UNA VITA A DUE RUOTE

Dieci anni in gruppo, quasi sempre a tirare per i più blasonati capitani, ma con alcune grandi soddisfazioni personali come la vittoria in una tappa al Giro d’Italia e in un’altra al Tour de France. Tante stagioni in ammiraglia, a dirigere Marco Pantani e Mario Cipollini, giusto per citarne due. E poi il suo inconfondibile accento toscano è diventato un simbolo, una garanzia di qualità per gli appassionati italiani delle due ruote, grazie alle sue telecronache con Andrea Berton, sulle frequenze di Eurosport. Senza dimenticare anche la passione dell’ippica, condivisa con un altro grande ex del ciclismo come Claudio Chiappucci, che lo porta a trottare per gli ippodromi d’Italia. Riccardo Magrini, classe 1954 di Montecatini Terme, è questo e tanto altro.

Riccardo Magrini, una vita legata al ciclismo: cosa ti spinse a salire in bicicletta?

«Ho cominciato la mia avventura casualmente, grazie al cugino di mio padre che aveva una bici da corsa e faceva il cicloamatore. Dopo essere stato promosso, chiesi ai miei un motorino in regalo, ma loro, ritenendolo troppo pericoloso, preferirono darmi una bicicletta da corsa. Così un giorno chiesi a Lauro Monti detto “Canardo”,il mio parente,  di portarmi con gli altri cicloamatori per vedere come fosse questo sport; pur senza forzare, li staccai tutti su una salitella, e proprio lui mi convinse a tentare la strada delle corse».

Com’era il Riccardo Magrini corridore? Qual è la vittoria che ricordi più volentieri?

«In gruppo mi chiamavano Jerry Lewis o Adriano Celentano, ma fondamentalmente per tutti ero il “Magro”, soprannome che mi è rimasto per sempre. Ero un corridore votato alla squadra, il classico gregario. Da dilettante andavo forte, e dopo la partecipazione ai Campionati del Mondo di Montreal nel 1974 sarei dovuto passare tra i professionisti, tuttavia rimasi ancora in quella categoria a causa di un inghippo regolamentare. Forse fu proprio questo episodio a condizionare tutta la mia carriera, ma comunque direi che è andata più che bene. La vittoria più bella? Beh, ho vinto solo tre gare e quindi le ricordo tutte volentieri: il Giro della Provincia di Reggio Calabria nel 1982, la tappa di Montefiascone al Giro d’Italia e quella di Île de Oléron al Tour de France nel 1983».

Poi sei salito in ammiraglia e hai diretto tanti grandi atleti: uno  rimasto nel cuore in particolare?

«Un nome secco: Marco Pantani».

L’esperienza di Eurosport, al fianco di Andrea Berton: come valuti questo lavoro? Dovessi ripartire da capo, rifaresti tutto il tuo percorso professionale?

«È un’esperienza bellissima che ho sempre desiderato di fare, sin da ragazzo. Grazie ad Andrea Berton sto avendo un grande consenso da parte di tanti appassionati che ci seguono assiduamente ed evidentemente apprezzano il nostro modo di raccontare il ciclismo. Se rifarei tutto? Correggendo qualche episodio sì, ma comunque non ho grossi rimpianti».

Quanto è diverso il ciclismo di oggi da quello che hai vissuto come atleta?

«Forse sono cambiati i rapporti umani, ma in fin dei conti, sia che vai in bici per divertimento, sia che lo fai per lavoro, alla base deve esserci sempre una grande passione. Il ciclismo è un bello sport proprio per questo».

Una curiosità: la tua insana passione per Carlos Barredo (corridore spagnolo della Rabobank, ndr) da dove deriva?

«(ride) È tutto nato dal mio modo di accostare, a volte, il cognome di un atleta con quello di altri personaggi. Con Carlos è stato facile, perché da Barredo a Barreto cambia solo una consonante, e quindi per me è diventato “Carlos Marino Barredo jr” giocando sull’assonanza del suo nome con un noto cantante cubano degli anni cinquanta, ovvero Don Marino Barreto jr. Il resto lo ha fatto lui col suo modo di interpretare le corse. Quando ho avuto il piacere di incontrarlo, si è dimostrato veramente molto gentile: da qui è nata l’insana passione, che mi porta a “tifare” per lui durante le varie competizioni».

Qualcuno ti avrà anche detto, nel corso degli anni, di “darti all’ippica”: alla fine hai seguito il consiglio… meglio un cavallo o una bicicletta?

«Entrambe sono due grandi passioni. Il cavallo da corsa è l’atleta, esattamente come il ciclista, quindi avresti dovuto chiedermi di scegliere tra la bici e il Sulky. In quel caso ti avrei risposto così: che tutti e due hanno un sellino e le ruote, la differenza la fa proprio l’atleta, e io stimo sia il corridore, sia il cavallo. Come dico sempre in telecronaca, “Donne, Cavalli e Corridori non c’ha mai capito nulla nessuno!».

LIBIA-COMORE 3-0 FRA ASSENZE CELATE E FEDELTÀ A GHEDDAFI

Può esserci ancora spazio per il calcio in un paese in cui una rivolta della società civile contro una dittatura durata 42 anni si trasforma in una guerra (civile e internazionale allo stesso tempo) in cui la fazione lealista è sostenuta da soldati mercenari mentre quella filo-democratica ha ottenuto un tardivo ma decisivo aiuto aereo da alcuni dei più moderni e sviluppati eserciti del mondo? Sembrerebbe impossibile ma è così, del resto anche nelle retrovie durante le guerre mondiali si continuò a giocare a pallone.

Certo il campionato, causa forza maggiore, si è dovuto fermare. Inoltre la Confédération Africaine de Football (CAF) ha prima posposto poi assegnato al Sudafrica il Campionato africano under 20, valido come qualificazione al Mondiale di categoria, che originariamente si sarebbe dovuto tenere proprio in Libia. I giovani calciatori nordafricani, qualificati di diritto, sono stati costretti a cedere quest’opportunità ai loro coetanei sudafricani che nelle fasi di qualificazione erano stati eliminati dal Lesotho.

Il calcio però non si è fermato del tutto, il 18 marzo, il giorno della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha imposto la no-fly zone il reporter Cristiano Tinazzi scriveva da Tripoli “È tutto come se non fosse successo niente; ieri sono andato allo stadio di Tripoli e ho visto che c’erano gli allenamenti della nazionale libica che si preparano per la Coppa d’Africa”. Il 26 marzo invece sedici ragazzi dell’under 23 libica sono arrivati in Sudafrica dove il giorno successivo hanno perso con i pari età dei Bafana Bafana per 4-2, palesando un grave ritardo di condizione.  Il 28 marzo infine sul campo neutro dello stadio 26 marzo di Bamako, capitale del Mali (che ospiterà anche il ritorno fra Libia e Sudafrica Under 23), la Libia ha sconfitto 3-0 le Isole Comore che calcisticamente equivalgono alle Fær Øer.

La Libia non è mai stata una potenza calcistica: fra le nazionali del Maghreb è sicuramente quella con meno risultati, storia e tradizione. Il calcio però è a tutti gli effetti lo sport nazionale. Mai qualificata per i Mondiali (per l’edizione del 1994 le sanzioni ONU ne impedirono la partecipazione al torneo di qualificazione) nel palmares può contare solo due apparizioni alla Coppa d’Africa.

Nell’edizione del 1982 arrivò un sorprendente secondo posto, dopo una finale persa ai rigori col Ghana. Quel torneo, organizzato in casa, non vide la partecipazione dell’Egitto che, già in polemica con la Libia sull’assegnazione, diede forfait dopo l’assassinio del presidente Sadat. Per Gheddafi fu un’ottima vetrina di visibilità e propaganda. Durante la cerimonia d’apertura inveì contro la politica francese in Sudan, accusando i “regimi fantoccio dell’Occidente” e più in generale contro l’imperialismo americano, nel tentativo, poi miseramente fallito, di porsi alla guida di un movimento pan-africanista.

Nel 2014 la Coppa d’Africa dovrebbe tornare in Libia e quasi sicuramente Gheddafi non potrà bissare i suoi oceanici discorsi. Il progetto avrebbe previsto il rinnovo degli stadi 28 marzo di Bengasi e 11 giugno di Tripoli, nonché la costruzione di due impianti nuovi a Tripoli e di uno a Misurata. Molto dipenderà dai danni provocati dalle bombe e dalla lunghezza della guerra, tuttavia la Coppa d’Africa del 2014 potrebbe essere la vetrina per il nuovo Maghreb democratizzato.

La nazionale libica allenata dal brasiliano Marcos Paquetá, che in passato ha vinto col Brasile il Mondiale under 17 e quello under 20 e in seguito ha gestito l’Arabia Saudita dal 2005 al 2007, sembra aver trovato una sua dimensione. Prima della guerra il progetto di Paquetá era stato costruito in funzione della qualificazione al mondiale del 2014. Nelle ultime delle quattro partite finora disputate dall’allenatore brasiliano la Libia è stata imbattuta.

Interessanti sembrano i nuovi innesti provenienti dall’estero come il mediano Djamal Mahamat che gioca da 10 anni in Portogallo o l’attaccante Eamon Zayed che, nato in Irlanda da padre libico e madre tunisina, dopo qualche esperienza nelle giovanili irlandesi, ha colto l’opportunità di giocare a livello internazionale con la Libia. La stella della squadra resta comunque il talentuoso trentunenne amante del dribbling Ahmed Sa’ad nato a Bengasi che gioca a Tripoli con l’Al Ahly e che con un gran goal in semi-rovesciata ha deciso la sfida contro lo Zambia.

La partita del 28 è stata la terza del girone di qualificazione alla Coppa d’Africa in cui la Libia è in testa con 7 punti frutto del pareggio col Mozambico per zero a zero e delle vittorie con la Zambia e con le Comore. Fra la partita con lo Zambia e quella con le Comore c’era stato anche il tempo per due successi in amichevole: il 4-1 ai rigori con il Niger e il 3-2 con il Benin.

Il silenzio che circondava la partita con le Comore è stato rotto dall’intervista dell’allenatore Paquetà alla vigilia dell’incontro. Il coach brasiliano, che era fuggito da Tripoli il 23 febbraio e passando per l’Italia era tornato a San Paolo in Brasile, ha raggiunto la Tunisia dove si è tenuto un raduno di fortuna della nazionale. Il giorno prima dell’incontro il tecnico brasiliano ha dichiarato alla stampa di non aver avuto nell’ultimo periodo alcun contatto con Saadi Gheddafi, aggiungendo che avrebbe dovuto fare un importante lavoro psicologico con i suoi giocatori e che si augurava di avere con sé anche i calciatori di Bengasi.

Dal punto di vista politico la partita con le Comore ha dimostrato quanto in Africa Gheddafi possa avere ancora molti alleati. Il Mali è un paese sostenitore del Rais; malgrado le proteste interne della società civile maliana, ha infatti concesso alla nazionale libica lo stadio di Bamako in cui i 20.000 presenti hanno  sostenuto apertamente i calciatori nordafricani inneggiando anche al colonnello. Inoltre anche il presidente delle Comore, Ahmed Abdallah Mohamed Sambi, è un amico personale di Gheddafi tanto che alcuni soldati libici fanno parte della guardia presidenziale delle Comore.

Nonostante le difficoltà logistiche la nazionale libica di Paquetà ha vinto facilmente sulle Comore per 3 a 0 grazie alle reti di Walid Elkhatroushi, Ahmed Wafa e Abdallah Mohamed, curiosamente nessuno di questi tre giocatori era stato utilizzato nelle prime due partite di qualificazione. Pare che ben sette giocatori che si trovano in Cirenaica non abbiano voluto o potuto raggiungere la squadra.

Il capitano libico per questo incontro:  Tariq Ibrahim al-Tayib (anche lui non utilizzato nelle prime due partite di qualificazione) si è dichiarato commosso per il sostegno dei maliani ed ha rilasciato dichiarazioni lealiste affermando che “tutta la squadra sta con Gheddafi”. Ciò dimostra, non tanto il consenso (troppe volte in passato le dichiarazioni di atleti sono state fatte sotto ricatto), ma soprattutto la forza che il Rais ha ancora, quantomeno a Tripoli.

Del resto come scrive James Dorsey autore di un interessante blog sul calcio nel mondo arabo, i calciatori libici, grazie al governo, hanno spesso goduto di uno status privilegiato; il sostegno di almeno una parte della squadra, risponde anche alle dinamiche paternalistiche messe in atto dal dittatore libico nei confronti della nazionale di calcio.

Nonostante la visibilità internazionale di questo incontro le informazioni reperibili sembrano essere vaghe e filtrate, tanto che alla chiusura dell’articolo trovare un tabellino dell’incontro risulta un’impresa pressoché impossibile.

Tuttavia il calcio non sembra essere solamente uno strumento favorevole al regime e alla sua propaganda. Mustafa Abdel Jalil, un ex attaccante della nazionale, è diventato uno dei leader della rivolta contro il regime di Gheddafi. Come molti altri membri della nuova opposizione anche Jalil era un esponente del gabinetto di Gheddafi e uno dei pochi che, prima delle proteste, poteva permettersi di criticare pubblicamente il Rais in virtù della propria fama.

LA PALLANUOTO A PORTATA DI PALMO

In arrivo il primo videogioco di pallanuoto disponibile per iPhone, iTouch e iPad.

Sono oltre quindicimila, su Facebook, ad attendere con impazienza il grande giorno. Sono gli iscritti al gruppo “We want Pro Evolution Waterpolo on PS3, XBox360, Wii and PC”. Ad onor del vero, le loro aspettative andranno in parte deluse, ma meglio che nulla… La prossima settimana dovrebbe – il condizionale è d’obbligo, alla luce dei numerosi problemi riscontrati – essere finalmente lanciato “H2O Polo”, videogioco di pallanuoto disponibile per iPhone e iTouch e, in tempi brevi, perfino per l’iPad. Che sarà acquistabile su iTunes.

Niente consolle o computer, dunque. Ma tutto, letteralmente, a portata di mano. Anzi, di dita. Il merito è di Aquasapiens, nome dietro cui si celano Srđan Mihajlević e Vibor Čilić, due croati che da dieci anni vivono negli Stati Uniti. Cresciuti a Spalato nello stesso quartiere frequentando le stesse scuole, Srđan e Vibor si ritrovano a New York in età più avanzata: entrambi sono andati negli States per studiare e poi lavorare, entrambi coltivano la pallanuoto come passatempo – uno è allenatore, l’altro giudice di gara.

Nel tempo libero si dedicano anche ai videogiochi. Vibor ha un’intuizione: tutti possono giocare a calcio o pallacanestro al computer o sulla Play Station, perché non fare anche la pallanuoto, lo sport per cui vanno matti? Prende così vita “H2O Polo”: annunciato agli Europei di Zagabria, il videogioco viene prodotto negli Stati Uniti e dovrebbe essere lanciato sul mercato a novembre. Ma nel frattempo non mancano gli inconvenienti, sotto forma di bug, e così l’uscita slitta di qualche mese: inviato finalmente alla Apple, che lo dovrà rendere compatibile per iPhone, iTouch ed anche iPad, tra una settimana verrà svelato.

Non è, comunque, il primo videogioco in assoluto dedicato alla pallanuoto: nel 1987 ci pensò la Gremlins, storica produttrice di videogame, che portò lo sport di Calcaterra e Kasás sull’indimenticato Commodore 64. Piuttosto rudimentale e spartano nela grafica, come del resto si addiceva a gran parte dei videogiochi dell’epoca, “Water polo” brillava comunque per giocabilità. Ma non ebbe seguito negli anni in cui un altro colosso del divertimento elettronico, la EA Sports, lanciò i vari Fifa, Nba e Nhl. Niente da fare, poi, quando ogni quattro anni uscivano nei negozi i videogiochi dedicati alle Olimpiadi.

Rimasta fuori dalla grande distribuzione, la pallanuoto virtuale entra da una porta di servizio di Internet, finendo sui siti dei videogiochi da fare online. Ma la grafica, con la piscina che assomiglia ad un campo da calcio colorato di azzurro, e la giocabilità lasciano molto a desiderare. Successivamente è la volta di Pc Waterpolo, gioco manageriale simile a Football Manager e Scudetto: qui si scelgono squadre realmente esistenti – Pro Recco, Jug Dubrovnik, Partizan Belgrado – con giocatori reali, ciascuno designato con un valore medio che ne indica la forza. L’idea è buona, ma Pc Waterpolo presenta alcuni limiti, vedi l’impossibilità di prolungare i contratti dei giocatori prima della scadenza o le difficoltà nella gestione del mercato.

Adesso, però, la pallanuoto sembra essersi finalmente ritagliata il proprio spazio. Per di più, sugli strumenti di ultima generazione come la linea di prodotti Apple. I due autori sperano di fare un’ottima pubblicità alla pallanuoto e di attirare così nuovi appassionati: l’obiettivo è viaggiare attorno ai 2mila-3mila download giornalieri per farne il videogioco di sport più popolare. Pura utopia? Staremo a vedere.

MILAN: BUFFA PORTA LA TESI, IO L’ANTITESI

Francesco F. Pagani confuta le analisi tattiche di Federico Buffa. Uno scontro tra titani.

Federico BuffaQualche giorno fa mi è capitato di assistere ad una delle analisi tattiche di Federico Buffa – noto giornalista Sky competentissimo in materia di calcio e basket – riguardante il Milan di Massimiliano Allegri. Nella stessa il sempre ottimo Avvocato dice cose condivisibili ed altre meno. Un punto di vista è sempre assolutamente rispettabile, ci mancherebbe; a maggior ragione quando espresso con la competenza e lo stile del cinquantaduenne opinionista milanese. Nel contempo, però, è altrettanto bello poter esprimere il proprio dissenso. Che è proprio ciò che farò in questo articolo, punto per punto.

Il Milan va al ritmo di Gennaro Gattuso

Tesi condivisibile solo parzialmente, a mio avviso. Il problema non è tanto a livello emozionale quanto a livello di solidità. Nel momento in cui l’ex Campione del Mondo 2006 scende in campo più spento del solito, difatti, a mancare non è tanto la sua verve carismatica – laddove questa squadra ha diversi altri punti di riferimento in questo senso – quanto più il suo apporto in mediana. Difficile pensare che giocatori come Nesta ed Ibrahimovic, per dirne due, possano farsi influenzare negativamente nel vedere Gattuso meno esplosivo del solito. Indubbiamente più probabile che a mancare sia proprio il suo apporto di ruba palloni: senza di esso, difatti, la squadra rischia di non essere così compatta e solida in fase difensiva. Inoltre Ringhio è un giocatore piuttosto lineare: non ha grandi colpi di classe ed un’eventuale incapacità di fare da frangiflutti davanti alla difesa ne riduce notevolissimamente il proprio apporto alla squadra.

Assenza di mancini: Emanuelson allarga il gioco

Anche in questo caso trovo la tesi di Buffa condivisibile solo parzialmente.  Avendo seguito Milan – Bari allo stadio, ovvero sia la partita cui si riferisce specificatamente l’Avvocato, posso dire che l’inserimento di Urby ha inciso solo parzialmente sulla partita. Vero è che la sua freschezza ha contribuito ad innalzare i ritmi, ancor più vero però che sin dalla prima palla giocata nella seconda frazione di gioco questi erano ben diversi rispetto al primo tempo. Del resto il punteggio era quello che era e le cose non potevano andare diversamente.
Emanuelson allarga il gioco? Sì. Ma non tanto in quanto mancino, quanto più per il fatto di essere un’ala di ruolo, cosa che né Gattuso né Flamini sono. Nell’occasione specifica, poi, bravo l’olandese a pescare Antonini con una bella verticalizzazione. Che però sarebbe potuta essere fatta tranquillamente anche da un destro.

Il Milan rischia pochissimo ma così facendo demineralizza il gioco offensivo

Anche qui trovo che il tutto sia vero solo in parte. Perché abbinare una fase difensiva di livello ad una fase offensiva mineralizzata è assolutamente possibile. Del resto Buffa stesso nel suo discorso dice che l’importante, per questa squadra, sia che la palla stia quanto più lontano possibile dalla porta, non interessa il come. Mentre invece è fattibile – Barcellona docet – uno scenario in cui sia proprio un possesso palla continuativo a limitare gli attacchi degli avversari. Del resto il Milan di Rui Costa, per fare un altro esempio, bene o male viaggiava su quelle logiche. E questo ci porta al prossimo punto…

Udinese, Real, Borussia e Porto si fanno attaccare per creare spazio per le proprie punte leggere

…che è anche il più interessante. Partendo dall’assunto che il concetto in sé non mi sembra correttissimo (l’Udinese ha due pesi leggeri davanti, ma su Real, Borussia e Porto – con Higuain o Benzema, Barrios ed Hulk – si potrebbe discutere rispetto a ciò che è leggero e ciò che non lo è) va detto che il sistema di gioco proposto da Buffa è lo stesso che lo scorso anno tutti i non tifosi interisti – milanisti in testa, quindi – criticavano a Mourinho: attendismo e gioco di rimessa.

Il Milan, però, ha tradizionalmente un approccio diverso. Che certo non è quello di quest’ultima stagione, ma che non può nemmeno essere ridotto ad un semplice contropiedismo. Da quando seguo il calcio io, difatti, ho più o meno sempre visto i Rossoneri venire costruiti affinché la squadra stessa potesse avere un gioco strutturato, con una fase di impostazione e costruzione da curare in ogni minimo dettaglio. Il Barcellona attuale, come dice giustamente Buffa, è sicuramente un metro di paragone da prendere con le pinze visti i giocatori unici che sono inseriti in quel sistema, ma è altrettanto vero che, appunto, il Milan è sempre stato costruito per imporre il proprio gioco su ogni campo, non per subirlo.
Cosa direbbero i tifosi vedendo una squadra rintanata nella propria metà campo contro un Bari ultimo in classifica, ad esempio, per cercare di togliere un paio di uomini alla loro fase difensiva creando così più spazio per Pato & company? Probabilmente non la prenderebbero benissimo.
E ancora: ma è davvero così semplice per il Milan giocare sul proprio campo cercando di far scoprire un Bari fanalino di coda? In questo il buon Buffa sembra quasi scordarsi il tatticismo esasperato che da sempre affligge il nostro calcio: da che mondo è mondo le piccole quando fanno visita ad una grande mettono in campo un catenaccio degno del miglior Rappan. Fare gioco attendista contro squadre di questo tipo non è quindi così automatico. Anzi.

Insomma, la sempre lucidissima analisi dell’ottimo Buffa ha avuto qualche falla, in questo. In linea di massima, comunque, mi sento di sottoscrivere anche molte delle cose dette, per quanto mi pare anche alquanto riduttivo, come sembra faccia lui, addossare un po’ tutte le colpe al povero Allegri. Per aprire un ciclo, del resto, c’è bisogno di tempo: va infatti costruita una rosa all’altezza, con giocatori di valore assoluto e soprattutto con una varietà tale da poter eventualmente adottare accorgimenti diversi a seconda della situazione.
Il buon Massimo, insomma, ha diverse attenuanti. In quel di Cagliari, poi, dimostrò di saper dare un volto alle proprie squadre e di essere in grado di impostare una fase offensiva capace di costruire gioco, senza limitarsi al solo attendismo. Esattamente come piace agli esigenti palati dei tifosi milanisti. Cui non resta quindi che dare ancora un po’ di tempo al tecnico di Livorno, che dovrà poi a sua volta essere bravo a sfruttarlo al meglio.

COMMESSO, UNA VITA ALL’ATTACCO

La testa piegata sul manubrio, le mani sul volto per coprire le lacrime di rabbia e delusione. E’ questa l’immagine di Totò Commesso rimasta nella mente di molti appassionati: un corridore umano, non una macchina come certi suoi colleghi, che, dopo essersi visto soffiare una vittoria attesa da 4 anni, sfoga tutta la sua frustrazione. Tour de France 2006, quattordicesima tappa, traguardo di Gap: sotto un sole che spacca le pietre, si presenta sul rettilineo finale il napoletano in compagnia del francese Pierrick Fédrigo, al termine di una fuga lunga e combattuta, col gruppo trainato dalla Liquigas che cerca di rientrare fino all’ultimo metro. Totò è favorito, parte ai -150 metri, ma ha un rapporto troppo duro, e il suo compagno d’avventura lo passa, lo beffa, lo scaraventa nella disperazione. Uno dei momenti più duri nella carriera di questo bravo corridore, una vita sempre in fuga, sempre all’attacco, sempre pronto a sorprendere.

Nato a Torre del Greco, cittadina della provincia napoletana, il 28 marzo 1975, Salvatore Commesso detto Totò non segue la strada abituale dei giovani di quelle parti, una strada a forma di pallone da calcio: gli piace andare in bici, gli piace pedalare, e allora inizia a correre con la squadra degli zii paterni, il GS Macelleria Fratelli Commesso, nella categoria Esordienti, appena undicenne. Ma nel nostro Meridione il ciclismo non è così sviluppato e seguito come in Toscana, in Veneto e in Lombardia: le corse sono poche, e le trasferte da sobbarcarsi per mettere a frutto questa grande passione sono enormi e dispendiose. Per chi vuole fare il corridore professionista, l’unica via percorribile è emigrare al Nord, lasciandosi tutto alle spalle, inseguendo il proprio sogno. Totò non si tira indietro: d’estate va sempre a Cesana Brianza, nel lecchese, dove abitano alcuni parenti, e nel 1989 trasferisce definitivamente la sua residenza a Pusiano, sempre da quelle parti, tesserandosi per l’Unione Ciclistica Costamasnaga, in una realtà così diversa dalla sua Campania. In tre stagioni con la squadra brianzola conquista 25 successi, dando prova non solo di ottime doti da corridore, ma anche di un carattere allegro ed altruista che lo fanno stimare da tutti: con queste vittorie, e un buon numero di piazzamenti, si rende conto che il sogno di diventare professionista non è così irrealizzabile. Continua la trafila delle categorie giovanili, con società comasche e bergamasche: ai mondiali Under 23 del 1996, a Lugano, una sua lunga fuga spiana la strada alla tripletta azzurra, guidata dal suo corregionale Giuliano Figueras; nello stesso anno è campione regionale di categoria e la stagione successiva vince il titolo europeo e i Giochi del Mediterraneo.

Finalmente, nel 1998, dopo un percorso caratterizzato da sudore e sacrifici, Totò Commesso passa tra i professionisti, nella rossa Saeco di Re Leone Cipollini. Quello stesso anno vince una tappa al Giro del Capo, in Sudafrica, e coglie una serie di buoni piazzamenti, tra cui spiccano il terzo posto al Campionato di Zurigo e il quarto ad Amburgo in prove di Coppa del Mondo: questi risultati sono la conferma di come sia uno dei giovani più interessanti del panorama ciclistico italiano, dotato di una buona velocità negli sprint e soprattutto di una propensione all’attacco fuori dal comune. Il 1999, seconda stagione tra i pro, è forse la più bella per Commesso: il 28 giugno ad Arona si disputa il Campionato Nazionale e, dopo una corsa combattutissima, sul traguardo con vista sul Verbano si presentano in quattro, tre dei quali (Commesso, Petito e Celestino) in maglia Saeco. Proprio Celestino si sacrifica lanciando lo sprint ai compagni, e in volata Commesso sorprende tutti precedendo Petito, che non la prende propriamente bene perché quel giorno la squadra aveva lavorato per lui, e rimane stupito dall’esuberanza e da questa “mancanza di rispetto” dello scugnizzo napoletano. Comunque sia, Totò onora al meglio la maglia tricolore conquistata in queste condizioni un po’ particolari: al Tour de France dello stesso anno, nella tappa di Albi, il campione nazionale corona una fuga di ben 232 chilometri, precedendo in uno sprint senza storia l’altro azzurro Serpellini, e diventando così il primo napoletano di sempre ad imporsi in una frazione della Grande Boucle. In quell’anno, ad onor del vero, si macchia anche di una vicenda non propriamente onorevole, visto che alla Vuelta di Spagna reagisce agli insulti di uno spettatore con un cazzotto in diretta televisiva.

Tour de France e Tricolore, sono queste le corse della vita per il bravo Totò. Nel 2000, sempre in maglia Saeco, sempre alla corsa francese, stavolta sul traguardo tedesco di Friburgo, realizza un altro capolavoro: 242 chilometri di fuga, prima in compagnia e poi in coppia con il solo Vinokourov, puntualmente sconfitto nello sprint finale da questo napoletano piccolino (165 cm di statura) ma con due gambe che girano a meraviglia.

Nel 2002 invece, sulle strade trevigiane, dopo un paio di stagioni buie, segnate da soli due successi in Portogallo, la sua stella torna a splendere, vincendo il secondo campionato nazionale della sua vita, davanti a Dario Frigo e Francesco Casagrande. Quella stessa estate si aggiudica il Trofeo Matteotti e il Criterium d’Abruzzo, importanti classiche di metà stagione. Da lì in poi inizia una sorta di maledizione per questo corridore tanto amato dal pubblico: sempre all’attacco e sempre in fuga, non riuscirà più a trovare quella brillantezza e quella lucidità necessaria per vincere. Non si contano i suoi piazzamenti tra i primi cinque, tanto nelle frazioni di Giro e Tour quanto in svariate corse in linea: per sei, interminabili anni Commesso, che veste anche le maglie di Lampre e Tinkoff, insegue il successo senza ottenerlo, con punte di assoluto rammarico come quella descritta in apertura.

L’incantesimo si spezza in una tappa del Giro del Lussemburgo 2008 quando, con la divisa della piccola Preti Mangimi, può finalmente scatenare tutta la sua incontenibile gioia, tornando ad alzare le braccia al cielo dopo questa lunga e dolorosa astinenza. E’ l’ultimo squillo in carriera per questo simbolo della Campania ciclistica, che chiude la sua avventura da professionista accasandosi per due stagioni alla Meridiana-Kalev, la prima squadra della storia con base nel nostro Meridione. Un atleta particolare, sempre all’attacco senza paura e spesso senza calcoli, capace in questo modo di guadagnarsi gli apprezzamenti degli addetti ai lavori e del grande pubblico, come solo i veri campioni sanno fare.