al modulo stesso. E allora ecco che si può subito vedere come il tecnico lusitano partisse dalla costruzione di una fase difensiva solida, prima che da trame offensive efficaci. Perché schierava sì tre punte, ma solo a livello nominale. Il tutto a differenza di quanto fatto da Leo, laddove Eto’o, Pazzini e Pandev si sono davvero comportati da punte effettive. Insomma, mentre lo scorso anno tutti, partendo da Milito, erano impegnati nella costruzione di una fase difensiva solida (emblematica, in tal senso, la partita del Camp Nou) nell’ultimo derby meneghino la stessa era limitata a sei giocatori: i quattro difensori ed i due mediani. E con questo approccio tattico è davvero impensabile poter portare a casa vittorie importanti contro squadre di livello. Che poi la casualità lo possa consentire è altrettanto vero, ma in linea di massima si soffrirà davvero più del dovuto. E Leonardo non può non porvi rimedio.

Proprio questa questione è, a mio avviso, il tema tattico centrale del match andato in scena sabato sera. Perché proprio attorno a questa scelta si è deciso un match che ha visto l’Inter subire quasi costantemente gli avversari. Al di là di questa questione meramente tattica si possono comunque trovare anche altre colpe al tecnico nerazzurro. Innanzitutto la mollezza dei suoi giocatori: trovo sia piuttosto incredibile che una squadra come l’Inter possa scendere in campo per affrontare quella che è probabilmente la partita chiave di tutto il suo campionato con uno spirito così poco combattivo. E se in ciò hanno sicuramente parzialmente colpa i giocatori stessi non si può certo dire sia esente da colpe il tecnico, che dovrebbe lavorare nel corso della settimana precedente il match proprio anche su questi aspetti psicologici. Una partita del genere, insomma, dev’essere affrontata con ben altro mordente: ogni singolo uomo in campo ha l’obbligo di aggredire gli avversari su ogni pallone, di giocare con la massima attenzione e di lasciare il minor numero di spazi possibili, per poi cercare di sfruttare gli errori altrui al meglio. Esattamente il contrario rispetto a quanto accaduto a Zanetti e compagni, che sono scesi sul terreno di gioco molli come non mai e si sono fatti lungamente dominare dagli avversari, capaci di riportare una vittoria assolutamente meritatissima.

Tornando a parlare di scelte compiute da Leonardo, poi, va detto che il tecnico brasiliano ha perso la partita a centrocampo: ad una mediana schierata a tre con il supporto di Boateng sulla trequarti, infatti, Leo ha risposto, come detto, con due soli centrocampisti di ruolo a supporto del trequartista Sneijder. Finendo così sotto costantemente nel reparto nevralgico del campo. L’avanzamento di Zanetti sulla linea di Cambiasso e Motta, con magari la freschezza e la vivacità di Nagatomo a coprire la fascia sinistra e Sneijder alle spalle di Eto’o e Pazzini (con Pandev quindi relegato in panchina) avrebbe forse garantito all’Inter di andare meno in difficoltà e, se non altro, di schermare indubbiamente meglio la propria difesa, che avrebbe quindi probabilmente sofferto meno gli attacchi altrui.

In tutto ciò bisogna comunque dare anche i giusti meriti ad Allegri e ad i suoi ragazzi. Ma prima di entrare nello specifico delle scelte compiute dal tecnico rossonero due paroline vorrei spenderle proprio riguardo agli interpreti milanisti, che hanno giocato in linea generale davvero una buona gara. E allora oltre a fare i complimenti ad una linea difensiva molto solida ed attenta (dove il solo Zambrotta, rientrante dopo quattro mesi, è sembrato soffrire qualcosina, ma sicuramente la ruggine che si porta ancora addosso non l’ha aiutato in questo senso) e ad un attacco che ha messo ripetutamente in difficoltà la retroguardia avversaria (con Pato assolutamente decisivo ed un Robinho capace di far vedere i sorci verdi a Ranocchia e soci… se solo trovasse più freddezza sotto porta sarebbe davvero un giocatore difficilmente relegabile in panchina) non posso non soffermarmi proprio su quel centrocampo che ha saputo sfruttare al meglio le scelte avventate – di cui ho appena parlato – compiute da Leonardo per prendere possesso del reparto nevralgico del campo. In questo senso, quindi, non posso che complimentarmi con tutti e quattro i centrocampisti rossoneri: da Van Bommel, che ha interpretato alla grande il ruolo di vertice basso guidando molto bene il reparto e schermando al meglio la coppia Nesta-Silva, passando per Gattuso, che fino a che è rimasto in campo è stato utilissimo nel dare nerbo al centrocampo raddoppiando poi sovente su Eto’o, e Boateng, magistrale nel supportare gli attaccanti dando inoltre sostanza al proprio reparto grazie alle sue notevoli qualità fisiche, finendo con un Seedorf davvero magistrale che, al solito, si è esaltato nelle occasioni che contano. Sublime il match disputato dall’olandese, che ha insegnato calcio a tutto San Siro.

E proprio nella costruzione di questo predominio a centrocampo possiamo trovare i maggiori meriti di Allegri. Meriti che però non si esauriscono tutti lì. Di certo il tecnico di Livorno deve aver studiato a fondo la partita. Perché questo dominio a centrocampo non è frutto del caso, così come frutto del caso non può essere l’utilizzazione di Seedorf come mezz’ala, laddove da tempo ormai lo stesso veniva usato quasi solamente in appoggio alle punte. Riportarlo in una posizione più arretrata in un’occasione del genere, però, gli ha permesso di sfruttare tutta la sua classe senza, nel contempo, rinunciare alla straripante forza fisica di Boateng. Affiancare a Clarence due mastini come Van Bommel e Gattuso (sostituito in seguito da Flamini, col discorso che quindi non cambia), poi, significa proprio essere a conoscenza anche dei limiti del colored olandese, andando quindi a bilanciare la sua sempre più scarsa capacità di ripiegare con prontezza con due giocatori capaci di colmare, alla bisogna, le eventuali mancanze del più creativo compagno di reparto.

Sfida studiata nei minimi dettagli, insomma. Perché anche l’esclusione di Cassano a favore del duo Pato-Robinho non può essere certo stata frutto del caso. Così come proprio a seguito della mancanza di Ibrahimovic Allegri ha dovuto ridisegnare un po’ le manovre offensive dei suoi, con la squadra che in determinate circostanze ha cercato di più la profondità e che in linea di massima ha comunque cercato di sfruttare al meglio la rapidità dei due furetti là davanti.

In linea di massima, devo ammetterlo, a livello tattico più che di sfida vinta da Allegri mi verrebbe da parlare di sfida persa da Leonardo, capace di compiere errori marchiani. E’ altresì vero, però, che l’ex allenatore del Cagliari ha, come detto, grandi meriti, ed è assolutamente giusto riconoscerglieli. Sono ora curioso di sapere, in questo senso, cosa ne pensi Buffa del derby: dopo aver un po’ attaccato il tecnico livornese gli riconoscerà i tanti meriti per la splendida vittoria ottenuta in quest’importantissima stracittadina?