IL PENTATHLON CERCA DI STARE AL PASSO CON I TEMPI

A rischio di esclusione dal programma olimpico, il Pentathlon Moderno continua a trasfromarsi da esercizio per militari a sport spettacolo

LaserPrende il via domani a Palm Springs con una grande innovazione la Coppa del Mondo 2011 di Pentathlon Moderno; dopo aver provato il sistema nella scorsa stagione nelle gare giovanili, viene introdotto a tutti i livelli l’utilizzo, nella prova di Tiro, delle Pistole Laser che vanno a sostituire le armi ad aria compressa usate fino ad ora. Mentre i puristi del tiro storcono il naso, le ragioni dell’introduzione sono numerose. Oltre al minor impatto ambientale, sbandierato dalla Federazione Internazionale, il ricorso ad armi non pericolose può permettere lo sviluppo della disciplina in impianti diversi (arrivando persino a pensare di gare nei centri storici delle città) e consente l’introduzione della stessa a livello scolastico dal quale, come tutti gli sport di tiro, è sempre stato escluso.

Il Pentathlon negli ultimi dieci anni sta combattendo la sua battaglia contro l’esclusione dai Giochi Olimpici e la sta combattendo cercando di stare al passo con i tempi, impresa difficile per una disciplina introdotta nel 1912 nel programma a cinque cerchi come esercizio tipicamente militare. E non è un caso se fino al 1948 tutti i vincitori del titolo olimpico furono proprio militari di carriera e se nella storia olimpica della disciplina appaiono nomi più legati alla storia militare che a quella sportiva come il Generale Patton, quinto a Stoccolma nell’edizione dell’esordio, o il tedesco Gotthardt Handrick, oro a Berlino e comandante in Spagna della Luftwaffe.

Nel 1912, e per molte edizioni successive senza grandi variazioni, la prova olimpica di Pentathlon Moderno si disputava su un arco di cinque giornate, ognuna destinata ad una disciplina: a Stoccolma si partì con la giornata dedicata al tiro con la pistola per continuare con il torneo di spada, i 300 metri a nuoto, una prova di cross country a cavalli e concludere la tenzone con i 4.000 metri di corsa. La classifica era costruita con la somma dei piazzamenti di ogni atleta nelle cinque prove. Fatto salvo qualche cambiamento nell’ordine delle prime quattro prove, questo formato di gara dura fino alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 che vedono il primo civile conquistare la medaglia d’Oro olimpica nella storia del Pentathlon: si tratta del carpentiere svedese Lars Hall.

Lo svedese si conferma sul trono olimpico anche quattro anni dopo a Melbourne quando cambia la formula di determinazione della classifica non più basata sui piazzamenti nelle singole prove ma su tabelle di punteggio che per ogni prova assegnano 1000 punti per l’eccellenza e via via a scendere non trascurando la possibilità di raccogliere punteggi superiori per prestazioni che superino l’eccellenza.

E’ con i Giochi Olimpici di Los Angeles 1984 che si assiste al primo cambiamento significativo della formula di gara: non solo le giornate di gara si riducono a 4 (tiro e corsa si disputano nell’ultima giornata) ma per garantire la spettacolarità dell’atto conclusivo la prova di corsa inizia a disputarsi con la partenza ad handicap con distacchi commisurati al punteggio in classifica. La conclusione diventa immediatamente comprensibile allo spettatore: chi taglia il traguardo ha vinto senza dover ricorrere a calcoli astrusi. E chi viaggia intorno al mezzo secolo non può dimenticare l’atto finale di quelle Olimpiadi: alla partenza della prova di corsa l’azzurro Daniele Masala parte con il pettorale 1 e nove secondi di vantaggio sullo svedese Svante Rasmuson. Intorno al terzo chilometro lo svedese raggiunge Masala e si prodiga in allunghi con l’obiettivo di staccare l’italiano; i due si presentano appaiati sul tratto finale pianeggiante. All’altezza dell’ultima curva Masala cambia ritmo e lo svedese crolla. L’Italia vince per la prima volta la medaglia d’Oro nel Pentathlon Moderno; arrivano anche il Bronzo di Carlo Massullo e l’Oro a squadre [video].

Nel 1988, la prova di Equitazione passa dal percorso di caccia ad una prova di Salto ad Ostacoli ma una nuova pietra miliare è posta nel 1996 ad Atlanta: da questa edizione le cinque prove si svolgono tutte nella stessa giornata e da quella successiva si inizia a disputare anche la prova femminile mentre la prova di Nuoto si accorcia a 200 metri e quella di Corsa a 3.000 metri.

Dopo le Olimpiadi di Pechino di due anni fa, il Pentathlon Moderno (a forte rischio di esclusione dal programma olimpico) cambia ancora la formula, ampiamente sperimentata nella Coppa del Mondo del 2010: la prova di Tiro e quella di Corsa vengono riunite nel Combined Event che chiude la competizione. Sempre partendo ad handicap sulla base della classifica delle prime tre prove, gli atleti devono compiere tre giri di corsa da 1.000 e ad ogni giro sparare a cinque bersagli (soluzione molto simile a quella del Biathlon invernale) caricando l’arma dopo ogni sparo. Non vi sono penalità per gli errori ma l’atleta non può ripartire fino al momento nel quale abbia colpito tutti i cinque obiettivi. Il Combined Event sarà utilizzato alle Olimpiadi di Londra tra due anni mentre le pistole laser sono ancora in fase sperimentale e non è previsto il loro utilizzo, per il momento, in sede olimpica.

George S. Patton

IL GIORNO DOPO LA RIVOLUZIONE

Caduto il regime di Mubarak, il calcio egiziano cerca di rimettersi in gioco. E intanto il resto del nord Africa continua a bruciare.

Piazza Tahrir si svuota. Torna alla normalità. A un mese dall’inizio della rivolta del Cairo e a una decina di giorni dalle dimissioni rassegnate dal presidente Hosni Mubarak, l’Egitto cerca di tornare sui binari soliti della vita quotidiana. Molti dei giovani coinvolti nelle proteste e negli scontri erano tifosi di calcio: fianco a fianco, uniti dalla volontà di rovesciare il regime trentennale dell’Ultimo Faraone, hanno protestato tifosi dell’al-Ahly e dello Zamalek, squadre cittadine del Cairo la cui rivalità è spesso sfociata in episodi di violenza. Dovranno attendere ancora prima di riversarsi di nuovo negli stadi, visto che probabilmente il resto del campionato verrà disputato a porte chiuse. C’è da chiedersi se, una volta di nuovo sulle gradinate, le due tifoserie continueranno ad essere solidali dopo aver combattuto spalla a spalla contro il regime, o se torneranno ad odiarsi con violenza.

Hassan Shehata è conosciuto come el-Embrator, l’Imperatore. Il suo è un Impero calcistico: nel 2004 ha preso le redini della nazionale di calcio egiziana da Marco Tardelli, portandola alla vittoria in Coppa d’Africa tre volte di seguito, nel 2006, nel 2008 e nel 2010. Un Impero che sembra però avere una data di scadenza, quella del 26 marzo, quando l’Egitto incontrerà al Soccer City di Johannesburg il Sudafrica in una gara decisiva per le qualificazioni alla Coppa d’Africa 2012. Per i Faraoni di Shehata è imperativo vincere: dopo un pareggio con il Niger e una sconfitta con la Costa d’Avorio da questa partita passano le ultime possibilità per staccare un biglietto per il torneo che si terrà tra Guinea Equatoriale e Gabon. La federazione egiziana sta tentando di far rinviare la partita a giugno per permettere al campionato, sospeso il 27 gennaio, di riprendere con regolarità: una decisione simile è già stata presa dalla FIFA con il rinvio, per motivi di ordine pubblico, dell’incontro tra Yemen e Singapore in seguito alle proteste in corso nello stato arabo per rovesciare il regime del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978.

La mancata qualificazione alla Coppa d’Africa potrebbe essere il colpo di grazia per il commissario tecnico, già criticato per il suo bigottismo religioso (“Faccio sempre il possibile per assicurarmi che chi veste la maglia dell’Egitto sia pio e in buoni rapporti con Dio”, dichiarò in un’occasione) e ora sotto accusa per la sua partecipazione alle manifestazioni in sostegno a Mubarak. Shehata si è difeso sostenendo che difendeva la stabilità e la tranquillità dell’Egitto e che non era spinto da sentimenti di odio per il popolo di piazza Tahrir: quello che gli premeva era che il campionato potesse riprendere con regolarità. Non è bastata come giustificazione ai manifestanti, che hanno inserito il commissario tecnico nella lista nera dei nemici della Rivoluzione. Su un commento postato sul quotidiano online Ahmad dall’utente Waleed si legge: “Hai insultato i giovani che ti avevano sostenuto nella conquista delle tre coppe. Ti sei schierato in favore della tirannia e contro la libertà. È tempo che tu ti faccia da parte, mentre noi abbiamo ancora nel cuore i ricordi e l’ammirazione per i traguardi che hai raggiunto. La libertà viene prima dello sport, capitano Hassan”.

Nel frattempo la federazione sta muovendosi per organizzare un’amichevole della nazionale contro la Tunisia. Quella tra Egitto e Tunisia è stata una rivalità che non ha mai mancato di infiammarsi con episodi violenti. In ottobre undici tunisini erano stati arrestati per vandalismo e attacchi ai danni della polizia dopo un incontro tra l’al-Ahly e l’Esperance di Tunisi. Come i tifosi egiziani, anche i supporter tunisini sono stati in prima linea nelle proteste che hanno portato alla fuga del presidente Zine El-Abidine Ben Ali: la partita non ha ancora una data, ma è già stata soprannominata il derby dei rivoluzionari. La partecipazione del popolo del calcio alle rivolte è stata una costante dell’incendio che ha colpito il nord Africa e il medio Oriente. I tifosi sono scesi in piazza, oltre che in Egitto e Tunisia, anche in Algeria, Libia, Sudan, Giordania e Iran. Le autorità di Algeri, Tripoli, Teheran e il Cairo hanno tutte ricorso alla sospensione dei campionati e alla cancellazione degli impegni internazionali delle squadre locali per ragioni di ordine pubblico e per cercare di disinnescare le proteste. In Iran l’allenatore portoghese Carlos Queiroz, pronto a prendere la guida della squadra nazionale, ha fatto un passo indietro per “comprendere meglio il clima politico iraniano”.

Il primo importante passo per la normalizzazione in Egitto è arrivato pochi giorni fa: domenica i club si sono riuniti per formalizzare al Consiglio Supremo delle Forze Armate la richiesta di far riprendere il campionato terminando la stagione a porte chiuse e con le retrocessioni bloccate. Il campionato è fermo dal 27 gennaio e nel frattempo è stata cancellata la Coppa d’Egitto e la FIFA ha posto come condizione per la ripresa dell’attività che fosse ristabilito l’ordine e che l’accordo tra i club fosse unanime. Un segnale di ripresa è stato l’inizio di un’investigazione per corruzione all’interno della EFA (Egyptian Football Association) che coinvolgerebbe anche il presidente federale Samir Zaher e Hassan Shehata, el-Embrator. In marzo la lega dovrebbe riprendere, ma non sarà facile capire come cambieranno i sentimenti della popolazione nei confronti delle squadre. Secondo Piers Edwards della BBC, dopo la Rivoluzione gli egiziani saranno meno propensi ad accettare che alcuni enti governativi investano nei club sportivi, come avviene per le squadre al-Jaish, Harras al-Hadoud e Ittihad al-Shorta, sostenute rispettivamente dalle guardie di frontiera, dall’esercito e dalla polizia.

Come se non bastasse, l’atteggiamento di freddezza mantenuto dal calcio nei confronti del movimento di piazza Tahrir ha sollevato diverse critiche da parte dei manifestanti. Lo Zamalek, per esempio, è considerata una squadra tradizionalmente vicina alle sfere del potere in Egitto, opinione che è stata rafforzata dall’adesione dei dirigenti della squadra Ibrahim e Hossam Hassan e delle stelle Shikabala e Mido alle manifestazioni controrivoluzionarie. Tra le personalità che si sono esposte in supporto alla Rivoluzione invece figurano Nader el-Sayed, ex portiere dello Zamalek con oltre cento presenze in nazionale, coinvolto in prima persona alle dimostrazioni di piazza Tahrir. Parole di sostegno sono arrivate anche dall’allenatore portoghese dell’al-Ahly Manuel José, che ha chiesto pubblicamente scusa per essere tornato in Portogallo e non aver contribuito alla causa donando sangue alle vittime degli scontri. Per riguadagnare l’approvazione dell’opinione pubblica, i club hanno acconsentito a tagliare il 25% degli stipendi dei giocatori per devolverli alle famiglie delle vittime.

La prima partita di calcio dell’Egitto post-rivoluzionario sarà disputata domenica: lo Zamalek affronterà allo stadio dell’Accademia Militare del Cairo i kenyoti dell’Ulinzi Stars, in una gara valida per i preliminari della Champions League africana. Nella gara d’andata gli egiziani avevano espugnato Nakuru portando a casa una vittoria 4-0, per poi trovarsi impossibilitati a disputare il turno di ritorno per via dello scoppio della rivolta. Le autorità militari, dopo diversi tentennamenti, hanno autorizzato lo svolgimento della partita. Una delle opzioni prese in considerazione dalla dirigenza dello Zamalek era stata lo spostamento dell’incontro in campo neutro in Libia. Una proposta poco felice, visto il rapido degenerare degli eventi nell’ex colonia italiana: le rivolte contro il leader libico Muammar al-Gaddafi hanno portato il paese in una situazione di guerra civile aperta. Secondo il sito Mideastsoccer a capeggiare la repressione nella città di Bengasi, roccaforte dei ribelli, sarebbe Sa’adi al-Gaddafi, il figlio del colonnello, personaggio che ha legato il suo nome al calcio in diversi modi: come dirigente della Juventus, come presidente della federcalcio libica e come giocatore con due brevi presenze in serie A, con le maglie di Perugia e Udinese, intervallate da una squalifica per doping. L’ultimo tesseramento italiano di Sa’adi al-Gaddafi è stato stipulato con la Sampdoria del petroliere ERG Riccardo Garrone, ennesimo esempio di una carriera pilotata più dagli interessi nei combustibili fossili che dal talento sportivo. Sarebbe stato proprio l’attaccante ed ex capitano della nazionale libica a disporre i bombardamenti del regime contro i suoi stessi cittadini, in una brutale repressione costata oltre seicento vittime.

SE IO FOSSI REDKNAPP….

Mettiamoci nei panni di Redknapp in vista della gara di ritorno tra Tottenham e Milan

CrouchPenso un po’ tutti abbiate seguito la disfatta casalinga del Milan di Allegri contro il Tottenham di Redknapp nell’andata degli ottavi di finale di Champions League. Quasi al termine di una gara giocata piuttosto maluccio dai Rossoneri, infatti, Ibrahimovic sbagliò un appoggio al limite dell’area Spurs consegnando palla agli avversari, con Modric che lanciò il contropiede di Lennon il quale dopo aver percorso più di metà campo palla al piede – saltando a mo’ di Holly Hutton il povero Yepes, comunque tra i migliori dei suoi – servì a Crouch il pallone che valse l’1 a 0 finale.

Nella gara di ritorno, che si disputerà a White Art Lane il prossimo 9 marzo, gli inglesi saranno chiamati a difendere il vantaggio conseguito all’andata, e tutto potrebbe essere più facile per loro. Proverò quindi a mettermi nei panni del loro allenatore, il buon Harry Redknapp, per dire due paroline rispetto a come gestirei io la partita.  Innanzitutto è bene dire una cosa: forti del vantaggio accumulato i londinesi potrebbero tranquillamente limitarsi a difendersi per colpire in contropiede. Del resto le carte in regola per fare ciò le avrebbero tutte, a maggior ragione posta la presenza di due ali veloci e ficcanti come Lennon e Bale (che dovrebbe essere del match, a differenza dell’andata). Nel contempo, però, prima di impostare una gara prettamente di ripartenza cercherei di capire in che condizioni si presenterà il Milan a Londra.

Ed ecco qui le mie due possibili opzioni.

Ipotesi 1

Il Milan si presenta a Londra con una formazione molto simile rispetto a quella dell’andata, ovvero sia con una difesa non irresistibile sulle fasce e bucabile in velocità centralmente ed un centrocampo muscolare ma poco brillante in fase di possesso.

In questo caso l’opzione migliore, a mio avviso, sarebbe quella di impostare una squadra fatta per imporre il proprio gioco, con un centrocampo quanto più possibile folto e composto da gente con i piedi buoni. In questo senso si dovrebbe quindi replicare un po’ quanto fatto all’andata, anche se, possibilmente, con Modric, Huddlestone e Bale al posto di Sandro, Palacios e Pieenar. Così facendo il tasso tecnico di un centrocampo che aveva già comunque sopraffatto gli avversari nel corso del match di andata si alzerebbe notevolmente, con gli Spurs che potrebbero così fare del gran possesso palla per andare fin da subito alla ricerca di un goal che darebbe ulteriore tranquillità alla squadra di Redknapp.

In questo modo il Milan, che di contro dovrebbe comunque partire per provare ad imporre il proprio ritmo al match, potrebbe essere messo in scacco: esattamente come all’andata, infatti, potrebbe trovare grossi problemi a costruire gioco, lasciando il pallino dello stesso in mano agli avversari e finendo con l’essere pericoloso praticamente solo su calcio piazzato.

Ipotesi 2

Il Milan si presenta a Londra senza grosse defezioni ed imposta una squadra che fa proprio della tecnica il proprio punto forte, mostrando chiara la volontà di scendere in campo per dare un’impronta ben precisa alla partita, imponendo da subito il proprio gioco onde provare a forzare la difesa Spurs per andare a trovare da subito quel goal che riequilibrerebbe il risultato dopo la sconfitta dell’andata.

In questo caso – posto che comunque si potrebbe tranquillamente adottare la stessa soluzione proposta in precedenza sperando poi di riuscire, anche grazie al sostegno del pubblico, a prendere il sopravvento – preferirei invece schierare una squadra più chiusa, magari sfruttando i polmoni di Palacios al fianco della prestanza di Huddlestone con Modric a quel punto ad agire poco avanti a loro, in sostituzione di Van der Vaart.

E, soprattutto, punterei tutto sull’accoppiata Bale-Lennon, che in quel caso sarebbe la vera arma in più della squadra. Dopo aver blindato la difesa ed essermi coperto per quanto possibile a metà campo, infatti, cercherei di impostare la gara proprio sfruttando al massimo il sovraffollamento nella mia trequarti campo per chiudere tutti gli spazi agli avanti Rossoneri e ripartire in velocità. E non è solo un modo di dire: Lennon e Bale sono difatti, come credo tutti sappiate, due ali dalla velocità realmente eccezionale, che in una situazione del genere, e con spazio davanti visto il probabile sbilanciamento degli avversari, potrebbero risultare realmente devastanti.

A quel punto, poi, valuterei bene anche la soluzione offensiva: il vertice alto del mio 4-5-1 a questo punto potrebbe diventare Defoe, giocatore dalla velocità eccellente sicuramente molto più portato al contropiede di quanto non possa esserlo Crouch. Certo, però, che anche quest’ultimo potrebbe avere la sua utilità non indifferente: la sua altezza ne fa difatti da sempre un’arma tattica importante per qualsiasi squadra in cui si trova a giocare, e proprio in relazione alla stessa il buon Peter potrebbe essere sfruttato come boa là davanti, giocatore cui andare a recapitare gli eventuali lanci lunghi dalla difesa. Va però detto che qualora si ripetesse la medesima marcatura dell’accoppiata Nesta-Yepes su di lui lo stesso Crouch verrebbe limitato notevolmente in questo senso, esattamente come accaduto all’andata. Ecco quindi che, se disponibile, Defoe resterebbe la mia prima opzione.

Ciò che farei sicuramente a priori è far rifiatare un buon numero di giocatori nel match di Premier precedente a questo: il 5 marzo, difatti, gli Spurs faranno visita al Molineaux dove ad attenderli ci sarà l’attuale fanalino di coda del campionato, il Wolverhampton. Nessuna sfida è da sottovalutare, certo, ma personalmente sono per un uso anche massiccio del turn over, laddove possibile. Ecco quindi che  prima di una sfida importante come quella del White Art Lane contro il Milan sfrutterei la piacevole coincidenza di affrontare uno tra gli avversari sulla carta più morbidi del campionato per far riposare quei giocatori chiamati poi a fare la differenza quattro giorni dopo in Champions League. L’unica controindicazione, in questo caso, è rappresentata dal buon rendimento dei Wolves di fronte al proprio pubblico: sei vittorie, due pareggi e cinque sole sconfitte (contro lo score di 1-2-11 che hanno invece lontano dal Molineaux)…

IL PERÙ RIVIVE L’INCUBO DELLA SCIAGURA DEL 24 MAGGIO 1964

Crolla una tribuna prefabbricata allo Stadio Monumental di Lima. I peruviani rivedono lo spettro del 24 maggio 1964.

Per l’inaugurazione di un torneo di calcio studentesco, il 18 febbraio allo Stadio Monumental di Lima, di proprietà del Club Universitario de Deportes, è stata realizzata una tribuna di metallo, alta 15 metri e larga 50. La tribuna avrebbe dovuto ospitare qualche migliaio di persone, soprattutto parenti e amici dei giovani giocatori. La struttura, messa in piedi nello spazio di un mattino, non è stata però dotata delle norme di sicurezza, e per fretta, incuria e una buona dose di faciloneria, i dirigenti dell’Universitario de Deportes hanno omesso di avvisare, come avrebbe disposto la normativa locale, le autorità municipali di Lima. A causa del peso degli spettatori, la tribuna fai da te si è afflosciata improvvisamente, e ha lasciato sotto di sé 117 feriti, la maggior parte lievi, e una decina in condizioni serie. Ma se non fosse stato per l’inusitata efficienza dei soccorsi dei vigili del fuoco e delle ambulanze, il bilancio sarebbe potuto diventare molto più grave.

Come immaginabile, i media peruviani hanno dato un grande spazio a questo incidente, e le memorie più fonde sono ritornate al terribile pomeriggio del 24 maggio 1964, quando allo Stadio Nacional di Lima, meglio noto alla gente del posto come El Coloso de José Díaz, si erano affrontate le nazionali under 20 di Perù e Argentina. In palio c’era la qualificazione alle imminenti olimpiadi di Tokyo, e l’Argentina aveva la classifica dalla propria parte; mentre per il Perù era quasi un imperativo vincere, per poi giocarsi la qualificazione nell’ultima partita contro il Brasile.

A Lima si preannunciava una domenica pomeriggio all’insegna dello spettacolo sportivo, visto che nel circuito centralissimo di Campo de Marte, a meno di un chilometro dallo stadio si stava disputando Las Seis Horas Peruanas, una gara automobilistica che sarebbe terminata alle tre del pomeriggio: appena mezz’ora prima dell’inizio della partita. In quella mezz’ora i tifosi erano transumati verso il Nacional; e siccome gli organizzatori avevano incoscientemente abbondato sulla stampa dei biglietti, erano entrate quasi quindicimila persone in più rispetto alle 47mila che poteva contenere ufficialmente lo stadio.

Il primo tempo terminò a reti inviolate, e il pubblico cominciò a innervosirsi. Avrebbe voluto festeggiare la qualificazione per le strade di Lima, ma con un pareggio la strada verso le olimpiadi si sarebbe fatta più accidentata. A rendere l’impresa proibitiva, avrebbe poi provveduto al 15’ il gol dell’argentino Néstor Manfredi. Per i sessantamila presenti era stata come una doccia gelata, e le speranze olimpiche cominciavano a sciogliersi sotto il sole di quel pomeriggio di maggio.

A soli sei minuti dalla fine, però, un tiro angolato dell’attaccante peruviano Victor Lobatón era riuscito a battere il portiere argentino. La torcida del pubblico di Lima si era scatenata. Mancava poco alla fine, era vero, però si poteva ancora sperare. I giocatori in maglia bianca si abbracciarono e proprio mentre stavano per dirigersi verso la propria metà campo, l’arbitro uruguayano, Ángel Eduardo Pazos, alzò il braccio destro e sollevò una gamba mimando un passo dell’oca: gioco pericoloso. Il gol era stato annullato, lasciando sfumare le ultime speranze dei peruviani.

Il pubblico sugli spalti scatenò il finimondo, e un afro peruviano di un quintale di peso e dalle generalità incerte (a seconda delle fonti viene indicato come Víctor Melasio Campos, Melecio Vásquez, o anche Germán Cuenca Arroyo), con il grottesco soprannome di El Negro Bomba, riuscì a scavalcare le recinzioni e ad entrare nel terreno di gioco in direzione dell’arbitro. Appena scorsero la sua sagoma appesantita, i poliziotti di servizio nello stadio lo rincorsero lanciandogli addosso i cani; lo placcarono, lo stesero a terra, estrassero i manganelli, e come loro abitudine, cominciarono a picchiare selvaggiamente. Contemporaneamente, entrò in campo un secondo invasore, che brandendo una bottiglia era arrivato a pochi passi dall’arbitro: un attimo prima di venire acciuffato dalla polizia per subire lo stesso trattamento di El Negro Bomba.

Il pubblico, già invelenito contro l’arbitro, rivolse la propria attenzione all’indirizzo delle forze dell’ordine, e cominciò a inveire, fischiare e bombardare il campo di oggetti di ogni tipo. L’uruguayano Ángel Eduardo Pazos comprendendo che le cose si stavano mettono male, senza perdere altro tempo, fischiò la fine dell’incontro; ed insieme ai giocatori delle due nazionali, si involò verso gli spogliatoi dalla parte della curva meno turbolenta.

Usciti di scena i protagonisti della partita, lo scontro si concentrò tra il centinaio di poliziotti e i sessantamila spettatori inferociti. A quell’epoca la polizia peruviana non conosceva molte varianti alla logica della brutalità. Era la polizia di una nazione che viveva costantemente sotto il tallone di una serie devastante di dittature militari, e che proprio in quell’anno stava vivendo una delle proprie brevissime stagioni di democrazia. L’ufficiale più alto in grado si mise immediatamente in contatto radio con la centrale, e ricevette l’ordine di difendersi con i gas lacrimogeni.

Detto fatto. I gas vennero lanciati in forma di granate verso i settori dello stadio più esagitati, e da quel momento i tifosi furono protagonisti di qualcosa di molto simile a un girone dell’inferno dantesco. Sotto la pressione dei gas asfissianti, cercarono vie di fuga, salendo prima verso la parte più alta delle gradinate. Ma neanche lassù l’aria si era rivelata più respirabile, e la massa in fuga aveva imboccato la via dell’uscita. Davanti a quelli più rapidi era però in agguato un’amara sorpresa: le porte erano sbarrate. Le autorità ne avevano deciso la chiusura, per evitare che altre persone si aggiungessero alla calca infernale che loro stessi avevano provocato, vendendo i biglietti in soprannumero.

I primi arrivati avevano fatto così marcia indietro, ma si erano trovati di fronte la seconda ondata che scappava dalle tribune avvelenate dai gas della polizia. La massa di persone si era infranta, come un blocco unico, contro i cancelli, che sarebbero poi crollati sotto la spinta di quella forza d’urto. In una calca spaventosa morirono in 318, e quasi mille rimasero feriti, soprattutto per asfissia da schiacciamento, in una dinamica che si sarebbe ripetuta, anche se in misura dieci volte minore, nella tragedia dell’Heysel. Ma negli sessanta in America Latina, il quadro sociale era particolarmente disastroso, e le bande di delinquenti si erano avvicinate ai cadaveri per rubare orologi, portafogli, vestiti, e tutto quanto avesse potuto valere più di pochi sol.

I giornalisti in tribuna non avevano compreso immediatamente le dimensioni della catastrofe, e le prime notizie avevano accennato ad alcuni feriti; ma la radio aveva poi fornito aggiornamenti di minuto in minuto, tanto che i parenti delle persone allo stadio, avevano girato disperatamente gli ospedali di Lima alla loro ricerca.

Tanti dei giovani che erano sopravvissuti si erano abbandonati alla guerriglia: tre poliziotti, erano stati catturati e linciati, centinaia di vetture parcheggiate erano state distrutte e la fabbrica della Goodyear era stata saccheggiata, durante una serie di disordini che erano durati tutta la notte. Il mattino dopo il governo, schiacciato dalla pressione dei militari, veri padri padroni del Perù di quell’epoca, sarebbe stato costretto a decretare lo stato d’emergenza e la sospensione delle libertà costituzionali per trenta giorni.

MORFEO, DI NOME E DI FATTO

Quando si dice “nomen omen”. Perché Domenico Morfeo, brillante trequartista che ha girato i campi di mezza Italia, non ha mai nascosto quanto gli piacesse il sonno, la pennichella pomeridiana per ricaricare le pile, magari dopo un allenamento stressante: e Morfeo, com’è noto, era infatti la divinità greca dei sogni, figlio di Ipno e di Notte. Il Domenico Morfeo nato a Pescina, sull’Appennino aquilano, il 16 gennaio 1976 ha però un’altra peculiarità in comune con la figura mitologica, perché certi suoi tocchi, certe sue giocate di classe genuina hanno fatto sognare ad occhi aperti migliaia di appassionati, assolvendo in pieno il compito del suo ingombrante cognome. Un talento irregolare, a sprazzi, incostante, ma capace, nelle non frequenti giornate di grazia, di stravolgere qualunque equilibrio.

La saga del Morfeo calciatore, come detto, inizia nel cuore dell’Abruzzo 35 anni fa: sin da piccolo, il pallone è il suo compagno di vita, l’amico inseparabile dell’infanzia. Si ritrova con gli amici nella piazza di San Benedetto dei Marsi, dove vive con la famiglia, a prendere a pallonate un cerchio rosso disegnato sulla saracinesca della trattoria dello zio: e la facilità con cui centra il bersaglio fa capire a tutti le sue grandi doti. Gioca nella squadra del paese, allenato da mister Bixio Liberale, una sorta di guru del calcio abruzzese: a dieci anni si deve fermare per parecchi mesi a causa del morbo di Osgood, una fastidiosa disfunzione legata alla crescita delle gambe, il primo di una lunga serie di malanni che ne rallenteranno la carriera. Mimmo ritorna più forte di prima e, accompagnato dal suo allenatore, inizia a disputare alcuni provini, prima per il Bologna e poi per l’Atalanta. Quando sembra fatta per il suo trasferimento nella città emiliana, il dirigente bergamasco Alfredo Mosconi incontra la famiglia del ragazzo e regala un braccialetto nerazzurro alla nonna Angela, che così convince il nipote a prendere in considerazione l’approdo ai nerazzurri: il flipper, il tavolo da ping-pong e il biliardino presenti nel convitto dei giovani atalantini sono così simili a quelli del bar di San Benedetto che Morfeo decide di iniziare l’avventura con gli orobici. A soli dodici anni è già nel settore giovanile della squadra italiana che, per antonomasia, punta sul proprio vivaio, e sin dalle prime partite mette in mostra una classe decisamente superiore alla media. La nostalgia per l’Abruzzo lontano e per la famiglia rimasta nella terra d’origine rappresenta però una dura battaglia da vincere, e ci vorrà del tempo prima che il ragazzo si ambienti bene a Bergamo. Scala le categorie giovanili, in compagnia del fratello Mario (destinato ad un’onesta carriera tra B e C), a suon di gol, assist e successi, vestendo anche la maglia azzurra delle selezioni nazionali e facendo parlare di sé come una delle “grandi promesse” del calcio nostrano, definizione che lo accompagnerà anche nei lunghi anni del professionismo, sino a diventare una sorta di scomoda etichetta difficile da togliersi di dosso. Nella Primavera atalantina, guidata da Cesare Prandelli, si conferma un giocatore tutto genio e fantasia, un puro “numero 10” destinato magari ad eguagliare i successi del suo grande idolo, quel Roby Baggio di cui Morfeo conserva gelosamente una figurina nel portafoglio: con la giovanile bergamasca vince il Torneo di Viareggio 1993, la più importante competizione per le squadre di categoria. Sempre in quel 1993 arriva precocissimo il debutto tra i “grandi”, ed è proprio Prandelli, che ha sostituito Guidolin sulla panchina della prima squadra, a lanciarlo nella mischia il 19 dicembre, poco meno che diciottenne, nella sfida contro il Genoa. In quella prima avventura tra i professionisti Morfeo segna tre reti in nove partite, inutili ai fini della salvezza dei bergamaschi ma sufficienti a farlo diventare un idolo della curva atalantina. Retrocessa in serie B, l’Atalanta viene affidata ad Emiliano Mondonico, l’allenatore che segna più di ogni altro la crescita del talento abruzzese. Ex calciatore bruciato in fretta per la poca voglia di allenarsi, il Mondo sa che anche Morfeo corre lo stesso rischio: l’esordio in serie A, forse prematuro, lo ha fatto sentire sulla luna, come se fosse già arrivato e realizzato, e infatti Morfeo reagisce male alle prime mancate convocazioni o alle panchine in cui viene relegato dal mister cremasco. Ma Mondonico sa quanto la disciplina e la professionalità contino per sfondare nel calcio moderno: finché il fantasista non si mette in riga, resta in panchina, anche a costo di inimicarsi tifosi e giornalisti. Allora Morfeo inizia a correre, a svolgere il duro lavoro di squadra oltre ai colpi di genio individuali, a sacrificarsi per i compagni: diventa un giocatore a tutto campo, un numero 10 moderno e completo e riconquista il posto da titolare, guidando l’Atalanta alla promozione e a due brillantissime stagioni nella massima serie, condite da sedici reti, moltissimi assist e giocate memorabili. Nel frattempo, con l’Under 21 di Cesare Maldini, vince l’Europeo 1996, realizzando il rigore decisivo che affossa i sogni della Spagna finalista. Riceve anche una convocazione dalla nazionale maggiore guidata da Arrigo Sacchi, ma non scende in campo: purtroppo, sarà la sua prima e ultima chiamata per i colori azzurri.

Cosa succede poi? Succede che Morfeo…diventa Morfeo. Un talento cristallino ma incostante, spesso fermato anche da dolorosi infortuni che ne limitano le potenzialità, e forse poco aiutato anche da certi allenatori che non hanno la paterna fermezza di mister Mondonico, alcuni dei quali insistono a schierarlo in ruoli a lui poco congeniali, come da seconda punta o da esterno d’attacco, che non possono far risaltare le sue doti da trequartista puro. Alla Fiorentina, dove si trasferisce per la somma di 15 miliardi di lire, viene schierato da Alberto Malesani nel tridente con Batistuta e Oliveira, a far sognare i tifosi viola, ma l’arrivo del brasiliano Edmundo, pupillo del presidente Cecchi Gori, fa relegare in panchina il giovane Domenico. Nel 1998-1999 approda al Milan, quel Milan di Bierhoff, Weah, del debuttante Abbiati e dei “vecchi” Maldini e Costacurta che vince il campionato con una rimonta storica sulla Lazio: l’unico segno del passaggio di Morfeo in maglia rossonera è un tiro-cross deviato nella propria porta dal difensore bolognese Mangone, che regala tre punti d’oro alla squadra di Zaccheroni. Dopo sei mesi tristi a Cagliari, nel gennaio 2000 viene prelevato dal Verona dove ritrova come allenatore Cesare Prandelli, lo stesso delle giovanili atalantine: e qui Mimmo, sereno come un tempo, riprende ad incantare i tifosi con cinque reti in dieci partite che contribuiscono in modo decisivo alla salvezza degli scaligeri. Anche il ritorno a Bergamo, nell’autunno dello stesso anno, sembra restituire il Morfeo degli esordi al grande calcio. Udinese-Atalanta, match del 29 gennaio 2001, è il manifesto del suo calcio: al secondo minuto di gioco, crea un’autostrada nell’area friulana per l’accorrente Nicola Ventola che realizza l’uno a zero; due minuti più tardi, un suo sinistro divino si insacca alle spalle dell’incolpevole Turci; al ventesimo, senza guardare la palla, come solo i grandi sanno fare,  lancia in profondità ancora Ventola che realizza la terza rete; e al 41esimo un suo tocco di velluto su assist di Cristiano Doni fissa il punteggio sul 4-2 per i bergamaschi. La brillante annata in maglia nerazzurra è solo una fortunata parentesi prima di due stagioni, a Firenze e all’Inter, che lo fanno ripiombare nella media, di certo non aiutato da qualche infortunio di troppo.

Gli ultimi sprazzi della sua classe genuina si hanno nelle prime due stagioni a Parma, tra il 2003 e il 2005: allenato nuovamente da Prandelli, incanta gli spettatori del Tardini con 12 gol in 54 gare, alcuni dei quali su punizioni eseguite magistralmente dal limite dell’area, quasi senza rincorsa, con quel sinistro velenosissimo a girare che lascia senza scampo il portiere avversario. Poi, lento ed inesorabile, incomincia il declino, a neanche trent’anni: nelle ultime due stagioni in Emilia, le sue apparizioni in campo sono sempre più sporadiche, e i suoi numeri un lontano ricordo. Nell’estate 2008 tenta, con ben poco successo, l’avventura con il Brescia, memore dei fasti che il suo idolo Baggio aveva vissuto al Rigamonti: ora di settembre però il contratto è già rescisso, e a nulla serve un ritorno dal maestro Mondonico alla Cremonese, in serie C1, con la quale disputa solamente tre gare. Nel 2009, a 33 anni, Domenico Morfeo è ufficialmente un ex calciatore, riprendendo a giocare e a divertirsi nella squadra dilettantistica del suo paese.

Genio e incostanza, tutti gli appassionati ricorderanno sempre quei tocchi morbidi, quei colpi di fioretto, quelle punizioni imparabili e quei sinistri velenosi che hanno illuminato la serie A per diverse stagioni. Lo ricorderanno con un po’ di rammarico, perché quel ragazzo che a 18 anni incantava Bergamo, con un po’ più di fortuna e forse di impegno avrebbe potuto avere ben altra carriera.