ALLA SCOPERTA DELL’UDINESE AMMAZZAGRANDI

Nel giro di una settimana ha sconfitto Juventus ed Inter. Nel corso del campionato aveva già sconfitto il Napoli (oggi secondo) e pareggiato a San Siro col Milan capolista per 4 a 4. Parliamo dell’Udinese.

Totò Di NataleNel giro di una settimana ha sconfitto Juventus ed Inter. Nel corso del campionato aveva già sconfitto il Napoli (oggi secondo) e pareggiato a San Siro col Milan capolista per 4 a 4. Stiamo parlando dell’Udinese, squadra che dopo l’importantissima vittoria di Torino si trova ora in sesta posizione, a due soli punti da una zona Champions che non è poi così un miraggio.

Parliamone, allora, di questa macchina costruita da Guidolin. Perché l’undici di base è ben definito e i meccanismi piuttosto chiari. Riuscendo a raccogliere risultati così importanti, poi, vale proprio la pena analizzare un po’ come stiano le cose in quel di Udine.

In Friuli il mister di Castelfranco Veneto sta impostando un 3-5-2 piuttosto quadrato capace di mettere in difficoltà un po’ tutti gli avversari grazie ad un mix di grinta, rapidità e talento davvero importante. Partiamo dalla difesa, quindi. Dove possiamo trovare tre uomini schierati a protezione del solito Handanovic, ormai alla quarta stagione da titolare in Friuli: Benatia, Zapata e Domizzi, schierati con il colombiano come centrale posto un paio di metri dietro ai due compagni. E proprio il ragazzo di Padilla è colui che con la sua esperienza, a fronte dell’ancor pur giovane età, è deputato a guidare l’intero reparto.

Detto del reparto arretrato passiamo quindi in mediana. Al centro del campo si schierano infatti tre giocatori deputati ad effettuare tre lavori specificatamente diversi: se Inler è il motorino di un centrocampo che gira grazie al suo dinamismo ma, soprattutto, attorno alle sue giocate e seguendo il tempo che proprio da lui è dettato, Pinzi è invece il soldatino infaticabile che effettua un importantissimo doppio lavoro, andando tanto a pressare alto le fonti di gioco avversarie quanto a tamponare le incursioni sulla propria trequarti campo. Chiude il lotto quel Kwadwo Asamoah che è invece un po’ il tuttofare del reparto: abbinando qualità e quantità, infatti, l’ex Liberty Professional contribuisce a dare nerbo al proprio centrocampo addizionando anche un lavoro importante in fase offensiva, dove sa spesso rendersi anche pericoloso grazie ad una discreta castagna e a tempi d’inserimento piuttosto buoni.

I giocatori chiave di questa Udinese guidoliniana non sono però quelli sin qui citati, che pur importanti non rivestono il ruolo centrale dei tre che vado a presentare ora: Armero, Isla e Sanchez.

Se i primi due contribuiscono, con il loro lavoro instancabile, a cucire i tre reparti infoltendo la linea di retroguardia quanto dando un’opzione in più in fase di possesso il terzo è il giocatore capace di sparigliare le carte in tavola, inventandosi la giocata risolutiva quanto piazzando l’accelerazione decisiva al momento giusto. Ma vediamo le cose più nel concreto: Armero ed Isla, due giocatori che in altri contesti potrebbero forse apparire solo onesti mestieranti del pallone, ricoprono in quest’intelaiatura un’importanza centrale. Dotati di un atletismo realmente importante, infatti, sanno coprire tutta la fascia senza colpo ferire, andando quindi tanto ad infoltire la retroguardia in fase di non possesso, allor quando schiacciandosi in linea con Domizzi, Zapata e Benatia possono trasformare la difesa in una linea a cinque, quanto a risultare determinanti in fase di possesso, sapendo scendere come treni per mettere in mezzo palloni importanti. Un po’ come quello del definitivo due a uno sulla Juventus di domenica sera. Ma non solo: sempre restando alla partita di Torino va detto che i due possono risultare importanti anche quando cercano di giocare quanto più larghi che mai, finanche proprio a ridosso della linea laterale, per provare ad aprire il più possibile la squadra avversaria, con i terzini altrui costretti a loro volta ad allargarsi per cercare di controllarli, andando quindi spesso a creare falle centrali importanti. Fondamentale anche il gioco di Sanchez, che abbinando una rapidità superlativa ad una creatività rara sa essere quell’uomo capace di andare tanto a giocare tra le linee quanto a svariare sulla fascia per trovare il varco giusto.

Chiude quest’undici che sta tornando a far sognare il pubblico del Friuli capitan Totò Di Natale, che dopo aver rifiutato in estate il passaggio proprio alla Juventus sta disputando un ennesimo campionato su livelli stratosferici. Prima punta atipica, Di Natale abbina rapidità, esperienza e fiuto del goal in un mix unico e letale che si è tradotto nelle quindici reti realizzate sino ad oggi dal bomber di Napoli.

Fin dove possa arrivare, questa squadra, non è dato saperlo. Di certo finché le cose gireranno come sta accadendo ultimamente nessun traguardo sarà impossibile. Certo non quel quarto posto che sembra oggi realmente a portata di mano e che sarà sicuramente raggiungibile se l’undici di Guidolin continuerà a marciare sulla strada sino ad oggi intrapresa.

PAOLO FORNACIARI, CUORE DI GREGARIO

Dai successi tra i dilettanti al treno di Re Leone: un profilo di Paolo Fornaciari, quindici anni da gregario di lusso

Paolo FornaciariFilastrocca del gregario
corridore proletario,
che ai campioni di mestiere
deve far da cameriere,
e sul piatto, senza gloria,
serve loro la vittoria
.

Ci sono quei corridori che vincono e stravincono, sempre sul podio o a caccia di tappe, di classiche, di grandi giri. E ci sono quei corridori che aiutano a vincere e a stravincere, ad andare sul podio e a caccia di tappe, di classiche, di grandi giri. Il termine che identifica questo genere di atleti è “gregario”, già in uso nell’antica Roma per indicare i soldati semplici privi di gradi. Il grande Gianni Rodari, con la filastrocca riportata sopra, li ha definiti meglio di moltissimi esperti di ciclismo. E in questa definizione rientra appieno Paolo Fornaciari. Il nome sarà forse noto solo a qualche vero appassionato delle due ruote, proprio perché il “lavoro oscuro” è stata la sua forza, come quella di tutti i gregari.

Paolo Fornaciari nasce nella splendida Viareggio il 2 febbraio 1971, figlio di Mario e Graziella. La Toscana è da sempre terra di ciclisti, per le sue colline verdeggianti alternate a interminabili pianure: il ragazzo non fa eccezione, e a 7 anni inizia a gareggiare tra i giovanissimi con la maglia dell’U.C. Stiava, cogliendo qualcosa come 100 vittorie in cinque anni di gare. Il salto di categoria, prima tra gli esordienti e poi tra gli allievi, non gli fa perdere la mentalità vincente, visto che il Fornaciari in divisa U.S. Versilia porta a casa 75 successi spalmati su quattro stagioni. Dal 1988 al 1992 gareggia poi con i colori del G.S. Bottegone, squadra dell’entroterra pistoiese, dove trova un grande feeling con la gente del paese e con il presidente della società Renzo Bardelli. Del resto, Paolo è un toscano a tutti gli effetti: cresciuto col mito di Gino Bartali, ha un carattere schietto e guascone, che non può non renderlo simpatico ai più. I successi diminuiscono di numero ma sono di grande qualità, considerando le difficoltà delle categorie juniores e dilettanti: fa suo un durissimo Giro del Casentino, vince il campionato regionale toscano, fa parte del quartetto che trionfa ai Mondiali Militari in Olanda nel 1990 e sfiora il Mondiale juniores di Mosca 1988, raggiunto ai 3 km dal traguardo dopo un’interminabile fuga con vista sul Cremlino. In quegli anni i suoi duelli con Michele Bartoli e Francesco Casagrande, altre gemme del ciclismo toscano, riempiono le pagine dei quotidiani locali, convinti che queste tre stelle regaleranno grandissime soddisfazioni anche tra i professionisti.

A ventuno anno, Fornaciari firma per la Mercatone Uno diretta da Antonio Salutini e Flavio Miozzo: prima uno stage e poi questa squadra, che dal 1996 cambierà il main sponsor in Saeco, sarà casa sua dal 1993 al 1998. Proprio il team manager Salutini, toscano come lui, gli fa capire che potrà avere una lunga carriera al servizio dei compagni: qui avviene il cambiamento, qui il Fornaciari vincente delle categorie giovanili diventa il Fornaciari “gregario d’oro” che passerà in un lampo dalla testa alla coda del gruppo, dal tirare a ritmi forsennati al recuperare borracce e panini, sorridendo e scherzando, magari discutendo con qualche moto della carovana troppo vicina ai corridori (anche se il ruolo di “Brontolo” ufficiale del gruppo in quegli anni spettava a Fabio Baldato e Roberto Conti). Corre al fianco degli stessi Bartoli e Casagrande, oltre che del veloce Martinello, e fa sempre il suo lavoro con grande professionalità: che ci sia da recuperare sui fuggitivi o da essere il primo ad attaccare, da tirare una volata o da prendere le prime rampe di una salita a tutta, lui c’è, e viene rispettato e stimato da tutti per la sua propensione al sacrificio, oltre che per la sua simpatia. Nel 1994 arriva anche l’unico successo tra i professionisti: una tappa all’Herald Sun Tour, in Australia, sotto un caldo infernale, al termine di una fuga infinita. Valente passista col fisico da corazziere (191 cm x 80 kg, quando la buona cucina non lo tradisce), è al fianco di Ivan Gotti che vince il Giro d’Italia 1998, ed è uno degli immancabili componenti del “treno rosso” che lancia gli sprint del Re Leone Cipollini. Nel 1999 passa alla Mapei di patron Squinzi, dove ritrova Michele Bartoli, Paolo Bettini e Andrea Tafi: l’atleta di Fucecchio si aggiudica la Parigi-Roubaix di quell’anno anche grazie alla straordinaria prova dello stesso Fornaciari, che marca a uomo i suoi rivali e che lo “protegge” sino agli ultimissimi chilometri. Poi, sempre più esperto e sempre più gregario, torna alla Saeco nel 2003: il team, diretto da Giuseppe Martinelli, si fonde con la Lampre nel 2006 e sarà l’ultima squadra di Fornaciari. Gilberto Simoni (Giro d’Italia 2003) e Damiano Cunego, vincitore della corsa rosa l’anno successivo, possono contare sull’immortale “Forna”, pedina preziosissima per i loro successi, soprattutto nelle lunghe tappe di pianura dove occorre far girare le gambe a ritmi forsennati per tenere compatto il plotone. Non è raro vedere il toscano all’attacco in alcune frazioni dei grandi giri, per fare in modo che i suoi compagni possano stare al riparo nella pancia del gruppo principale.

Nel 2008, a 37 anni suonati, Paolo decide che è il momento di appendere la bicicletta al chiodo, dopo sedici stagioni di gioie e sacrifici, con la partecipazione ad undici edizioni del Giro d’Italia, 5 Tour de France, 4 Vuelta, 10 Gand-Wevelgem e 8 Parigi-Roubaix, tanto per fornire qualche numero indicativo.

Nella “su ‘asa” di Buggiano, dove risiede da molti anni a questa parte,, si dedica a smontare e rimontare motorini e a leggere i libri di Ken Follett: a differenza di molti colleghi, non resta nell’ambiente delle due ruote, ma, anche per rimanere vicino alla moglie Maddalena e alle figlie Greta ed Arianna, apre una gelateria in paese, mettendo a frutto le sue ottime abilità culinarie che, a causa della ferrea dieta dei ciclisti, venivano di molto limitate durante le stagioni in bici. Stranamente, la bottega si chiama “Ultimo Kilometro” ed è simboleggiata da un triangolo rosso, proprio come il segnale che contraddistingue gli ultimi mille metri di una corsa ciclistica. Perché corridori si resta sempre, anche quando si è scesi di sella.

WCL III: SALVEZZA SOFFERTA, SALVEZZA MERITATA

La Nazionale di Cricket raggiunge la salvezza alla penultima giornata nella World Cricket League III Division

PetricolaQuella del cricket sarà anche la squadra più multietnica fra le nazionali italiane, ma il suo multiculturalismo non si riflette di certo nelle sue prestazioni che tendono semmai a confermare uno dei più celebri stereotipi legati alla mitologia del nostro Stivale, ovvero: raggiungere gli obiettivi prefissi solo dopo estreme sofferenze e attraverso i percorsi più difficili. Un mito nato nella prima guerra mondiale e rafforzato dalle prestazioni della nazionale di calcio nel 1982 e nel 2006.

Dopo la prima benaugurante vittoria con la Danimarca e la sconfitta di misura con Papua, gli azzurri sono incappati in due sconfitte beffarde contro l’Oman e Hong Kong. In entrambe le partite, quando il risultato sembrava ormai acquisito, è sopraggiunta una sorta di paura di vincere che ha portato mediocri battitori a indovinare le giocate della vita capaci di capovolgere l’esito dell’incontro. All’ultimo appello però, nello scontro salvezza contro gli Stati Uniti, gli azzurri hanno scacciato ogni timore portando a casa la meritata salvezza, ottenuta grazie al migliore net run rate (in gergo calcistico può essere paragonato alla differenza reti). In questo senso si è rivelata decisiva la partita contro Papua Nuova Guinea in cui gli americani sono stati umiliati; tutti eliminati a sole 44 runs dopo 20 overs mentre gli italiani hanno venduto cara la pelle.

Domani si giocherà contro l’Oman una partita pressoché inutile. Sarà però l’occasione per vedere all’opera uno dei migliori battitori del campionato, Thushara Kurukulasuriya e il prospetto, Roshendra Abewikrama.

ITALIA – STATI UNITI
Italia vince di 4 wicket
Stati Uniti 222-8, 50 overs / Italia 225-6, 47 overs

La scelta di iniziare al lancio si rivela decisiva. Gli Stati Uniti in cinquanta overs raggiungono una quota importante, 222; sono soprattutto Alaud Din, Munasinghe e Northcote a limitare le corse degli americani, mentre Petricola conclude il primo inning con ben quatto wicket e un catch.

In battuta l’inizio non è dei più promettenti dopo 13.3 overs quattro dei nostri migliori battitori sono già stati eliminati: Northcote (13 runs) Damian Fernando (17) Bonora (10) Crowley (2). In questa delicata fase è bravo Petricola (69 not out) a non prendersi rischi che avrebbero potuto compromettere l’incontro. L’italo-australiano, in partnership con Patrizi, trova una splendida intesa che produce 102 runs e rimette in carreggiata gli azzurri. Dopo l’eliminazione di Patrizi è Michael Raso con, il suo gioco aggressivo, a prendere punti pesanti per chiudere l’incontro portando, con 38 runs in 29 palle, gli azzurri a quota 217, a sole 5 runs dalla vittoria. Con i compagni di squadra oltre ai boundary già pronti a festeggiare, Petricola e Jayasena chiudono la pratica. Gli ambiziosi Stati Uniti si devono arrendere alla nostra nazionale che, dopo essersi enormemente complicata la vita, raggiunge la meritata salvezza.

Papua Nuova Guinea e Hong Kong sono promossi in seconda divisione, Danimarca e Stati Uniti scendono in quarta.

CLASSIFICA
Giocate vinte perse PT Net RR
PAPUA NUOVA GUINEA 5 4 1 8 1.114
HONG KONG
5 3 2 6 0.833
OMAN 5 3 2 6 0,077
ITALIA 5 2 3 4 -0.004
STATI UNITI
5 2 3 4 -0.661
DANIMARCA 5 1 4 2 -1.503

UN NUOVO FILM SU BILL JOHNSON: LA STORIA TRISTE DI UN DISCESISTA TEMERARIO

Il 30 gennaio sarà proiettato in anteprima al Film Festival di Santa Barbara “Downhill: The Bill Johnson Story”, documentario sulla vita di Bill Johnson.

Bill JohnsonQuando la fama e il successo arrivano all’improvviso, altrettanto all’improvviso possono andarsene via.” Phil Mahre, campione statunitense di sci alpino degli anni ’80, a proposito di Bill Johnson.

Un nuovo film documentario storico sportivo sta per essere presentato in prima visione domenica 30 gennaio al Film Festival di Santa Barbara, in California. Prodotto dal network statunitense di video on demand, The Sky Channel, è stato diretto dall’esordiente trentasettenne regista californiano Zeke Piestrup, che vanta anche una breve carriera di discesista a livello juniores nel proprio curriculum. Il film tratteggia la storia di una meteora dello sci alpino degli anni ’80, Bill Johnson, che negli USA visse un momento di gloria nel febbraio del 1984, quando si aggiudicò a sorpresa, primo americano della storia, la medaglia d’oro nella discesa libera, lasciandosi alle spalle campioni del calibro degli svizzeri Peter Müller e Pirmin Zurbriggen, e dell’austriaco Franz Klammer.

La sua inaspettata vittoria mandò in delirio gli sportivi statunitensi, anche se fece storcere il naso ai puristi dello sci del nostro continente, presi in contropiede da questo discesista che affrontava le curve in modo spericolato, e proprio quando sembrava perdere l’equilibrio, riusciva a rimettersi in perfetto assetto, ancora più saettante di prima. Il giorno dopo la gara, ironizzando sulla sua adolescenza difficile, durante la quale aveva conosciuto il riformatorio, un quotidiano britannico era arrivato ad intitolare: “Sarajevo: un ladro d’auto ha rubato la medaglia d’oro.

Insensibile alle frecciate, il ventitreenne Bill Johnson si sentiva trascinare dal vento del successo, e con un pizzico di cinico ottimismo, a una domanda di un giornalista sul significato della sua vittoria olimpica aveva replicato: “Vuol sapere che significa per me? Milioni. Tanti milioni.” Come personaggio aveva raccolto subito la simpatia del pubblico americano, e un anno dopo sarebbe stato realizzato un film televisivo sul suo trionfo di Sarajevo.

Ma dopo avere vinto altre due gare di coppa del mondo nelle discese di Aspen in Colorado e di Whistler Mountain in Canada nel marzo 1984, un infortunio prima al ginocchio e poi alla spalla avevano oscurato la stagione successiva. Il recupero auspicato non sarebbe avvenuto, e le sue successive apparizioni non lo avrebbero più visto nelle posizioni di alta classifica. Gli allenatori della squadra statunitense erano dell’avviso che la sua condizione di forma non era più ottimale, e quando glielo avevano rinfacciato, lo avevano fatto schiumare di rabbia. Ne era scaturito un alterco verbale che il passionale Bill aveva condito con insulti da caserma. Si stavano avvicinando i giorni delle Olimpiadi di Calgary 1988, e si era così giocato le proprie ultime chance di prendervi parte con lo squadrone a stelle e strisce.

L’anno dopo, ad appena ventinove anni, annuncia il ritiro dalla vita sportiva, ed insieme alla moglie intraprende una nuova esistenza itinerante in giro per gli Stati Uniti, con un camper che fungerà da nuova casa per quasi dieci anni. Ma passato l’entusiasmo romantico per questa avventura sulle orme dei personaggi di Kerouac, e dilapidati rapidamente i guadagni del dopo olimpiade, la coppia si troverà alle prese con gravi difficoltà economiche, e sopravvivrà di espedienti, come l’organizzazione, poi fallita, di un circo bianco di vecchie glorie dello sci, insieme ad altre sfortunate incursioni nell’imprenditoria sportiva.

A questo si aggiungerà nel 1992 la tragedia della perdita del primo dei tre figli per un incidente domestico, finché alla fine degli anni novanta Bill Johnson verrà abbandonato dalla moglie col resto della famiglia al seguito. Questa batosta gli si rivela particolarmente difficile da sopportare; e a quel punto il suo desiderio principale diventa quello di riconquistare la compagna perduta. Comincia così a balenargli nella mente un colpo ad effetto: ritornare a gareggiare nella discesa libera, possibilmente per le imminenti olimpiadi di Salt Lake City. Anche in questo caso però la realtà si rivela più complicata dei sogni; e nonostante i duri allenamenti a cui si sottopone, ormai ultraquarantenne, non riesce ad essere sufficientemente competitivo nei confronti dei più giovani e fisicamente più esuberanti avversari.

La granitica volontà di farcela è superiore alla consapevolezza dei limiti fisici, e il 22 marzo 2001, mentre scende in prova prima di una gara nel Montana perde il controllo degli sci e rovina violentemente contro un blocco di neve ghiacciata. Gli spettatori ai bordi della pista sentono un grido d’aiuto straziante e disperato. I primi soccorsi arrivano dopo pochi istanti, ma il volto dell’ex campione è già coperto dal sangue che cola copiosamente dalla bocca e da un orecchio. Il trasporto in ospedale è altrettanto puntuale, e Johnson viene operato per rimuovere una vistosa emorragia cerebrale. La sua fibra da atleta riesce a salvargli la vita, ma gli effetti dell’incidente sono devastanti: le sue facoltà cognitive sono definitivamente compromesse, e l’intera parte destra del corpo è paralizzata irreversibilmente.

Dopo cento giorni di degenza in un centro di riabilitazione, la sua assicurazione sanitaria non gli ha permesso di restare altro tempo, e viene rimandato a casa per essere affidato alle cure dell’anziana madre. La notizia del suo incidente ha colpito profondamente il mondo dello sci americano, che si è prontamente mobilitato per raccogliere i fondi necessari alla sua assistenza. In particolare l’ex campione statunitense Phil Mahre, suo amico e protagonista del documentario “Downhill: The Bill Johnson Story” insieme a Franz Klammer e a lui stesso, non ha mai smesso di impegnarsi in iniziative di beneficienza per la sua causa.

LE BRACI

La nazionale ungherese di pallanuoto richiama in tutta fretta Kiss e Kásás. Ma forse è troppo tardi.

Tornare indietro sui propri passi, spesso, è una parziale sconfitta. E, se a farlo è la nazionale di pallanuoto maschile dell’Ungheria, il rumore dei passi rimbomba maggiormente. A nulla è servito il ricambio generazionale avviato all’indomani dell’oro olimpico di Pechino, il terzo consecutivo dopo Sydney e Atene: in vista dei Mondiali di Shangai sono stati richiamati, e anche in fretta, due senatori come Tamás Kásás (34 anni) e Gergely Kiss (33), oramai usciti dai piani del ct Kemény.

La notizia, ufficializzata poco dopo le festività natalizie, non fa che certificare ulteriormente lo stato di crisi della pallanuoto magiara. E anche la conferma della medaglia più prestigiosa a Londra inizia a vacillare. Insomma, dell’Ungheria dominatrice (quasi) incontrastata di qualsiasi competizione sembra che siano rimaste solo le braci, per citare un celebre romanzo di Sándor Márai, figura di spicco della letteratura ungherese. Il 14-10 inflitto agli Stati Uniti tre anni fa nella finalissima di Pechino rischia, dunque, di essere il canto del cigno della Grande Ungheria di Kémeny: a quell’ennesimo, straodinario trionfo hanno fatto seguito il quinto posto ai Mondiali di Roma ed il quarto agli Europei di Zagabria, dove i magiari sono stati sconfitti in semifinale da un’Italia sì emozionante ma non certo superiore quanto ad esperienza in campo internazionale.

Non che vada meglio nelle competizioni riservate ai club: in Eurolega l’unica ungherese che può ancora cullare sogni di qualificazione ai quarti di finale è il Vasas, seconda nel proprio girone assieme al Primorac Kotor (7 punti) quando manca una sola giornata alla chiusura del turno preliminare. Magra la figura rimediata dallo Szeged Beton, inserito nello stesso gruppo, capace di raccogliere appena due punti in cinque partite. Peggio ancora ha fatto l’Eger, portacolori ungherese del girone D: finora Jug Dubrovnik, Primorje e Atlétic Barceloneta hanno sempre vinto contro una squadra che, è bene ricordarlo, può contare su campioni di indiscutibile valore quali Szécsi, Hosnyánszky, Biros e Zsolt Varga. L’Ungheria langue pure nella Coppa LEN: mentre l’Honvéd sembra poter arrivare alle semifinali – ma il vantaggio di tre reti sull’Oradea è minimo, e la Florentia ne sa qualcosa – il Ferencváros è prossimo all’uscita di scena per mano della Rari Nantes Savona, che a Budapest arriverà forte dei cinque gol di differenza in proprio favore.

Sia chiaro, nessuno oserebbe mai avanzare dei dubbi sul valore tecnico di Kiss e, soprattutto, Kásás. Non fosse altro che il centrovasca della Pro Recco è l’unico pallanotista ad aver vinto una medaglia d’oro in tutte le competizioni, comprese quelle giovanili. E a suo favore potrebbe giocare la possibilità di essere schierato solo in Eurolega, a causa del tetto di due stranieri imposto nel campionato italiano: meno partite stagionali che equivalgono ad una maggior freschezza atletica. Difficile, però, pensare che due soli giocatori possano risollevare i destini di un’intera nazionale.

Simone Pierotti