CITY: DOVE NON E’ IL MODULO A FARE LA DIFFERENZA

Nel corso di questa stagione ho avuto modo di seguire in più occasioni il City di Mancini. L’ultimo loro match che ho potuto vedere risale proprio a domenica quando i Citizens hanno fatto visita al Chelsea di Carlo Ancelotti per un derby della panchina tutto italiano vinto, piuttosto nettamente, dall’ex allenatore di Parma, Juventus e Milan.

La motivazione per la quale tra tante squadre ho scelto di seguire con discreta costanza proprio quella presieduta dallo sceicco Khaldoon Al Mubarak è semplice e facilmente intuibile: la curiosità suscitata in me da una compagine ricca di talento ma costruita un po’ a mo’ di raccolta delle figurine era tanta e la volontà di provare a capire quanto il tecnico jesino sarebbe stato in grado di amalgamare un undici all’altezza anche maggiore.

Dopo averne seguito in più occasioni le gesta, quindi, posso affermare con tranquillità e fermezza come questo City più che una squadra sembri davvero un’accozzaglia di talenti un po’ improvvisata e raffazzonata, senza un’identità di gioco ben precisa, trascinata più da giocate personali dei singoli che dal collettivo. In tutto ciò la via d’uscita non sembra essere rappresentata dal modulo tattico perché non tutto, nel calcio, è una questione di numeri. Si debbono infatti costruire degli equilibri che vanno al di là di questo. Non per nulla ad oggi il Mancio ha tentato diverse alternative, ma senza riuscire ancora a far quadrare il cerchio.

Principalmente il City si schiera con una sorta di 4-3-2-1 composto da una classica linea difensiva a quattro, un centrocampo folto e muscolare tendenzialmente schierato con tre mediani, due ali schierate all’altezza della trequarti ed una sola punta di ruolo. In altri casi, però, le ali vengono avanzate all’altezza dell’attaccante di modo da trasformare il tutto in un 4-3-3 più classico. Più raramente, poi, ecco la squadra schierarsi con un più lineare 4-4-2, come in occasione del match di FA Cup dello scorso febbraio con il Notts County, quando i Citizens si schierarono con la coppia Dzeko-Balotelli davanti ed un centrocampo in linea con Tourè e Vieira centrali e Kolarov-Silva esterni.

In tutto ciò, però, il City continua a non avere la giusta quadratura, né, soprattutto, una fluidità di manovra degna di una squadra che si rispetti, a maggior ragione quando così talentuosa. E non sarà un ennesimo cambio di modulo a sistemare le cose. In situazioni come queste pesa quindi molto il lavoro del mister, che in Inghilterra è poi un manager a tutto tondo. Perché alcuni dei punti negativi di questa squadra possiamo ritrovarli anche relativamente al lavoro svolto in sede di mercato: non sempre spendere tanto significa spendere bene, anzi. Ecco quindi come a gennaio sia stato acquistato, e per un bel po’ di soldi, Edin Dzeko dal Wolfsburg. A che pro, se poi la squadra viene schierata prevalentemente con Tevez unica punta? Prendiamo a campione proprio quest’ultimo mese di marzo: la punta bosniaca è partita titolare in due sole occasioni, di cui una, contro il Chelsea, in cui Tevez non era disponibile. Perché spendere trenta milioni di euro per un giocatore da relegare poi in panchina?

I problemi principali, a mio avviso, si riscontrano però proprio nel gioco di questa squadra. Al di là di moduli e singole scelte c’è bisogno, come detto, di costruire un’identità di gioco a questa squadra, che non può continuare ad essere tirata avanti dalle giocate dei suoi campioni. Vedere un Silva involversi in una situazione in cui non si sente né carne né pesce, una linea di mediani qualitativamente discreta ma in cui nessuno si prende la responsabilità di dettare i ritmi, giocatori come Milner e Wright Phillips non fare nulla più del proprio compitino o un gioco di sovrapposizione sulle fasce latitare dà bene l’idea dello stato delle cose.

L’unica possibile soluzione attuabile a questo punto sembrerebbe quindi essere un cambio di allenatore. Estromettere Mancini – a fine anno, beninteso – dalla guida della squadra per porre al suo posto un manager capace di dare un’impronta più chiara al proprio team. Del resto, senza voler essere eccessivamente duro nei confronti dell’ex tecnico interista, le sue squadre non hanno mai brillato in quanto a gioco. I risultati in passato sono sì arrivati, ma personalmente non ho mai apprezzato troppo il suo modo di gestire una squadra. Sostituire Mancini con un allenatore più capace di dare un’impronta alla propria squadra, come uno Spalletti o un Hiddink per dirne due, potrebbe quindi far effettuare un bel salto di qualità a questa compagine. Spendendo bene i propri soldi sul mercato, poi, ecco che si arriverebbe in breve ad una serissima contender per Premier e Champions League.

QUANDO FRANCO COMMISSARIÒ IL BARCELLONA

Ritrovato da “La Vanguardia” il primo statuto del Barcellona dopo la guerra civile, che sancì la sua sottomissione al regime franchista.

“Il Barça è l’esercito disarmato della Catalogna.” (Manuel VázquezMontalbán, 1999)

Per la Catalogna la caduta di Barcellona il 26 gennaio 1939, e l’entrata in città dell’esercito falangista del generale Franco, non era stata soltanto il capolinea della democrazia, ma aveva significato anche la fine di ogni autonomia e l’inizio di un lungo periodo di sottomissione pressoché assoluta nei confronti del potere centrale.

Il Fútbol Club Barcelona era stato nel ventennio precedente uno dei simboli principali dell’orgoglio catalano, soprattutto durante gli anni venti. Non a caso, il 14 giugno 1926, all’epoca della dittatura del generale Primo de Rivera, i sessantamila presenti allo stadio barcellonese di Les Corts avevano fischiato all’unisono l’esecuzione della Marcha Real, l’inno nazionale spagnolo, e avevano applaudito quella di God Save the King.

Le autorità militari non potevano accettare l’accaduto con spirito di tolleranza. Dopo avere rispedito nella sua patria svizzera il presidente e fondatore Joan Gamper, avevano squalificato il Barcellona per sei mesi, spingendolo ad un passo dalla bancarotta, da cui si era salvato solo grazie all’intervento delle banche catalane e alla raccolta di fondi dei tifosi. Con l’avvento dell’effimera seconda repubblica, il ritorno della libertà in Catalogna, come del resto in tutto il paese, aveva strappato al Barcellona il ruolo di valvola di sfogo della frustrazione politica, riportando i tifosi in un ambito più strettamente calcistico.

E sempre più coinvolti dai fatti politici, i tifosi-soci della squadra, che erano oltre 12mila a metà degli anni venti,avevano cominciato a distaccarsi, per poi crollare a poco più di duemila durante gli anni della guerra civile, quando le attività sportive erano ormai ridotte al rango di incontri ufficiosi. La maggior parte dei sostenitori erano impegnati nei combattimenti, e altri ancora avevano dovuto riparare oltre confine, in Francia. Per il club catalano era stato un periodo devastante: il 6 agosto 1936 il suo presidente Josep Sunyol, un industriale dello zucchero di fede repubblicana, era stato catturato dai franchisti nella Sierra di Guadarrama,e lì fucilato senza processo; poi poco meno di due anni dopo, la storica sede sociale in Calle Consell de Cent era stata colpita da un bombardamento aereo notturno che l’aveva completamente distrutta.

È quindi facile immaginare in quale situazione disastrosa potesse trovarsi il Barcellona al momento dell’ingresso in città delle truppe di Franco. Solo lo stadio di Les Corts, adibito a deposito di munizioni durante la guerra civile, era potuto rimanere intatto, grazie all’abbandono delle milizie repubblicane, senza opposizione di resistenza, all’esercito falangista. In un tale contesto, epurare la dirigenza del club da tutti gli elementi sgraditi al regime risultò quindi un’operazione facilissima, e nell’aprile del 1939 era stata formata una commissione con l’incarico di preparare il terreno per una futura gestione. Anche se questa commissione era composta prevalentemente da membri scelti tra i soci della squadra, le era stato affiancato un capitano della Guardia Civil, che riferiva puntualmente l’andamento dei lavori agli organi del governo centrale.

Sotto una simile pressione, in meno di un anno la missione poté definirsi compiuta, e fu possibile reclutare un nuovo presidente e una nuova giunta direttiva, che avrebbero dovuto sradicare l’anima catalana dal Fútbol ClubBarcelona. Il nome del primo presidente del Barça,nominato direttamente da Madrid, per l’esattezza dal Consiglio Nazionale dello Sport, doveva avere innanzitutto delle credenziali di fedeltà assoluta al regime; e a questo fine la scelta era caduta suun capitano dell’esercito di cinquantasette anni in ottimi rapporti con il generale José Moscardó: Enrique Piñeyro Queralt, Marchese de la Mesa de Asta, per il quale il calcio era chiaro come un’equazione differenziale di secondo grado.

Lo zelante marchese de la Mesa de Asta si mise immediatamente in moto per stilare un nuovo statuto del club che cancellasse con un colpo di spugna ogni residua traccia di democrazia e indipendentismo. Riuscì a redarlo in tre mesi, presentandolo al Consiglioil 12 giugno del 1940, e dopo oltre settant’anni di oblio, questo statuto è stato rinvenutolo scorso 11 marzo dalla redazione sportiva del quotidiano catalano La Vanguardia.

Con questo statuto, l’anima del club azulgrana veniva completamente stravolta, a cominciare dall’emblema, dal quale veniva cancellata la senyera, la bandiera catalana, sostituita da due strisce rosse verticali su campo giallo, sullo stile di quella della Spagna. Anche la composizione del consiglio direttivo subiva una trasformazione sostanziale, e non veniva più richiesto che i suoi membri fossero necessariamente soci del club. Ma il vero colpo di scure si abbatteva sulle modalità di elezione del presidente, che venivano abrogate in toto, e sostituite con la nomina diretta da parte della federazione calcistica spagnola, a propria volta poco più che un’appendice del governo.

In un articolo seccessivo si dichiarava che il club poteva anche venire sciolto con una semplice decisione della federazione calcistica, e lo stadio di Les Corts passava di mano, a beneficio dei rivali dell’Espanyol, squadra dal passato (e anche dal nome) decisamente più rassicurante per i nuovi governanti.La ciliegina sulla torta era stato poi il cambio della ragione sociale del club che, eliminando ogni anglicismo, da Fútbol Club Barcelona diventava Club de FútbolBarcelona.

Il mandato del marchese de Asta sarebbe durato tre anni, e dal punto di vista dei risultati fu tutt’altro che deludente: i soci vennero quadruplicati, ritornando a superare quota diecimila, e i giocatori in esilio in Francia vennero amnistiati, potendo ritornare a difendere i colori del Barcellona. Certamente, nelle cerimonie ufficiali la piaggeria nei confronti del regime poteva dirompere in tutta la sua voluttà, come dimostra questo discorso di Enrique Pineyro datato 30 giugno 1942:

“Il Club de FútbolBarcelona dimostrerà fino a che punto il nostro glorioso Caudillo Franco ha ridato vita al cuore della Spagna e di tante migliaia di bravi spagnoli nati in Catalogna, che sentono un così grande amore per i destini immortali della nostra amata patria.”

Ma il marchese ebbe occasione di riscattare la propria dignità in occasione della scandalosa partita di ritorno della semifinale di Copa del Generalissimo del 13 giugno 1943, contro il Real Madrid, quando dopo avere vinto l’incontro di andata per 3-0 in casa, i giocatori del Barça furono oggetto di un autentico linciaggio mediatico e di una sequela di minacce. Complice anche un arbitraggio oltre i limiti della decenza, la squadra catalana capitolò per 11-1 contro i rivali madridisti, e, oltre al danno anche la beffa, dovette anche sopportare una multa di 25mila pesetas,rea di turbamento dell’ordine pubblico.

Il presidente Mesa de Asta protestò contro l’accaduto presso le massime autorità sportive, ma trovandosi sbarrate tutte le porte, due mesi dopo rassegnò le dimissioni, che segnarono anche il suo parziale riscatto di fronte alla storia del club.

C’ERAVAMO TANTO ODIATI

Si va verso un possibile ingresso dei serbi nella Jadranska Liga, dove giocano croati, montenegrini e sloveni.

La vecchia Jugoslavia di Tito è un ricordo ormai sbiadito: quel paese rivive solo nelle menti di chi è cresciuto negli anni Settanta e Ottanta, nelle mappe ingiallite degli atlanti stampati in quel periodo. La vecchia Jugoslavia unita rimase sotto le macerie della guerra che scoppiò nei Balcani venti anni fa, vittima del nazionalismo che fece la sua avanzata nei vari paesi: ognuno va avanti per la propria strada, covando l’odio per i vicini di casa che, fino al giorno prima, erano da considerarsi fratelli. Eppure, venti anni dopo, lo sport sembra riunire di nuovo, idealmente, sotto un’unica bandiera gli stati balcanici.

Risale, infatti, a qualche settimana fa la proposta dei vertici della Federnuoto serba di iscrivere tre delle loro squadre alla Jadranska Liga, la Lega Adriatica. Nato nel 2008-09, è un campionato che comprende squadre di Croazia, Montenegro e Slovenia, istituito con l’intento di dare maggior visibilità alla pallanuoto, grazie alla garanzia di un campionato più incerto e spettacolare e dal maggior tasso tecnico. L’idea di un campionato internazionale nei Balcani l’aveva già partorita Aleksandr Šoštar, oggi presidente del Partizan Belgrado, ai tempi dell’Europeo di Kranj ma venne concretizzata solamente cinque anni più tardi. La nuova proposta incontra immediatamente i favori di dodici diverse squadre, di cui otto dalla Croazia, tre dal Montenegro ed uno dalla Slovenia: la prima, storica squadra vincitrice è lo Jug Dubrovnik e la Lega Adriatica tutto sommato piace. Tanto più che gli incontri tra squadre croate sono ritenuti validi ai fini anche della massima divisione nazionale. E, se la vecchia Jugoslavia fosse ancor oggi un’unica entità, la Jadranska Liga sarebbe il suo campionato (quasi) perfetto. Quasi, perché viene tagliata fuori la Serbia, espressione di una delle principali scuole pallanotistiche dei Balcani, inizialmente inclusa nel progetto assieme a Grecia ed Ungheria.

E Belgrado, assieme ad altri paesi rimasti ai margini della neonata Lega Adriatica, decide di formare un altro campionato sovranazionale: l’Euro Interliga. L’Ungheria, schierando sei squadre, è la nazione più presente: completano il plotone delle partecipanti due serbe – Partizan e Vojvodina -, una rumena – Oradea – ed una slovacca – Hornets Košice. Anche in questo caso alcune partite, nella fattispecie quelle tra squadre ungheresi, hanno un valore anche nel rispettivo campionato nazionale. Lo scontro tra la scuola magiara e quella balcanica rende accattivante l’Euro Interliga, ma in acqua non c’è storia: trionfa il Partizan, vincendo tutte le diciotto partite in calendario. E anche nel campionato serbo il divario tra i grandi squadroni della capitale ed il resto della concorrenza è netto, abissale. Intanto la Jadranska Liga si amplia con l’ingresso dei montenegrini dell’Akadimija Kotor, che a primavera alzeranno la Coppa LEN.

Riparte, poi, una nuova stagione. Quella in corso. In Serbia nessuno riesce a detronizzare il Partizan: i bianconeri colonizzano il campionato già dopo sei giornate, senza mai incappare in una sconfitta o anche soltanto in un pareggio. Dietro provano a tenere (inutilmente) lo stesso passo la Stella Rossa ed il Vojvodina di Novi Sad. Poi il vuoto, con Belgrado e Žak che si contendono il penultimo posto e con il Niš ancorato nei bassifondi della classifica. Gli stimoli sembrerebbero venir meno.

I massimi organi della pallanuoto serba, dunque, decidono di fare uno storico passo in avanti: chiedono alla Jadranska Liga di far partecipare anche Partizan, Stella Rossa e Vojvodina al prossimo campionato. A Zagabria si riuniscono il segretario generale Marko Stefanović, il direttore tecnico Darko Udovičić ed il presidente della commissione internazionale Đorđe Perišić in rappresentanza dei serbi e gli ex campioni Perica Bukić, Milivoje Bebič e Tomislav Paškvalin come delegati della Jadranska Liga. Entrambe le parti fiutano l’affare: con l’ingresso di tre nuove squadre di indiscutibile valore il campionato ne gioverebbe in termini di spettacolo. Con conseguente aumento di pubblico e, possibilmente, di sponsorizzazioni. Non solo: si tratterebbe di una riunificazione – seppur non riconosciuta in ambito politico – di gran parte della vecchia Jugoslavia. E non può non balzare alla mente quanto accadde nel 1991, quando la nazionale maschile vinse i Mondiali di Perth e, qualche mese dopo, agli Europei di Atene dovette rinunciare ai suoi giocatori croati e sloveni: le rispettive federazioni sportive avevano infatti impedito ai loro atleti di gareggiare in qualsiasi competizione sotto la bandiera jugoslava.

Il nodo da sciogliere è quello economico: portare la Lega Adriatica a sedici squadre comporta un aumento delle partite da giocare e, soprattutto, dei costi. Ma a Zagabria non sembrano sussistere motivi per impedire l’apertura della Jadranska anche ai club serbi. La pallanuoto europea può crescere e salire ulteriormente alla ribalta. E, forse, anche ricucire qualche strappo nella rattoppata terra dei Balcani.

QUANDO LO SPORT HA FATTO L’ITALIA

Oggi si festeggiano i 150 anni dell’unità nazionale: un secolo e mezzo di storia in cui lo sport ha scritto pagine importanti.

A 150 anni di distanza dalla data simbolica scelta per celebrare l’unità d’Italia possiamo con certezza affermare che lo sport non è stato un fattore neutrale, ma ha contribuito costantemente nel definire e ridefinire l’identità italiana. Del resto siamo il paese in cui il quotidiano più venduto è la Gazzetta dello Sport e l’inno di Mameli e il tricolore sono suonati e sventolati principalmente in occasione di eventi sportivi.

Quali sono stati nel corso della storia i 10 momenti più significativi per l’identità italiana? Ecco una personalissima classifica tenendo conto delle diverse discipline e delle differenti epoche storiche.

 

10 L’ITALIA VINCE LA COPPA DAVIS IN CILE (1976)

Grazie a una generazione d’oro rappresentata da Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Antonio Zugarelli e Adriano Panatta, il tennis italiano da sport borghese diventa popolare. Panatta, il D’Artagnan fra i moschettieri azzurri, quell’anno vinse anche gli internazionali di Roma e il Rolland Garros.

Fino alla finale, conquistata sconfiggendo la Yugoslavia, la Svezia, il Regno Unito e l’Australia, il cammino degli azzurri è un’apoteosi; il gota del tennis mondiale si deve inchinare agli alfieri azzurri. Il rivale della finale però crea maggiori problemi dal punto di vista politico che non sportivo. Il Cile di Fillol e Cornejo non fa paura ma pone la questione sull’opportunità di giocare in un paese con cui si sono rotte le relazioni diplomatiche e a pochi metri di distanza da uno stadio usato fino a poco tempo prima come campo di concentramento dal regime di Pinochet.

La società civile si mobilita per chiedere il boicottaggio, il Coni e la Fit si muovono nell’ombra per non perdere una vittoria certa, mentre il governo temporeggia difendendosi dietro lo slogan dell’indipendenza dello sport dalla politica. Alla fine gli azzurri vanno in Cile dove vincono facilmente, ma vengono boicottati da parte della stampa tanto che la provocatoria maglietta rossa indossata da Panatta e Bertolucci nella prima parte del doppio non viene neppure citata nei principali quotidiani sportivi. Il trionfo di Santiago 1976 rappresenta allo stesso tempo l’apice del tennis italiano, ma anche uno dei principali momenti in cui le implicazioni politiche veicolate dallo sport hanno provocato la reazione dell’opinione pubblica.

 

9 I DUE ORI DI ALBERTO TOMBA ALLE OLIMPIADI DI CALGARY (1988)

L’anno precedente aveva vinto un bronzo ai mondiali ma alle Olimpiadi di Calgary Alberto Tomba fece un capolavoro conquistando due ori. Il 25 febbraio sfruttando al meglio il pettorale numero 1 vinse lo slalom gigante con un vantaggio abissale su Strolz e Zurbriggen; due giorni dopo conquistò in rimonta anche lo slalom speciale. In quell’occasione l’Italia intera, Festival di Sanremo compreso, si fermò per accompagnare la discesa di Albertone.

Le vittorie di questo ragazzo degli Appennini cancellarono la credenza per cui  solamente gli abitanti delle valli alpine potevano eccellere in questa disciplina. La saga di “Tomba la Bomba”, che smise ben presto di partecipare ai super giganti e alle discese libere perché “la mamma non vuole”, continuò per tutti gli anni Novanta. Arrivarono altre tre medaglie olimpiche e altrettante mondiali, quattro coppe di specialità, sia in gigante sia nello speciale, e soprattutto la coppa del mondo del 1995.

Più ancora dei trionfi di Zeno Colò e Gustav Thöni  furono soprattutto quelli di Tomba che permisero allo sci di uscire dalle Alpi, diventando in tutto e per tutto lo sport per eccellenza delle vacanze natalizie degli italiani.

 

8 IL MONDIALE DI CALCIO IN GERMANIA (2006)

La vittoria del Mondiale di calcio del 2006 è un fulmine a ciel sereno, una saettata d’orgoglio nazionale: inaspettata, intensa e fugace. Sono passati 5 anni e sembra già un’eternità.

L’Italia calcistica si era trovata nel pieno dello scandalo di corruzione ribattezzato Calciopoli; quella politica si appoggiava sul voto dei senatori a vita per poter legiferare. La vittoria è il trionfo dello stereotipo calcistico italiano costruito su una grande difesa e in cui a risultare decisivi non sono i campioni più attesi (Totti, Del Piero, Toni, Gilardino) bensì i gregari e le seconde linee (Grosso e Materazzi).

Dal punto di vista dell’identità nazionale la vittoria del mondiale appare per alcuni mesi una speranza di rinascita, ancor più perché le vittorie decisive giungono contro Francia e Germania, due paesi verso cui il gap economico tende ad allargarsi, ma non è che un’illusione poiché anche il calcio, nel quinquennio successivo seguirà il declino del paese. Senza un’adeguata programmazione e un investimento sui vivai, il futuro dell’Italia (non solo calcistica) difficilmente potrà essere roseo.

 

7 IL TITOLO MONDIALE DI PRIMO CARNERA (1933)

Primo Carnera è l’atleta che prima di ogni altro ha contribuito al successo del pugilato in Italia. Iniziò la carriera come fenomeno da baraccone funzionale alle esigenze della malavita italo-americana. Col tempo però affinò la tecnica e divenne un ottimo pugile. Grazie alle vittorie su Uzkudum e Schaaf (che morì 4 giorni dopo il combattimento per la somma dei pugni subiti da Carnera e Baer) Carnera smise di essere un simbolo solo per gli italo-americani e venne adottato anche dal regime fascista. Nel 1933 raggiunse l’apice della propria carriera quando sfidò Jack Sharkey al Madison Square Garden per il mondiale, mettendo K.O. il pugile americano alla sesta ripresa, conquistando così il titolo.

Carnera mantenne la corona contro Uzducum ma nel 1934, dopo la sconfitta con Baer, iniziò la sua parabola discendente. Per volere del regime fascista, che aveva scelto il pugile per autorappresentarsi, i giornali ne oscurarono il declino fino a farlo cadere nell’oblio.

Il gigante buono e ingenuo, raggirato dai manager e strumentalizzato dal regime, resta però il capostipite di una tradizione pugilistica italiana che ha prodotto campioni come Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e Roberto Cammarelle.

 

6 IL RECORD DEL MONDO DI MENNEA (1979)

Nonostante dei riflessi alla partenza non certo felini e uno stile di corsa giudicata dai puristi brutto, sgraziato e rigido, Pietro Mennea da Barletta, con la sua progressione di corsa inimitabile, è stato il più grande atleta italiano che abbia calpestato le piste d’atletica. Professionista dell’allenamento nel quale si sottoponeva con carichi di lavoro impressionanti, Mennea incarnava la rabbia di un sud Italia povero di infrastrutture ma dalla grande passione sportiva.

Il 12 settembre 1979 alle Universiadi di Città del Messico vinse i 200 metri in 19’’72, un record del mondo che resistette per ben 17 anni quando fu superato da un altro grandissimo della disciplina, Michael Johnson. Mennea certificò quel record aggiudicandosi l’oro alle Olimpiadi di Mosca del 1980.

Il piccolo velocista bianco capace di competere alla pari con i fenomeni americani oltre a tre medaglie olimpiche, due mondiali e 6 europee, non solo è un pluri-laureato, euro-parlamentare e avvocato di successo, ma probabilmente è stato uno dei grandi dirigenti sportivi mancati del nostro paese.

 

5 LE OLIMPIADI DI ROMA (1960)

Dopo le Olimpiadi invernali di Cortina 1956 quelle di Roma del 1960 (assegnate nel 1965) certificano la ritrovata credibilità dell’Italia all’interno della comunità internazionale.

Le Olimpiadi italiane giungono nel pieno del boom economico, mostrano la grandezza architettonica di Pierluigi Nervi e, sfruttando preparati dirigenti e tecnici sportivi (alcuni dei quali nostalgici del regime), portano un bottino di  36 medaglie (13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo). Fra esse brillano quelle di Livio Berruti sui 200 metri, Musso – Benvenuti – de Piccoli nella boxe, del settebello, Delfino nella spada e le sette nel ciclismo.

Anche se le Olimpiadi sono segnate dalla morte del ciclista Enemark Jensen, notizia sostanzialmente taciuta e censurata dalla stampa italiana, l’“Olimpiade dal volto umano” impressiona gli osservatori stranieri per l’efficienza messa in campo da un paese troppo spesso sottovalutato.

 

4 LA TRAGEDIA DEL SUPERGA (1949)

Il 4 maggio del 1949 è una data maledetta. Il trimotore Fiat G 212 di ritorno da Lisbona alle 17.03 si schianta contro il colle che ospita la Basilica di Superga, non ci sono sopravvissuti. Fra le 31 vittime 18 sono calciatori del Torino: Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti e Julius Schubert. Centinaia di migliaia di persone vollero omaggiare quella squadra a cui fu assegnato il 5° scudetto. Un anno più tardi la nazionale di calcio, piuttosto che prendere l’aero, affrontò una lunghissima trasferta in nave.

Dopo la distruzione causata dalla guerra e dall’oppressione del ventennio fascista, dal 1946 a quella luttuosa giornata il “Grande Torino”, con il suo gioco spumeggiante e i suoi successi, aveva incarnato i desideri di rinascita degli italiani.

Lo schianto del 1949 privò il calcio italiano della sua gioventù migliore. Montanelli scrisse: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta»

 

3 LA MARATONA DI DORANDO PIETRI (1908)

Il 24 luglio 1908 si disputa la maratona, gara principale delle Olimpiadi di Londra del 1908; fra i partecipanti c’è un baffuto corridore di Carpi che di mestiere fa il garzone. A dispetto dei pronostici quando entra nel White City Stadium si ritrova con un vantaggio abissale sui rivali e la folla lo accoglie con un’ovazione. Dorando Pietri però non corre più, ciondola accecato dalla stricnina (sostanza allora presa comunemente da tutti i corridori) e prende la direzione sbagliata collassando a terra più volte. Incitato dalla folla e sorretto da un megafonista e da un medico, impiega 10 minuti a compiere gli ultimi metri e dopo aver tagliato la linea del traguardo crolla a terra. L’aiuto ricevuto gli costa la squalifica ma quando l’indomani riprese conoscenza fu ricoperto di elogi, fiori e regali fra cui quello della Regina Alessandra che, poiché non era stato responsabile della propria squalifica, lo omaggiò con una coppa piena di sterline.

La stampa italiana diede per la prima volta grande risalto all’evento e il carpigiano, autore di un’impresa che neppure i giudici poterono cancellare, divenne così la prima leggenda, celebrata tutt’oggi, dello sport italiano.

 

2 IL MONDIALE DI SPAGNA (1982)

Mettiamo da una parte l’immagine di Mussolini che pontifica il successo (con annesso saluto romano) della nazionale italiana ai Mondiali del 1934 (poi ripetuto nel 1938 e alle Olimpiadi del 1936) e dall’altra il presidente della repubblica Sandro Petrini che, dopo aver celebrato il successo azzurro, gioca a scopa con Zoff, Causio e Bearzot; la differenza fra i successi degli anni ‘30 e quello degli anni ‘80 sta tutta qui.

Anche la modalità con cui venne raggiunto questo successo contribuisce ad accrescere il mito del Mondiale dell’82. Dopo un quadriennio di critiche e una qualificazione alla seconda fase ottenuta da tre striminziti pareggi, la squadra italiana fece quadrato, dichiarando il silenzio stampa, e da brutto anatroccolo si trasformò in un cigno. Grazie ai goal di Paolo Rossi e alle serpentine di Bruno Conti l’Italia si laureò per la terza volta campione del mondo, sconfiggendo nell’ordine: Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest. La vittoria calcistica e il triplice “campioni del mondo” urlato dal telecronista Nando Martellini certificarono la fine della crisi degli anni Settanta e l’inizio di una stagione di benessere diffuso, basato sul debito, e incarnato dalla “Milano da bere”.

 

1 GINO BARTALI CHE VINCENDO IL TOUR “SALVA” L’ITALIA DALLA GUERRA CIVILE (1948)

Bartali, come Carnera, è stato uno di quei simboli sportivi che il fascismo aveva fatto propri. Ginettaccio però, vicino all’Azione Cattolica, non sostenne mai, neppure simbolicamente il partito fascista, evitando di posare in camicia nera o di prestarsi al saluto romano. Nel 1938, quando vinse il suo primo Tour de France, venne ampiamente strumentalizzato dal regime fascista.

La guerra privò Bartali dei suoi anni migliori ma portò in Italia la democrazia. Il dopoguerra di Ginettaccio fu segnato dal rifiuto di candidarsi con la DC, dalla rivalità (più nell’immaginario collettivo che non nella realtà) con Fausto Coppi e da un sogno: rivincere il Tour de France a 10 anni di distanza. “È troppo vecchio” dissero in tanti, ma le critiche aprioristiche non fecero altro che caricare la cattiveria agonistica del testardo campione toscano.

Nell’aprile del 1948 si erano tenute le prime elezioni della Repubblica italiana, vinte dalla Democrazia Cristiana ma le tensioni interne e internazionali contribuivano ad accrescere il clima di divisione in seno al paese. Gino partì alla volta del Tour, accordandosi con Binda, suo “direttore sportivo”, per una partenza lenta volta a far credere che Bartali fosse fuori forma. Irritato per la poca considerazione nei suoi confronti e accusato da alcuni ciclisti di essere troppo vecchio, Gino andò a vincere la prima tappa facendo infuriare Binda. Dopo questa “bravata iniziale” Bartali seguì le direttive del suo stratega per far sì che i rivali, Bobet e Robic, si scannassero fra di loro. Dopo aver accumulato nelle prime tappe un ritardo di 20 minuti il campione toscano conquistò due importanti successi a Lourdes e a Tolosa, ma il 13 luglio, complice una foratura, finì vittima di una trappola ordita dai francesi che si allearono “fregandolo come un bischero” e ricacciandolo nuovamente a più di 20 minuti di ritardo.

Il giorno successivo era previsto riposo e, mentre Bartali rimuginava sulla tappa di Cannes, a Roma Antonio Pallante scaricò quattro colpi di rivoltella sul segretario del PCI Palmiro Togliatti, che, tifoso di Bartali, nei giorni precedenti si era personalmente assicurato che l’Unità sostenesse il ciclista toscano al di là dello stereotipo secondo cui la rivalità Coppi/Bartali fosse anche politica. Con Togliatti in fin di vita, le piazze si  riempirono e la Cigl proclamò lo sciopero generale. Non appena la notizia di un pericolo rivoluzionario arrivò a Cannes, i giornalisti italiani lasciarono il Tour e i gregari di Bartali, preoccupati per le loro famiglie, spinsero a fare altrettanto. Il toscanaccio era ormai convinto di aver perso il suo sogno di poter rivincere il Tour quando arrivò una telefonata di Alcide de Gasperi che chiese: «Pensi di poter vincere ancora il Tour? Sai, sarebbe importante. Non soltanto per te». Il giorno successivo Bartali fece l’impresa scalando in modo imperioso l’Izoard e recuperando quasi tutto il distacco su Bobet. Il 16 luglio era nuovamente in maglia gialla che portò orgogliosamente fino a Parigi.

Togliatti, che nel frattempo si era ripreso, dall’ospedale predicò la calma contribuendo in modo decisivo a smorzare il clima di guerra civile, ma chiese anche notizie di Bartali al Tour. La retorica cattolica non poteva certo concedere al proprio rivale politico il merito di aver salvato la democrazia dalla guerra civile; Bartali era un simbolo molto più adatto e per di più era amato, nonostante i niet dogmatici, anche a sinistra. Fu così che man mano che la minaccia rivoluzionaria retrocedeva, il mito di Bartali come salvatore della patria prese forma e si cristallizzò come leggenda nella storia italiana.

Articolo scritto per www.thepostinternazionale.it e pubblicato anche per www.pianeta-sport.net e www.centrostudiconi.it
(Le citazioni su Bartali sono tratte da Turrini, Bartali, L’uomo che salvò l’Italia pedalando, Milano, Mondadori, 2004 e Facchinetti, Bartali e Togliatti, Roma, Campagna Editoriale, 1981)

MILAN-BARI: SPUNTI DA STADIO

Milan-BariDomenica ho avuto l’onore ed il piacere di recarmi a San Siro, su invito della Gazzetta della Sport, in occasione dello scontro tra Milan e Bari, ovvero sia il più classico dei testa-coda. E proprio seguendo la partita dalle tribune anziché dalla televisione ho potuto fare caso a delle sfumature che vengono perse nel seguire i match da casa (va comunque altresì detto che ce ne sono altrettante che vengono invece perse nel guardare una partita allo stadio piuttosto che in tv). Ecco quindi qualche spunto interessante su cui mi è venuto da riflettere in merito a questo match.

Innanzitutto Van Bommel: giocatore ormai molto navigato, difatti, il centromediano metodista olandese mette tutta la sua esperienza al servizio della squadra. E se ciò è apprezzabile già seguendo il match comodamente spaparanzati in poltrona va detto che diventa ancor più palese dalle tribune. Splendido, in tal senso, vedere l’ex capitano del Bayern Monaco dare disposizioni ai compagni (quand’anche altrettanto esperti come Gattuso, giù fino agli esordienti come Merkel), sia in merito alle posizioni da tenere, che ai movimenti da eseguire che alla miglior gestione possibile del pallone. Intendiamoci: non sto certo dicendo di aver trovato il giocatore perfetto, ma ogni qual volta mi reco allo stadio ed ho l’opportunità di vedere dal vivo calciatori come lui resto sempre e comunque stregato dalla loro sagacia tattica. Così come un Messi nasce con la capacità di fare ciò che vuole palla al piede, del resto, ragazzi come Van Bommel nascono con un’intelligenza tattica superiore alla media. E quando la stessa si unisce ad un bagaglio esperitivo come il suo il gioco è fatto: ecco servito un ottimo direttore d’orchestra.

Dopo averne tessuto le lodi mi tocca però sottolinearne anche una gravissima mancanza. Per la più classica delle operazioni “un colpo al cerchio, uno alla botte”, quindi, ecco che non posso fare a meno di sottolineare il suo grave errore in occasione della rete barese. E qui va detta una cosa: lascia a bocca aperta vedere come Rudolf sia lasciato liberissimo di tagliare dall’out sinistro dell’area di rigore sino oltre al dischetto delle massime punizioni per poi colpire a rete incrociando il pallone in maniera imparabile per Abbiati. Il perché la punta ungherese possa compiere indisturbatamente tutto ciò è presto detto: il Milan marca a zona in situazione di calcio piazzato e nell’occasione specifica si viene a creare un buco laddove andrà ad infilarsi proprio l’ex Genoa che non venendo seguito da nessuno avrà gioco facile nel completare la sua manovra.
Difesa del Milan quantomeno rivedibile nell’occasione, quindi.

Ma perché le colpe maggiori le ha proprio uno dei giocatori tatticamente più intelligenti dell’undici di Allegri?
E’ presto detto: è proprio Van Bommel il giocatore ultimo cui Rudolf passa davanti nel suo tentativo di taglio. Ed è lui, quindi, che dovrebbe seguire l’avversario, impedendogli di entrare in possesso di palla sul tocco di Almiron o, quantomeno, di calciare agevolmente a rete. Il centrocampista Oranje, però, compie un peccato di sufficienza, nell’occasione e resta praticamente inchiodato al proprio posto, potendosi poi quindi solo limitare a seguire con lo sguardo il termine, nefasto, dell’azione. La sua reazione al goal mostra comunque chiaramente la sua grande intelligenza tattica: Mark capisce difatti subito di aver commesso un errore piuttosto grave, e si dispera. La frittata, però, è ormai fatta.

Interessante, tornando alla lettura tattica del gioco milanista, anche stare a guardare i movimenti dei tre d’attacco. Perché l’occhio della telecamera solitamente segue il pallone, facendo perdere tutto il resto. Ecco quindi che osservando il match dalle tribune si può notare subito come lo schieramento di base sia un classico 4-3-1-2 con Robinho alle spalle del duo Pato – Ibrahimovic ma anche che questo modulo non sia assolutamente rigido. I tre lì davanti, difatti, hanno tutti buona libertà di svariare, rendendo il gioco molto fluido da questo punto di vista. Ecco quindi che non deve stupire una situazione nella quale buttando l’occhio verso l’attacco rossonero, anche a palla piuttosto lontana, si possano trovare le due punte piuttosto larghe, con il presunto trequartista in posizione di prima punta. Scarsa rigidità nel mantenere una data posizione che comunque non sortisce grandissimi effetti: il Bari si difende infatti con dieci uomini (portiere compreso) praticamente sempre dietro la linea del pallone e la fluidità di movimento dei tre d’attacco non porta comunque il Milan a rendersi pericoloso con continuità, in special modo nel primo tempo.

Detto dell’attacco rossonero non posso quindi che chiudere parlando della fase difensiva barese (perché di quella offensiva mi verrebbe sinceramente difficile parlarne, non avendo, i pugliesi, prodotto praticamente nulla, nemmeno in contropiede), in particolar modo a quella del secondo tempo. Piuttosto incredibile, in tal senso, la disposizione tattica in fase di non possesso. Se sulla carta, ad esser buoni, potremmo dire che i Galletti si schieravano con un 4-5-1 di stampo prettamente difensivista ecco che la realtà dei fatti deve portarmi a parlare, più che altro, di un 6-3-1 quasi folle, che ha, a parer mio, consegnato il pareggio agli avversari. Fa un certo effetto, per altro, parlare di difesa a sei. Ma così è stato. Ogni qual volta i rossoneri superavano la metà campo, difatti, i quattro difensori in linea andavano a stringersi molto, portandosi tutti nello specchio dell’area e favorendo l’arretramento di due centrocampisti che allineandosi a loro andavano, appunto, a formare una difesa che folta è dir poco. A questo va poi aggiunto il fatto che nel contempo i tre giocatori rimasti a centrocampo si mettevano tutti a protezione della linea difensiva, andando a muoversi all’unisono verso destra o verso sinistra a seconda della zona in cui in quel momento stazionava la sfera.

Perché dico che quest’atteggiamento ha regalato il pareggio agli avversari?
Semplice. Non puoi regalare completamente un tempo di gioco. A maggior ragione quando ad un certo punto dello stesso ti ritrovi anche a giocare in superiorità numerica. Schierarsi con una difesa di questo tipo però vuol proprio dire quello: rinunciare a giocare e regalare completamente il pallino di gioco agli avversari, che a quel punto dovranno solo aspettare il momento buono per colpire. Momento che arriverà in tre diverse occasioni, perché poi, con tutto il rispetto, i difensori del Bari non sono nemmeno i fenomeni della situazione e prima o poi qualche buco te lo lasciano, quand’anche schierati a sei. Ecco quindi che dapprima Robinho è lasciato solo sul secondo palo e può colpire a rete su sponda aerea di Ibrahimovic, vedendosi però annullare il goal per fuorigioco millimetrico. Poi lo stesso svedese penetra centralmente su di un lancio stoppando, pare di braccio, per andare a bucare Gilet, anche questa volta inutilmente. Ed infine Antonini farsi lanciare da Emanuelson sull’out di sinistra riuscendo a penetrare la linea difensiva barese per crossare poi in mezzo all’area, dove Cassano sarà lasciato inspiegabilmente solo.

Difendersi ad oltranza è molto spesso controproducente. Farlo lasciando si creino queste falle è quasi deleterio.