CHRISTCHURCH INAGIBILE PER LA COPPA DEL MONDO?

Una nazione in silenzio, per due minuti: il primo marzo alle 12:51, una settimana precisa dopo il terremoto devastante che ha colpito la città di Christchurch il 22 febbraio, la Nuova Zelanda ha osservato due minuti di silenzio per le vittime. Oltre centocinquanta i decessi confermati – compresa Taneysha Prattley, una bambina di sole cinque settimane -, circa duecento i dispersi, quasi duemila i feriti a causa della scossa di magnitudo 6,3: un sisma già annunciato l’anno precedente da un evento di intensità maggiore (7,1 sulla scala Richter) che aveva colpito la regione senza però causare vittime. “Il 22 febbraio potrebbe essere il giorno più buio della storia della Nuova Zelanda” ha dichiarato John Key, primo ministro della nazione della Grande Nuvola Bianca.

Per Christchurch (Ōtautahi in lingua Māori), la seconda più grande città della Nuova Zelanda, si è trattato di un colpo durissimo anche dal punto di vista economico. Secondo la Protezione Civile neozelandese saranno oltre duemila le case che dovranno essere demolite in seguito a cedimenti strutturali, mentre il centro della città potrebbe essere riaperto solo a partire dal mese di dicembre: oltre 45% degli edifici cittadini sono correntemente inagibili. I danni sono stati stimati attorno ai sedici milioni di dollari neozelandesi (circa otto milioni e mezzo di euro) e il governo sta cercando di varare un disaster recovery plan per permettere all’economia della città di riavviarsi dopo un’esperienza così traumatica.

Uno dei grossi dubbi del futuro di Christchurch riguarda la Coppa del Mondo di rugby che si terrà in Nuova Zelanda a partire da settembre. Il Lancaster Park (ora noto come AMI Stadium per motivi di sponsorizzazione) avrebbe dovuto ospitare cinque incontri della fase a gironi (tra cui Australia – Italia dell’11 settembre) e due quarti di finale. La città di Christchurch è rimasta fino all’ultimo in lizza con Auckland per aggiudicarsi l’onore di ospitare le quattro gare finali (semifinali, finale per il terzo posto e finale), che andranno invece in scena all’Eden Park di Auckland. Una grossa opportunità per gli affari locali che però ora rischia di sfumare proprio a causa del sisma.

Murray McCully, ministro alla Coppa del Mondo del governo neozelandese, ha sottolineato la necessità di garantire la completa agibilità dell’impianto sportivo come condizione imprescindibile perché le sette gare possano disputarsi a Christchurch. Intervistato dal New Zealand Herald, McCully ha dichiarato: “Stiamo aspettando le relazioni da parte degli ingegneri. Stiamo lavorando con la convinzione che, se possiamo farlo accadere, lo faremo accadere. Abbiamo bisogno di sapere se lo stadio può essere approntato in tempo per ospitare le partite: solo dopo potremo affrontare le problematiche associate alla possibilità di ospitare persone a Christchurch e predisporre infrastrutture adeguate. Niente di tutto questo, però, può funzionare senza uno stadio”. L’ultima parola spetta all’International Rugby Union che, secondo quanto dichiarato da McCully, sta lavorando a stretto contatto con il governo neozelandese per affrontare le problematiche legate al terremoto. Aperto il 15 ottobre 1881, il Lancaster Stadium era recentemente stato allargato proprio in vista della Coppa del Mondo, arrivando a ospitare quasi quarantamila spettatori. Ora presenta danni strutturali alla Hadlee Stand e alla Deans Stand, oltre a seri problemi di liquefazione del terreno sia nel terreno circostante lo stadio sia sulla superficie di gioco. I danni subiti dallo stadio potrebbero richiedere mesi per essere sistemati. Il conto alla rovescia per l’inizio del torneo però concede solo altri 180 giorni.

E mentre i Crusaders, la squadra che rappresenta Christchurch e la provincia di Canterbury nel Super rugby, stanno cercando una nuova sede provvisoria (è stato scartato il Trafalgar Park della vicina Nelson, che non assicura una capienza adeguata) e hanno preso in considerazione la possibilità di disputare un incontro nello stadio londinese di Twickenham, in quello che sarebbe un potenziale colpo a livello di marketing, il primo ministro John Key ha insistito sull’importanza di garantire, se possibile, che le partite della Coppa del Mondo non vengano spostate in altre sedi: “Se potessimo ospitare la Coppa del Mondo a Christchurch, come intendiamo fare, questa sarebbe la cosa migliore: è forse un’ipotesi troppo azzardata, ma che aiuterebbe una città molto importante. Sarebbe una dimostrazione che Christchurch si è rialzata in piedi”. Il primo ministro ha anche vagliato la proposta di ospitare tifosi e squadre su navi da crociera, in modo da garantire un ritorno d’immagine, turistico ed economico alla città devastata dal sisma.

Martin Snedden, direttore del comitato organizzatore della Coppa del Mondo, ha escluso categoricamente la possibilità di spostare le sette partite in questione in territorio australiano: “Si è speculato che questa tragedia metta a repentaglio tutta la manifestazione o che alcune partite verranno spostate in Australia. Tutto ciò non è vero: la Coppa del Mondo 2011 prenderà luogo regolarmente e tutti gli incontri si giocheranno in Nuova Zelanda”. Snedden ha anche posto l’accento sulla necessità di non creare ulteriore disagio ai cittadini di Christchurch e non mettere la popolazione sotto ulteriore pressione”. Hamish Riach, capo dell’esecutivo della Canterbury Rugby Union ha dichiarato a Television New Zealand: “Al momento non sembra possibile che la nostra union possa ospitare alcunché. Abbiamo avuto per cinque anni l’obbiettivo di ospitare la Coppa del Mondo, un evento così promettente per la città e per tutta la regione, e di sicuro speriamo che quelle partite vengano giocate da noi. È troppo presto per dirlo, però: tutti stanno vivendo l’immediatezza di questo evento traumatico e i nostri pensieri sono concentrati su altri argomenti al momento”.

IL FUTURO NERAZZURRO SI FA SEMPRE PIU’ ROSEO

Difesa ferrea, centrocampo eclettico, attacco devastante. La ricetta della vittoria nerazzurra al Torneo di Viareggio

InterAlla fine ce l’hanno fatta. Pea ed i suoi ragazzi hanno saputo regalare all’Inter la sesta imposizione viareggina della propria storia, al termine di un Torneo giocato su livelli realmente molto alti. Difesa ferrea, centrocampo eclettico, attacco devastante. Ecco la ricetta della vittoria nerazzurra.

E quando al termine di una competizione ti ritrovi ad avere in rosa il miglior giocatore nonché capocannoniere (per quanto a parimerito con Giuseppe De Luca, trascinatore del Varese dei miracoli di Devis Mangia) ed il miglior portiere della stessa qualcosa – e di piuttosto importante – significa. Al solito sui premi individuali si potrebbe stare a discutere molto. In questa occasione forse meno rispetto a quello riguardante gli estremi difensori, con Bardi che è stato assolutamente maiuscolo, trascinante e decisivo, più rispetto a quello riguardante il migliore giocatore in assoluto, laddove diversi sono stati i ragazzi sicuramente meritevoli.

Inter che torna quindi a vincere un Torneo di Viareggio e lo fa con grandissima autorità. Prendiamo quindi la formazione scesa in campo nella finalissima disputata contro l’ottima Fiorentina di Renato Buso ed analizziamola, per scoprire un pochino meglio i segreti del meccanismo costruito ed oliato da Fulvio Pea. Beneamata schieratasi quindi con il solito 4-3-3 in cui spiccava però subito una presenza per così dire anomala: il giovane Marco Davide Faraoni, terzino destro sino alla scorsa stagione stella delle giovanili laziali, è infatti schierato ibridamente come ala offensiva in fase di possesso e quarto di centrocampo, all’occorrenza, in fase di non possesso. E proprio questa sarà una delle chiavi di volta della partita.

Ma andiamo con ordine. In porta confermatissimo, al solito, uno dei giovani portieri italiani che stanno attualmente meglio cavalcando la cresta dell’onda, quel Francesco Bardi prelevato solo la scorsa estate dal Livorno (guarda a caso la società la cui casa è proprio lo stadio in cui si è disputata la finalissima di quest’ultima Coppa Carnevale) cui ho personalmente già visto parare, nelle poche volte che ho avuto il piacere di vederlo giocare, ben quattro rigori. Il primo risale ad ormai un anno e mezzo fa circa quando il nostro, impegnato con l’under 17 dei classe ’92 al Mondiale nigeriano di categoria, venne chiamato in causa da Pasquale Salerno per sostituire il titolarissimo Mattia Perin, indisponibile in vista della gara da disputarsi contro gli Stati Uniti. Sceso in campo apparentemente senza grandi patemi il giovane Bardi disputerà una partita molto autoritaria, andando a contribuire fattivamente al passaggio del turno Azzurro in particolar modo con il rigore neutralizzato al cospetto di Jack McInerney, stella della formazione a stelle e strisce (ed attualmente in forza ai Philadelphia Union, squadra affiliata all’MLS). Il secondo l’ha invece neutralizzato nel corso dei quarti di finale di questo Viareggio al cospetto di uno dei migliori rigoristi al mondo della sua leva, quel Diego Polenta che, guarda caso, il Mondiale under 17 di cui sopra lo disputò, e da capitano, con la maglia Celeste dell’Uruguay. Il terzo ed il quarto, infine, li ha parati nel corso della semifinale contro l’Atalanta, quando proprio grazie a questi due interventi ha trascinato i suoi in finale. Grandi qualità per questo ragazzo, che proprio nell’opporsi ai calci piazzati dagli undici metri sembra avere una marcia in più.

A difesa dell’ultimo baluardo Nerazzurro, quindi, una linea a quattro ben assortita e, soprattutto, molto compatta. Non deve stupire, infatti, il fatto che questa squadra abbia subito, nel corso dell’intero Torneo, una sola rete. Parliamo del resto di giocatori di qualità che essendo tatticamente molto ben preparati hanno saputo ergere una vera e propria linea Maginot a difesa del fortino. Perno del reparto è stato indubbiamente il figlio d’arte Simone Benedetti: acquistato in comproprietà nel corso dell’ultima estate dal Torino il centrale scuola Granata ha mostrato doti caratteriali, d’eleganza e d’efficacia in marcatura che ne fanno un prospetto realmente interessante, fors’anche in ottica prima squadra. Sempre sicuro in ogni intervento, grande senso dell’anticipo, Simone ha mostrato una tranquillità fuori dal comune ed un carisma notevole. Proprio grazie a questo è stato quindi in grado di guidare al meglio la quasi perfetta retroguardia Nerazzurra.

Molto bene, comunque, hanno fatto anche entrambi i terzini: Felice Natalino e Cristiano Biraghi. Sempre attentissimi in fase difensiva, infatti, non hanno disdegnato nemmeno ad accompagnare i propri compagni in fase di propulsione, mantenendo comunque sempre e costantemente l’attenzione altissima e indirizzata rispetto ai propri compiti difensivi. Proprio il loro apporto è stato quindi fondamentale alla realizzazione di una solidità difensiva quasi perfetta. A livello personale, poi, da sottolineare come alla solita grandissima classe, dovuta ad una tecnica fuori dal comune (quantomeno per un difensore), il lamentino Natalino ha saputo abbinare anche una concentrazione assoluta, aspetto in cui in passato ha più volte difettato. La via intrapresa, insomma, è quella giusta. Un plauso va poi riservato anche al suo alter ego, Biraghi, che è stato perfetto praticamente in ogni chiusura. A completare il reparto difensivo è stato quindi il ceko Marek Kysela, diciottenne centrale difensivo nativo di Rokycany che grazie ai miglioramenti compiuti da dopo il suo sbarco a Milano si è dimostrato essere lo scudiero perfetto per Benedetti.

Il centrocampo, poi, è stato schierato fondamentalmente a tre, con una configurazione che ricorda un po’, per tornare su di un tema toccato in precedenza, quello che approntò Salerno proprio in quei Mondiali giovanili nigeriani del 2009. Esattamente come allora, infatti, Pea sceglie di mettere un regista dai piedi buoni come centrale e due mezz’ali con caratteristiche ben precise. Vediamole. Il mediano davanti alla difesa con compiti di impostazioni è, guarda caso, lo stesso: Lorenzo Crisetig, diciassettenne talento ormai da anni tra i più stimati tra gli addetti ai lavori, considerato, per così dire, il nuovo Pirlo di questa ultima covata Azzurra. Tecnica sopraffina, intelligenza tattica inusuale in un ragazzo così giovane e capacità di dettare i tempi propria dei grandi registi. Davvero un po’ tutto ciò che serve a chi si disimpegna in questo ruolo per ben comportarsi, facendo girare attorno a sé tutta la propria squadra. Le due mezz’ali, invece, sono state Romanò e Jirasek, rispettivamente a destra e a sinistra.

Perché quel paragone con l’under 17 del 2009? Semplice: da una parte un Romanò che per certi versi mi ha ricordato molto il De Vitis di quella nazionale. Mezz’ala tuttofare capace davvero di coprire una porzione di campo enorme garantendo quantità ma anche discreta qualità. Ad un’ottima capacità in fase di possesso, laddove ha aiutato molto i compagni a mantenere il giusto equilibrio di squadra (del resto per subire una sola rete deve esserci una fase difensiva globale impostata al meglio, il merito non può certo essere esclusivamente della retroguardia), ha difatti abbinato una buona continuità in fase propositiva e conclusiva. In più di un’occasione è stato lesto nel farsi trovare a ridosso dell’area di rigore, pronto a dare un’opzione in più al portatore di palla quanto a rifinire per un compagno (come nel caso della prima rete segnata da Dell’Agnello nella finale con la Fiorentina). Sulla sinistra, invece, ha agito Jirasek che ha ricordato un po’, tatticamente, il gioco di quel Fossati grande protagonista con la maglia dell’under 17 Azzurra due anni or sono. La qualità globale dell’ex Sparta Praga non è certo paragonabile a quella della stellina attualmente in forza alla Primavera Rossonera, ma nei movimenti in campo il buon Milan mi ha ricordato proprio il lavoro svolto da Marco Ezio allora.

Davanti, poi, un tridente atipico. Sulla destra, come detto, ha difatti giocato, sempre limitandoci alla finalissima, Marco Davide Faraoni, di professione terzino. Dotato di una buona propulsione offensiva, però, è stato sfruttato da Pea, come precedentemente già successo anche in precedenza, proprio da ala d’attacco. Ed è stata questa una delle chiavi di volta del match: il suo apporto in fase di non possesso è stato infatti superiore a quello che sarebbe potuto derivare dall’utilizzo, ad esempio, di un giocatore come Thiam. In alcuni casi, addirittura, il centrocampo interista si è potuto schierare a quattro, proprio con l’arretramento dell’ex Lazio sulla linea dei centrocampisti e con lo slittamento sulla fascia opposta di Jirasek. Schema camaleontico, potremmo dire, in quanto poi in fase di possesso il buon Marco ha fatto realmente l’ala, producendo per altro anche diversi spunti interessanti con i quali ha confermato le proprie capacità propulsive.

Tridente, quello Nerazzurro, completato da capitan Alibec e bomber Dell’Agnello. Il primo ha agito largo sulla sinistra, mettendo in mostra un atletismo importante ed una tecnica più che discreta. Per buona parte del primo tempo proprio l’abbinamento di queste due importanti caratteristiche l’hanno portato ad essere una vera e propria spina nel fianco della difesa Viola e non è un caso se proprio dalla sua parte è nata l’azione dell’1 a 0. Il secondo, invece, ha stazionato, al solito, al centro dell’attacco, come unico vero e proprio punto di riferimento della propria squadra. Centravanti forte fisicamente, Dell’Agnello, ma dalle caratteristiche tutto sommato atipiche. In diverse occasioni lo si è potuto infatti notare svariare lungo un po’ tutto il fronte dell’attacco, per tenere quanto più possibile impegnata la retroguardia avversaria. In molte movenze, poi, ricorda quel Marco Borriello che, per altro, par essere il giocatore cui si ispira. Non un vero e proprio centravanti boa, insomma. Ma comunque punta che, e lo ha dimostrato ampiamente, sa rendersi molto pericolosa in fase realizzativa.

Davvero una bella squadra, in definitiva, quest’Inter di Pea. E chissà che in un prossimo futuro qualcuno di questi ragazzi non possa tornare utile anche per la prima squadra…

ROBERTO LAISEKA, CUORE BASCO

Andiamo alla scoperta di Roberto Laiseka, uno dei principali intepreti del ciclismo basco

Roberto LaisekaDa anni ormai, in ogni grande corsa a tappe del ciclismo mondiale c’è una presenza fissa, una squadra che non cambia né sponsor né maglia: è la Euskaltel-Euskadi, una vera nazionale basca, formata unicamente da corridori e tecnici di questa particolare comunità della Spagna pirenaica. Sin dal 1994 le divise arancioni di questo team sono il simbolo ciclistico dei Paesi Baschi: persino le biciclette usate dagli atleti, di marca Orbea, sono fabbricate in quella regione. Considerando il paesaggio tipicamente montano della zona in questione, non c’è da stupirsi che quasi tutti i ciclisti della Euskaltel siano scalatori puri. Nelle tappe di montagna, infatti, sono sempre tra i protagonisti principali, incitati da migliaia di loro tifosi e corregionali che accorrono sulle principali salite alpine e pirenaiche, colorando di arancione la giornata al grido di “Gora Euskadi”, forza Paesi Baschi. Roberto Laiseka, al pari di Iban Mayo e Haimar Zubeldia, è stato uno dei principali interpreti non solo del ciclismo basco, ma anche del carattere mai domo, fiero ed orgoglioso di quella gente.

Nato a Guernica, la città immortalata in tutto il suo dolore da Pablo Picasso, il 17 giugno 1969, Laiseka cresce negli anni in cui, a breve distanza, si alternano due campionissimi delle due ruote, ovvero Eddy Merckx e Bernard Hinault, stagioni nelle quali il ciclismo spagnolo è comunque brillante con ottimi atleti dal calibro di Luis Ocaña, José Manuel Fuente e Pedro Delgado. Alto e slanciato (184 cm per 63 kg), Roberto ha dunque il “phisique du role” per fare lo scalatore. Dopo la tradizionale gavetta nelle categorie giovanili e dilettantistiche, passa tra i professionisti nel 1994, con la neonata Euskadi. Nelle prime stagioni da professionista non riesce a dare pieno sfogo alle sue grandi capacità, sbagliando spesso i tempi dell’azione in corsa: anno dopo anno tuttavia, l’esperienza accumulata gli permette di guadagnare lucidità e razionalità, doti fondamentali per vincere ad alto livello, perché anche nelle tappe di montagne, notoriamente le più spettacolari, spesso non bastano un gran cuore e due gambe in forma per poter trionfare. Per scoprire la gioia della vittoria, Laiseka deve aspettare i 30 anni: è la diciottesima tappa della Vuelta a España 2000, con traguardo sul temibile Alto de Abantos, salita che l’atleta basco doma sfruttando in maniera perfetta la volontà di Ullrich, Gonzales de Galdeano e Heras, i big della classifica, di controllarsi reciprocamente; in un mare di bandiere arancioni, Roberto transita per primo sul traguardo con una ventina di secondi sul belga Vandenbroucke, straordinario e sfortunato campione. L’anno dopo la stessa corsa gli regala il secondo urrà della carriera: al termine di una lunga fuga a sei, Laiseka scatta ad una manciata di chilometri dall’ambito traguardo di Andorra-Arcalis, facendo letteralmente il vuoto, visto che il secondo classificato, il bravo Carlos Sastre, è a quasi un minuto di distacco. Sfiora il successo anche dieci giorni più tardi, a Ciudad Rodrigo, ma qualche incomprensione di troppo con l’altro fuggitivo García Acosta permette al kazako Vinokourov di rientrare su di loro, beffandoli a 400 metri dall’arrivo, tra lo sconforto generale del pubblico. Per quanto in montagna sia sempre tra i protagonisti, Laiseka perde un’eternità nelle prove a cronometro, come succede sempre agli scalatori più puri, e quindi non può mai essere pienamente competitivo per la vittoria finale di una grande corsa a tappe, dovendosi accontentare solo di qualche piazzamento: infatti, potrà vantare al massimo un sesto posto nella graduatoria generale proprio di quella Vuelta.

L’impresa più bella della sua carriera non arriva sulle strade spagnole, ma su quelle francesi: è la quattordicesima tappa del Tour de France 2001, ultima frazione di montagna di quella Grande Boucle, col traguardo posto a Luz Ardiden, spettacolare località pirenaica. Ullrich, Kivilev e Beloki non hanno né le possibilità né le gambe per attaccare Lance Armstrong, dominatore assoluto, per la seconda delle sue sette volte, di quel Tour, e dunque c’è spazio per i cacciatori di tappe, per gli scalatori puri in cerca di gloria. La lunga fuga partita sin dal mattino si sparpaglia tra l’Aspin e il Tourmalet, e il bergamasco Wladimir Belli, eterno piazzato del grande ciclismo (basti pensare ai 25 piazzamenti tra i primi dieci in tappe del Giro d’Italia, senza la gioia di un successo), culla il sogno dell’impresa, ma non ha fatto i conti con Roberto Laiseka: quel giorno, l’atleta basco non è da solo, perché tutto il suo popolo è sulle strade di quell’ascesa, tra prati e tornanti, in un tripudio di bandiere arancioni e di Gora Euskadi. Ai -10 dal traguardo Laiseka rompe gli indugi, salutando il gruppo dei migliori e piazzandosi all’inseguimento del bergamasco, ormai sfinito, raggiungendolo nel giro di pochi minuti. In testa da solo, gli ultimi chilometri segnano il vero trionfo del ragazzo di Guernica, incitato da due ali di folla che sembrano due pareti umane a fianco della strada: uno spettacolo, quello di un pubblico del genere, che solo il ciclismo sa regalare. Laiseka passa la linea d’arrivo facendosi ripetutamente il segno di croce e fatica, dopo uno sforzo ed un’emozione del genere, a trovare il fiato e le parole giuste per rispondere alle domande degli incombenti cronisti; Belli, che dedica il piazzamento al compianto Casartelli, è secondo a 54’’.

Dopo quel giorno di gloria, il Cuore Basco di Laiseka, sempre più in sintonia con una grande lucidità tattica e un’ottima visione di corsa, brillerà altre due volte: ad Arrate, nella Bicicletta Basca del 2004, e ad Aramón Cerler, stazione sciistica dell’Aragona, nella Vuelta 2005. Appende la bicicletta al chiodo al termine della stagione successiva, a 37 anni suonati solamente a causa di un infortunio al ginocchio: la sua carriera gli ha regalato solo cinque successi, ma di una qualità veramente straordinaria. Le tredici stagioni in sella lo hanno visto indossare unicamente la casacca dell’Euskaltel-Euskadi, contribuendo a renderlo un vero idolo dei tifosi baschi, tra i quali è ancora oggi idolatrato come una delle principali espressioni sportive del coraggio, del temperamento e, appunto, del cuore di quella popolazione.

CRICKET: AL LATINA LANKA LA SUPERCOPPA

La stagione italiana del cricket è cominciata in modo insolito, non su prati verdi ma all’interno di una palestra. Domenica 27 febbraio il Palasavena di San Lazzaro (provincia di Bologna) ha infatti ospitato il “Trofeo città di San Lazzaro di Savena”, immediatamente ribattezzato in maniera non ufficiale “Supercoppa italiana” perché i campioni d’Italia del Tecnessenze Pianoro Cricket Club sfidavano i vincitori della Coppa Italia del Latina Lanka Cricket Club.

 

L’incontro è stato voluto e organizzato dal delegato regionale della federazione di cricket  Davide Gubellini (già presidente del comitato organizzatore della World Cricket League di Bologna) e dal Pianoro Cricket con il suo presidente Parisi, per cercare di promuovere gli incontri indoor e riempire con competizioni agonistiche l’altrimenti vuota stagione invernale. L’evento ha quindi assunto un carattere sperimentale; come traspare dal consiglio federale del 19 febbraio esiste l’intenzione da parte della federazione di valutare se rendere ufficiale, a partire dal prossimo anno, l’idea di una Supercoppa italiana e l’istituzione di un vero e proprio campionato indoor.

 

Dal lontano 2003, quando fu organizzato a Pianoro un torneo con quattro squadre, non si disputavano incontri indoor di una certa importanza. Lo stesso è accaduto sostanzialmente a livello di nazionale dove, dopo l’ottavo posto del 2000, il nono del 2001, l’eliminazione ai quarti del 2002 e quella agli ottavi del 2003, nelle edizioni del 2004, 2005 e 2006 l’Italia non ha partecipato agli European Indoor Championship, che dal 2007 non si sono più disputati.

 

In questi incontri era stata adottata la formula six a side, ovvero con sei giocatori per squadra, quello di San Lazzaro invece si è disputato con la formula eight a side: otto giocatori per squadra, lanci limitati a 6 over (36 palle in tutto), cinque partite e la prima che ne vince tre si aggiudica il trofeo.

 

Il Latina Lanka, squadra composta esclusivamente da atleti di origine cingalese che lo scorso anno ha partecipato al campionato italiano di serie C, si è presentato a pieno organico, con uno degli “eroi di Hong Kong”, Gayashan Munasinghe, di ritorno da Dubai, dove aveva preso parte alla ICC Global Cricket Academy. Il Pianoro ha invece fatto affidamento ai prodotti del vivaio locale guidati dall’altro reduce della World Cricket League di Hong Kong, Hemantha Jaysena, supportato dai pre-convocati Poli e Di Giglio. Sotto la direzione dell’arbitro internazionale, Samantha Ketipe, i laziali hanno avuto la meglio sugli emiliani per tre partite a zero, vincendo col risultato di  27 – 36, 36 – 25 e 52 – 38.

 

La competizione, che ha visto l’esordio di MoneyGram come sponsor ufficiale del cricket italiano per la stagione 2011, ha riscontrato un notevole successo ed è plausibile che nel prossimo futuro l’idea della Supercoppa italiana sarà riproposta come evento ufficiale, così come la possibilità di istituire un campionato indoor six a side.

 

Si ringrazia Luca Poli per la collaborazione

IL RIVER E’ TORNATO

E’ dal Torneo Clausura del 2008 che il River Plate non riesce ad imporsi in campionato. Quest’anno, però, le cose sembra possano cambiare

E’ dal Torneo Clausura del 2008 che il River Plate non riesce ad imporsi in campionato, collezionando anzi prestazioni certo non all’altezza della propria fama. Quest’anno, però, le cose sembra possano cambiare. La squadra allenata da Juan José Lopez pare infatti aver trovato una propria quadratura in grado di permettere loro di competere per la vittoria del campionato sino all’ultima giornata.  Vediamo allora come è costruita la macchina riverplatense, ingranaggio per ingranaggio.

Partiamo dal guardiano dei pali, quindi. Che in queste prime tre uscite del Clausura 2011 è stato il giovane Leandro Chichizola, quasi ventunenne estremo difensore argentino che ha sfruttato l’infortunio dell’ex laziale Carrizo per sorpassare Daniel “El Indio” Vega nelle preferenze del proprio mister guadagnando così la maglia da portiere titolare. Ripagando per altro la fiducia del proprio tecnico: nelle prime tre uscite stagionali, infatti, il buon Chichizola non ha subito alcuna rete.

La difesa, invece, si schiera a tre, in linea. In Argentina, infatti, questo tipo di soluzione tattica è piuttosto apprezzata. Ecco quindi che J.J. Lopez appronta proprio una retroguardia di questo tipo, imperniata sulle prestazioni di giocatori come Jonathan Maidana, Adalberto Roman ed Alexis Ferrero. Difese di questo tipo presuppongono una buona copertura del centrocampo, specialmente sulle fasce. Ecco perché proprio qui vengono schierati ragazzi come Paulo Ferrari e Juan Diaz, ovvero sia, fondamentalmente, dei terzini adattati a fare i fluidificanti tra difesa e centrocampo. Insomma… da questo punto di vista l’approccio difensivo del River Plate ricorda un po’ quello di quell’Udinese di cui vi parlai qualche settimana fa. Ed è una fase difensiva che, ripeto, pare davvero funzionare: gli attacchi di Tigre, Huracan ed Independiente si sono infatti dovuti arrendere all’evidenza dei fatti, non riuscendo a bucare nemmeno una volta l’estremo difensore riverplatense.

La solidità difensiva è comunque garantita anche dagli interni di centrocampo, Acevedo ed Almeyda. Due giocatori che con il loro lavoro oscuro fungono infatti da discreti frangiflutti davanti alla linea a tre di difesa. Il secondo dei due, per altro, immagino lo ricorderete un po’ tutti: vecchia conoscenza del nostro calcio, il buon Matias sta trovando una seconda giovinezza con la maglia dei Millionarios, squadra di cui è per altro il capitano.

L’interesse maggiore relativamente a questa squadra sorge comunque rispetto all’attacco. Anzi, specificatamente rispetto alla trequarti. E’ qui, difatti, che giostrano le due stelline più luminose del firmamento riverplatense: Erik Lamela e Manuel Lanzini. Del primo si è già parlato tantissimo: su di lui piombò infatti il Milan, nel passato, che pareva volerlo acquistare. Classe 92 Lamela è considerato uno dei talenti più puri cresciuti tra le ultime generazioni argentine. Il secondo, invece, è un classe 93 di chiare origini italiane su cui ancora non sembrano essere piombate le grandi d’Europa, che però di certo lo staranno osservando con attenzione. Proprio questi due ragazzini, schierati l’uno al fianco dell’altro a supporto di una sola punta, sono i giocatori deputati a costruire e rifinire il gioco dei Millionarios. Qualora continuassero a mantenere la maglia da titolare sino al termine della stagione ed il River dovesse terminare la stessa in maniera trionfale i due sarebbero già proiettati nell’Olimpo del calcio argentino. Davanti, infine, nell’attesa di tornare a vedere un altro giovanissimo come Funes Mori si sta disimpegnando, come unica punta, l’ex Estudiantes e Betis Siviglia Mariano Pavone.

Davvero interessantissima, nel complesso, questa squadra. E da amante del calcio a tutto tondo mi permetto di darvi un consiglio: quando dovesse capitarvi investite un paio d’ore a guardare il River Plate, perché la sola presenza di due talenti come Lanzini e Lamela renderebbe quel tempo impiegato in maniera proficua.