Dieci anni in gruppo, quasi sempre a tirare per i più blasonati capitani, ma con alcune grandi soddisfazioni personali come la vittoria in una tappa al Giro d’Italia e in un’altra al Tour de France. Tante stagioni in ammiraglia, a dirigere Marco Pantani e Mario Cipollini, giusto per citarne due. E poi il suo inconfondibile accento toscano è diventato un simbolo, una garanzia di qualità per gli appassionati italiani delle due ruote, grazie alle sue telecronache con Andrea Berton, sulle frequenze di Eurosport. Senza dimenticare anche la passione dell’ippica, condivisa con un altro grande ex del ciclismo come Claudio Chiappucci, che lo porta a trottare per gli ippodromi d’Italia. Riccardo Magrini, classe 1954 di Montecatini Terme, è questo e tanto altro.
Riccardo Magrini, una vita legata al ciclismo: cosa ti spinse a salire in bicicletta?
«Ho cominciato la mia avventura casualmente, grazie al cugino di mio padre che aveva una bici da corsa e faceva il cicloamatore. Dopo essere stato promosso, chiesi ai miei un motorino in regalo, ma loro, ritenendolo troppo pericoloso, preferirono darmi una bicicletta da corsa. Così un giorno chiesi a Lauro Monti detto “Canardo”,il mio parente, di portarmi con gli altri cicloamatori per vedere come fosse questo sport; pur senza forzare, li staccai tutti su una salitella, e proprio lui mi convinse a tentare la strada delle corse».
Com’era il Riccardo Magrini corridore? Qual è la vittoria che ricordi più volentieri?
«In gruppo mi chiamavano Jerry Lewis o Adriano Celentano, ma fondamentalmente per tutti ero il “Magro”, soprannome che mi è rimasto per sempre. Ero un corridore votato alla squadra, il classico gregario. Da dilettante andavo forte, e dopo la partecipazione ai Campionati del Mondo di Montreal nel 1974 sarei dovuto passare tra i professionisti, tuttavia rimasi ancora in quella categoria a causa di un inghippo regolamentare. Forse fu proprio questo episodio a condizionare tutta la mia carriera, ma comunque direi che è andata più che bene. La vittoria più bella? Beh, ho vinto solo tre gare e quindi le ricordo tutte volentieri: il Giro della Provincia di Reggio Calabria nel 1982, la tappa di Montefiascone al Giro d’Italia e quella di Île de Oléron al Tour de France nel 1983».
Poi sei salito in ammiraglia e hai diretto tanti grandi atleti: uno rimasto nel cuore in particolare?
«Un nome secco: Marco Pantani».
L’esperienza di Eurosport, al fianco di Andrea Berton: come valuti questo lavoro? Dovessi ripartire da capo, rifaresti tutto il tuo percorso professionale?
«È un’esperienza bellissima che ho sempre desiderato di fare, sin da ragazzo. Grazie ad Andrea Berton sto avendo un grande consenso da parte di tanti appassionati che ci seguono assiduamente ed evidentemente apprezzano il nostro modo di raccontare il ciclismo. Se rifarei tutto? Correggendo qualche episodio sì, ma comunque non ho grossi rimpianti».
Quanto è diverso il ciclismo di oggi da quello che hai vissuto come atleta?
«Forse sono cambiati i rapporti umani, ma in fin dei conti, sia che vai in bici per divertimento, sia che lo fai per lavoro, alla base deve esserci sempre una grande passione. Il ciclismo è un bello sport proprio per questo».
Una curiosità: la tua insana passione per Carlos Barredo (corridore spagnolo della Rabobank, ndr) da dove deriva?
«(ride) È tutto nato dal mio modo di accostare, a volte, il cognome di un atleta con quello di altri personaggi. Con Carlos è stato facile, perché da Barredo a Barreto cambia solo una consonante, e quindi per me è diventato “Carlos Marino Barredo jr” giocando sull’assonanza del suo nome con un noto cantante cubano degli anni cinquanta, ovvero Don Marino Barreto jr. Il resto lo ha fatto lui col suo modo di interpretare le corse. Quando ho avuto il piacere di incontrarlo, si è dimostrato veramente molto gentile: da qui è nata l’insana passione, che mi porta a “tifare” per lui durante le varie competizioni».
Qualcuno ti avrà anche detto, nel corso degli anni, di “darti all’ippica”: alla fine hai seguito il consiglio… meglio un cavallo o una bicicletta?
«Entrambe sono due grandi passioni. Il cavallo da corsa è l’atleta, esattamente come il ciclista, quindi avresti dovuto chiedermi di scegliere tra la bici e il Sulky. In quel caso ti avrei risposto così: che tutti e due hanno un sellino e le ruote, la differenza la fa proprio l’atleta, e io stimo sia il corridore, sia il cavallo. Come dico sempre in telecronaca, “Donne, Cavalli e Corridori non c’ha mai capito nulla nessuno!».