WCL III: AGGRAPPATI ALLA SPERANZA

CricketAlla vigilia di questo torneo i media internazionali non davano troppa fiducia alla compagine italiana; dopo quattro partite i ragazzi di Joe Scuderi, pur dimostrando di possedere le qualità necessarie per restare nella categoria, si trovano come da pronostico nelle sabbie mobili del fondo classifica. Dopo la vittoria con la Danimarca, gli azzurri hanno sfoderato un’ottima prestazione contro la schiacciasassi Papua Nuova Guinea e le partite contro Oman e Hong Kong sono state comunque di buon livello. In questi ultimi due incontri però, quando l’Italia sembrava avere la partita in pugno, qualcosa è andato storto. Alla lunga la strategia di cominciare in battuta non ha pagato, dal nulla sono sempre comparsi dei carneadi, il cui torneo era stato fino a quel momento in ombra, capaci di sfoderare dal nulla prestazioni magnifiche. Contro l’Oman Awal Khan, che in precedenza non aveva mai superato quota 10 runs, ne ha portate a casa 81, contro Hong Kong, quando ormai la partita sembrava vinta, Aziaz Khan (i due non sono parenti ma sono entrambi di origine pakistane) ha prodotto da otto palle ben 24 punti. Non è stata solamente questione di sfortuna, in quanto abbiamo subito eccessivamente i mille order batsman (battitori che sulla carta non dovrebbero essere particolarmente incisivi rispetto ai primi). Se le prestazioni individuali dei battitori hanno coperto qualche passaggio a vuoto, al lancio si è sentita un po’ troppo l’assenza di Alaud Din.

La Danimarca ferma come noi a una sola vittoria venerdì sfiderà l’Oman mentre Hong Kong se la dovrà vedere con Papua Nuova Guinea. Per restare nella categoria c’è solo una possibilità: battere gli Stati Uniti.

ITALIA – OMAN
Oman vince di 1 wicket
Italia 240, 50 overs / Oman 244, 48,5 overs

Gli italiani, con Raso al posto di Alaud Din, cominciano in battuta. Malgrado la prematura eliminazione di Andy Northcote (11 runs) la partnership fra Damian Fernando (45) e Alessandro Bonora permette agli azzurri di prendere il largo raggiungendo quota 100 dopo 27 overs (serie di 6 lanci). Dopo l’eliminazione di Fernando nessun battitore azzurro riesce però a trovare il giusto ritmo, pesano soprattutto il duck (eliminazione a zero punti) di Petricola e l’unico punto di Patrizi, preferito a Crowley come wicket-keeper. La scarsa vena dei battitori azzurri è messa in secondo piano dalla prestazione magistrale del capitano Bonora capace di mettere a segno 124 punti – più della metà dei totali – senza essere eliminato.

Il century del capitano purtroppo si rivelerà inutile. Le buone prove al lancio di Petricola, Dilan Fernando e soprattutto Munasinghe, limitano inizialmente i forti battitori asiatici. Dopo 14.4 overs, con l’Oman a quota 63 sono già 6 gli eliminati, ma inaspettatamente Sultan Ahmed (29), Awal Khan (81) e Amir Ali tirano fuori dal cilindro una prestazione sublime che permette agli arabi una clamorosa rimonta che si concretizza a 8 palle dal termine dell’incontro. Una beffa che non sminuisce la prestazione degli azzurri, ma complica purtroppo la situazione in classifica e accresce i rimpianti per due catch mancati sul determinante Awal Kahn.

ITALIA – HONG KONG
Hong Kong vince di un wicket
Italia 235-8, 50 overs / 236-9, 49.4 overs

Incredibile è l’aggettivo più adatto per descrivere quest’incontro. L’Italia comincia in battuta e se gli openers Northcote e Damian Fernando racimolano solamente 21 punti ci pensano Bonora (40) Crowley (32) e un ritrovato Petricola (104 not out) a recuperare l’affannoso inizio. Dopo la prestazione superba di Bonora contro l’Oman questa volta è il nostro uomo migliore, Petricola, a caricarsi con un century la squadra sulle spalle. Alla fine dell’inning gli azzurri hanno portato a casa un buon bottino di 235 runs. Hong Kong viene limitata grazie alla superba prova di Petricola che concede in 10 overs solamente 19 runs. L’Italia sembra avere la partita in pugno. A 12 palle dal termine infatti Hong Kong era sotto di 24, a cambiare la partita ci pensa Aziaz Kahn che con sole 8 palle giocate colma il gap e permette ai padroni di casa di ottenere una quasi matematica salvezza. Per l’Italia è una beffa e solo una vittoria contro gli Stati Uniti, vittoriosi nella notte contro l’Oman, potrà garantire la salvezza.

LE PALLOTTOLE DI LURGAN

Calcio nordirlandese, Old Firm e settarismo: un capitolo ancora aperto dopo le intimidazioni a Neil Lennon, Paddy McCourt e Niall McGinn.

Per i ragazzi della Loyalist Volunteer Force di Lurgan, lui è solo “un taig dell’altra parte della città”. Uno sporco cattolico, uno di quelli là. Lurgan, contea di Armagh, è (parole di Susan McKay del Guardian) “una cittadina amara, uno di quei paesi nordirlandesi con una linea invisibile a dividerla a metà: negozi cattolici da una parte, protestanti dall’altra”. Con i vicini paesi di Portadown e Craigavon, Lurgan è uno dei vertici del cosiddetto triangolo degli omicidi e uno dei centri dove i cosiddetti repubblicani dissidenti, critici verso la linea istituzionale e sistemica del Sinn Féin, godono del maggior supporto. Il taig in questione invece è Neil Lennon, centrocampista che ha legato la sua carriera al Celtic di Glasgow, la squadra cattolica e repubblicana della città scozzese. Sette anni da giocatore, due dei quali da capitano, prima di chiudere la carriera in Inghilterra e tornare al Celtic Park, a marzo 2010, in veste di allenatore. Celtic vuol dire Old Firm, lo storico derby glasvegiano in cui i Bhoys bianco-verdi affrontano i Rangers, di estrazione protestante e lealista. Una trasposizione calcistica della questione nordirlandese sull’altra sponda del Canale del Nord che rende gli spalti dell’Ibrox Stadium e del Celtic Park altoparlanti dell’odio settario, come racconta Franklin Foer nel suo How Football Explains the World: “A piena gola, cantano lodi al nostro massacro: we’re up to our knees in Fenian blood, siamo ricoperti fino alle ginocchia di sangue feniano”. Secondo Foer tra il 1996 e il 2003 otto morti e centinaia di assalti accaduti a Glasgow sono direttamente riconducibili all’Old Firm.

Sotto la guida di Lennon, ora squalificato per sei incontri in seguito ad alcune dichiarazioni polemiche contro gli arbitri, il Celtic sta disputando un’ottima stagione, guidando la classifica di Scottish Premier League con cinque punti in più dei Rangers che, però, hanno disputato due gare in meno. Nel 2011 i Bhoys hanno raccolto 10 punti su 12 a disposizione. Nelle ultime tre gare il protagonista è stato il ventunenne irlandese Anthony Stokes: il giovane dublinese è stato l’autore della rete decisiva nella vittoria 1-0 sull’Aberdeen, ha messo a segno una doppietta nel 3-0 sugli Hibernians e ha siglato il rigore del pareggio a tempo scaduto contro l’Hamilton alla fine di una gara tesissima (“a drama-filled clash”, Stevie Miller, BBC) segnata dai tre cartellini rossi estratti dall’arbitro Willie Collum. Soprattutto, però, l’anno si è aperto il 2 gennaio all’Ibrox Stadium con la vittoria 2-0 sui Rangers, propiziata da una doppietta del greco Georgios Samaras.

Una sconfitta che evidentemente non è stata ben digerita dai tifosi dei Blues: tra il 9 e l’11 gennaio è stata resa nota la notizia di tre buste contenenti proiettili intercettate dalla Royal Mail e indirizzate a Lennon e ai due giocatori nordirlandesi della squadra, Paddy McCourt e Niall McGinn. Le buste dirette a Lennon e McGinn sono state intercettate all’ufficio di smistamento di Mallusk (nella contea nordirlandese di Antrim), mentre quella diretta a McCourt, scoperta un paio di giorni dopo, è stata fermata in un sorting office già a Glasgow. Tutte e tre le missive erano state spedite dall’Irlanda del Nord. Paddy McCourt, soprannominato “il Pelé di Derry”, è alla terza stagione con il Celtic e ha vestito quattro volte la maglia della nazionale. Niall McGinn, ventitreenne, è approdato al Celtic nel 2009, un anno dopo aver debuttato in nazionale contro l’Ungheria, primo giocatore del Derry City a vestire la maglia dell’Irlanda del Nord da 19 anni. Pupillo del commissario tecnico Nigel Worthington, ha già collezionato dieci presenze internazionali. Nessuno dei due giocatori aveva mai ricevuto intimidazioni prima d’ora, a differenza di quanto successo a Lennon. L’allenatore ha voluto parlare con entrambi i giocatori e consigliarli, memore della sua storia e della sua esperienza. “Nessuno meglio di Neil può aiutare i giocatori ad attraversare questi avvenimenti”, ha dichiarato il vice di Lennon Johann Mjällby. Non solo nel 2008 Lennon era finito in ospedale dopo esser stato aggredito a Glasgow da parte di alcuni tifosi del Rangers, ma l’odio settario è stata anche la causa della fine prematura della sua carriera internazionale.

Neil Lennon ha vestito quaranta volte la maglia della nazionale nordirlandese, esordendo contro il Messico nel 1994. Cattolico, nel 2000 approdò a Glasgow – sponda Celtic – ricevendo in cambio i fischi e gli insulti del Windsor Park di Belfast in occasione di diverse partite della nazionale, al punto che il giocatore minacciò il ritiro nel febbraio 2001 dopo una partita contro la Norvegia. Un ritiro rinviato di poco più di un anno: il 21 agosto 2002 Lennon avrebbe dovuto guidare la propria nazionale in un’amichevole contro Cipro proprio al Windsor Park, diventando così il primo capitano cattolico nella storia della green and white army. Quella sera Lennon non giocò. Non avrebbe mai più rappresentato la propria nazionale, annunciando il ritiro pochi giorni dopo. Motivo della decisione le minacce di morte ricevute dal giocatore: poche ore prima del match, con una telefonata alla sede di Ormeau Road della BBC, la Loyalist Volunteer Force aveva annunciato che avrebbe ucciso Lennon se questi avesse messo piede in campo. Una telefonata controversa, visto che non conteneva nessuna delle parole d’ordine segrete con cui i gruppi paramilitari nordirlandesi autenticano le proprie minacce e rivendicazioni per evitare che qualsiasi impostore, qualsiasi eejit from the street, possa chiamare e parlare a nome loro. In seguito la LVF avrebbe declinato qualsiasi responsabilità riguardo all’accaduto, affermando sarcasticamente che “sta a Lennon decidere se giocare o meno, non siamo certo noi a fare la formazione”. Era possibile, come suggerì Neil Mackay dalle colonne del Sunday Herald, che si trattasse solo di un eejit, un “idiota” che voleva terrorizzare il giocatore. Certo è che l’odio settario non poteva in ogni caso essere ignorato dalla federazione nordirlandese, dalle forze dell’ordine e da Lennon stesso. La LVF aveva rotto l’accordo di cessate il fuoco meno di un anno prima, assassinando il giornalista investigativo Martin O’Hagan, concittadino di Lennon e responsabile di aver portato alla luce storie di racket e traffico di droga in collegamento all’organizzazione paramilitare. Pochi giorni prima del match – ironicamente sponsorizzato dall’associazione di promozione della convivenza Community Relations Council e inserito nella campagna Kick Sectarianism Out of Football – qualcuno aveva graffitato, nei pressi della casa dei genitori di Lennon, la scritta NEIL LENNON RIP e la silhouette di un impiccato. Padre di una bambina di dodici anni, il giocatore dichiarò: “Non posso far passare la mia famiglia attraverso questi problemi ogni volta. È un peccato che debba finire così, ma ci ho pensato a lungo e ho deciso che non tornerò a giocare per l’Irlanda del Nord. Sono molto deluso dal fatto che il mio desiderio di giocare per la mia nazione, in occasione della mia prima opportunità di capitanare la mia squadra, sia stato portato via”.

DALLA STRISCIA DI GAZA ALLE OLIMPIADI

Dopo la notizia degli accordi, raggiunti con la mediazione del Comitato Olimpico Internazionale, tra le autorità sportive israeliane e palestinesi rileggiamo la storia della Palestina alle Olimpiadi.

La squadra palestinese a Pechino 2008E’ dei giorni scorsi la notizia degli accordi, raggiunti con la mediazione del Comitato Olimpico Internazionale, tra le autorità sportive israeliane e palestinesi al fine di favorire la cooperazione dal punto di vista sportivo con lo scopo di aiutare gli atleti palestinesi a prepararsi per Londra 2012.  Di fatto l’accordo non andrà molto oltre il consentire a questi ultimi un accesso agli impianti di allenamento, favorendo la libera circolazione degli atleti e dei loro tecnici, funzionari e materiali innanzitutto tra Cisgiordania e Striscia di Gaza ma anche nei loro viaggi all’estero per evitare situazioni come quella che nel mese di ottobre del 2007 impedì alla nazionale di calcio di raggiungere Singapore per disputare un incontro valido per le qualificazioni alla Coppa del Mondo.

Per fare un po’ di storia del rapporto tra la moderna Palestina e il movimento olimpico è necessario ritornare al 1986 quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con sede a Tunisi e sotto la guida di Yasser Arafat, riuscì per ragioni simboliche e p0litiche a far riconoscere un Comitato Olimpico palestinese all’Olympic Council of Asia che si espresse, sotto la spinta dei paesi arabi, con voto unanime. La decisione provocò lo sdegno delle autorità israeliane per l’ammissione che si contrapponeva all’esclusione del loro Comitato Olimpico avvenuta nel 1982 e mai più rientrata al punto che nel 1994 lo sport israeliano fu costretto a diventare membro del Comitato Olimpico Europeo.

Furono però gli accordi di Oslo del 1993 la molla che trasformò il Comitato Olimpico palestinese da istituzione simbolica ad effettiva realtà sportiva; il diritto palestinese all’autogoverno e la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese fecero sì che potesse iniziare il processo per il riconoscimento dell’autorità sportiva da parte del CIO. Ai Giochi Asiatici del 1994 che si svolsero nella città giapponese di Hiroshima si registrò la prima partecipazione di una delegazione palestinese. Fu Mohammed Rabie Al Turk, attualmente vicepresidente del Comitato Olimpico, l’unico rappresentante, impegnato nel torneo di Tennis Tavolo.

Due anni più tardi e 24 anni dopo il massacro di Monaco nel quale un commando di guerriglieri dell’organizzazione palestinese Settembre Nero fece irruzione negli alloggi israeliani del villaggio olimpico portando alla morte di 11 atleti, 5 terroristi e un poliziotto tedesco, la bandiera palestinese sfilò alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Atlanta sancendo la prima partecipazione di una squadra della Palestina alle Olimpiadi. Fu Majed Abu Maraheel, un trentatreenne membro di Forza 17, la guardia personale di Yasser Arafat, a ricevere la bandiera dalle mani del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e ad onorarla ad Atlanta nella prima batteria dei 10.000 dove, ricevendo una standing ovation dal pubblico presente, chiuse all’ultimo posto in 34’40″50 a quasi sette minuti dal vincitore, l’etiope Worku Bikila. Prima della gara Maraheel aveva dichiarato “il mio obiettivo non è vincere l’oro ma far sapere al mondo che esiste la Palestina”, un motto che sta alla base di tutte le partecipazioni olimpiche della squadra palestinese.

Sono due gli atleti palestinesi a partecipare all’edizione successiva delle Olimpiadi a Sydney che vedono la prima partecipazione di una rappresentante femminile. Infatti, oltre al marciatore Ramy Al Deeb, figlio di un espatriato in Egitto durante la crisi del 1948,   che chiude i 20 chilometri al quarantaquattresimo posto, partecipa la nuotatrice Samara  Nassar, nata a Betlemme in Cisgiordania ma fuggita con la famiglia in Giordania al punto che, dopo il sessantacinquesimo posto di Sydney, parteciperà alle Olimpiadi anche quattro anni dopo ad Atene ma sotto i colori giordani.

Pochi mesi prima dell’appuntamento olimpico di Atene 2004, la squadra palestinese balza agli onori della cronaca per l’inserimento tra i possibili partecipanti della quarantasettenne greca Sofia Sakorafa, già detentrice del record del mondo del Lancio del Giavellotto negli anni ottanta e attivista politica, che prende il passaporto palestinese per partecipare, come gesto simbolico, alle Olimpiadi. L’incapacità di ottenere la misura limite richiesta le impedisce in ogni caso di scendere in campo. Sono, quindi, tre gli atleti a partecipare; c’è il diciassettenne Raad Awaisat che si allena nella piscina ad una corsia nel cortile di casa nella parte orientale di Gerusalemme e nei 100 metri farfalla ottiene il cinquantanovesimo tempo, dieci secondi più lento del vincitore. Insieme a lui, la mezzofondista Sana’ Abu Bkheet che si allena sotto i missili a Deir AlBalah, nel centro della Striscia di Gaza, e corre gli 800 metri in 2’32” e Abdasalam Al Dabaji, ottavo nella sua batteria maschile sempre degli 800 metri.

Tra difficoltà di allenamento, piscine chiuse ed assenza di vere piste di atletica, sono quattro gli atleti palestinesi alle ultime Olimpiadi, a Pechino, la cui partecipazione è ancora una volta garantita dai fondi di solidarietà del CIO e le cui storie di lotta e sofferenza diventano sempre più oggetto degli articoli di “costume” che si sprecano nelle occasioni olimpiche. Come la storia della diciassettenne Gharid Ghoruf che si allena su una pista in terra battuta in quel di Gerico e tra problemi di visti e viaggi perigliosi si ritrova ai Campionati Mondiali di Osaka nel 2007 iscritta nella prova sbagliata, lei specialista delle gare veloci correrà nelle batterie degli 800 metri. A Pechino riesce a correre la sua prova, i 100 metri, e chiude al settimo posto della batteria con il tempo di 13″07. Non meglio vanno la cose alla sua compagna Zakia Nassar che nel Water Cube è iscritta ai 50 stile libero e trova una piscina di dimensioni olimpiche dopo anni di allenamento in un impianto pubblico da 12 metri. L’impatto con il grande nuoto le consente di migliorare il suo personale di sette secondi con la grande soddisfazione di toccare per prima nella seconda batteria seppure il suo tempo (31″97) la piazzi in settantanovesima posizione lontana anni luce dalla qualificazione ai turni successivi. Ma le luci dei riflettori sono per il portabandiera, il corridore Nader Al Masri, l’unico atleta della squadra che provenga dalla Striscia di Gaza dove negli ultimi anni si sono fatti più critici i rapporti con gli israeliani. La sua figura diventa simbolo di una presenza già di per sè simbolica come quella dei territori palestinesi ai Giochi al punto di conquistare l’onore di apparire su Time nella lista dei 100 atleti da seguire a Pechino. Sotto la spinta dei movimenti per i diritti umani Al Masri ottiene solo qualche settimana prima della Cerimonia di Apertura il permesso di trasferirsi dalla Striscia di Gaza a Gerico per poter allenarsi.

Oggi, a 18 mesi dalla Cerimonia di Apertura delle Olimpiadi di Londra, i sogni olimpici si ripropongono e l’accordo della settimana scorsa potrebbe, in qualche modo, rendere meno impervia la via per gli atleti che saranno scelti a rappresentare la Palestina. La novità, in questa edizione, potrebbe essere rappresentata dall’attenzione, che finora ha latitato per motivi simbolici, agli espatriati o ai figli di espatriati. Un caso esemplare è arrivato negli ultimi anni dal Canottaggio dove la squadra palestinese è formata dal solo Mark Gerbar, nato a Filadelfia da madre ebrea e padre palestinese. Gerbar, (ora trentunenne), dopo qualche esperienza universitaria nel Nuoto e nel Canottaggio e il titolo di campione statunitense del 2003 nel Doppio Pesi Leggeri, ha deciso di sposare la causa palestinese e, oggetto a suo dire di discriminazione negli Stati Uniti, si è trasferito in Germania dove si è allenato con la squadra tedesca partecipando dal 2005 al 2009 a molte competizioni internazionali. Pur fallendo la qualificazione alle Olimpiadi di Pechino, Mark Gerbar ha ottenuto, con il suo sedicesimo posto nel Singolo Pesi Leggeri ai Mondiali del 2005 e del 2007, la miglior prestazione della storia dello sport palestinese in una rassegna iridata.

I SAMURAI FANNO SUL SERIO

Partiti come grandi favoriti della Coppa d’Asia, i Samurai Blu hanno terminato il loro girone in prima posizione per poi battere i padroni di casa del Qatar nei quarti di finale, al termine di una gara molto tirata e spettacolare.

GiapponePartiti come grandi favoriti della Coppa d’Asia, i Samurai Blu hanno terminato il loro girone in prima posizione per poi battere i padroni di casa del Qatar nei quarti di finale, al termine di una gara molto tirata e spettacolare. Parliamo quindi proprio dell’approccio tattico delle due squadre, focalizzandoci in particolare sulla nazionale del Sol Levante, e vediamo com’è andata la partita e chi ne è stato il grande protagonista.

Padroni di casa schieratisi con un classico 4-4-2 con Burhan a difesa dei pali protetto da una linea a quattro composta, da destra a sinistra, da Al-Hamad, Mohammed, Al Ghanim ed Abdulmaged. Ismail ed El Sayed le ali di centrocampo, Rizki e Quaye i mediani. Davanti, infine, Ahmed e Soria l’uno al fianco dell’altro. Di contro i giapponesi rispondono con un 4-2-3-1 con Kawashima in porta, Inoha e Nagatomo terzini e Yoshida-Uchida centrali. Endo e Hasebe i centrocampisti con licenza di rompere il gioco altrui per fare ripartire l’azione, ed un trio di trequartisti composto da Kagawa, Honda ed un Okazaki con licenza di scambiarsi di posizione con l’unica punta, Maeda.

Subito una buona partenza da parte dei padroni di casa che applicando un gran pressing sul centrocampo avversario impediscono alle due fonti di gioco nipponiche di poter impostare l’azione con efficacia. Per amplificare l’operato dei mediani, quindi, anche l’accoppiata Soria-Ahmed si mette a fare pressing alto, dando non pochi problemi al duo Uchida-Yoshida. Pressing, quello qatarese, abbinato ad una linea di difesa molto alta atta a tenere quanto più corta possibile la squadra. Aspetto, questo, riscontrabile anche da parte nipponica. Presto detto quale ne è stato il risultato: congestione massima a centrocampo.

E’ comunque bene, trattandosi di una rubrica di tattica calcistica, soffermarci un pochino di più sulla difesa giapponese. Perché come tutti credo ricorderete il buon Zaccheroni divenne famoso per l’adozione di un modulo poi non molto usato, ovvero sia un 3-4-3 che prevedeva una linea difensiva composta da tre soli uomini, contro i quattro di questo Giappone. Andando bene a vedere, però, la linea difensiva nipponica sa mutare di forma e sostanza un po’ con la stessa facilità con cui un camaleonte cambia il colore della propria pelle. Spesso e volentieri, infatti, uno dei terzini va a stringersi avvicinandosi ai centrali dando via libera all’altro, più libero di avanzare. Questo, che con la formazione base del match in esame vedeva spesso Inoha accentrarsi ed il cesenate Nagatomo sganciarsi, permette quindi alla retroguardia della nazionale del Sol Levante di passare da quattro a tre uomini, mutando quindi anche l’approccio difensivo della squadra intera.

Finezze tattiche a parte va comunque detto che ad inizio match ciò che si fa sentire di più è il fattore campo, che carica a molla i padroni di casa. Spronati dalla voglia di ben figurare davanti al proprio pubblico, infatti, i ragazzi allenati da Bruno Metsu partono subito a spron battuto cercando di imporsi fin dai primi attimi. Non risulta quindi essere un caso se Kawashima sarà chiamato a compiere due interventi importanti già nei primi nove minuti di gioco. Il tutto anche perché la difesa alta di cui abbiamo parlato risulta in realtà rivelarsi un’arma a doppio taglio per i Samurai Blu: se da una parte permetterà loro di tenere corta la squadra dall’altra darà modo agli avversari di poter colpire in velocità, quantomeno quando la trappola del fuorigioco non è in grado di scattare. Un po’ come al dodicesimo minuto di gioco, insomma, quando l’uruguaiano Soria, naturalizzato qatariota proprio per questioni calcistiche, s’infila sulla sinistra della retroguardia nipponica per poi, una volta entrato in area, battere Yoshida nell’uno contro uno andando ad infilare l’estremo difensore avversario con un tiro sul primo palo che, in realtà, sarebbe stato parabilissimo.

Parlando di tasso tecnico, però, il divario è ampio. E questa differenza si fa sentire in special modo quando i nipponici decidono di far girare palla. Come al ventottesimo minuto, quando imbastiscono una bella azione che viene finalizzata da Kagawa, stellina di quel Borussia dei miracoli di cui vi parlai settimana scorsa. Il tutto, e non è un caso, nasce sulla sinistra: come abbiamo detto, infatti, Nagatomo ha licenza di spingere e proprio la sua pressione costante risulta essere un aiuto non indifferente alla squadra. Interessante, nell’occasione, vedere il movimento della star di Dortmund, che dopo aver ricevuto ai venticinque metri dalla porta scaricherà il pallone centralmente per Honda, puntando poi proprio la porta qatariota. Movimento importante, questo: il trequartista del CSKA, infatti, servirà di prima intenzione Okazaki che partito sul filo del fuorigioco si presenterà a tu per tu con l’estremo difensore avversario, provando a batterlo con un pallonetto che si rivelerà però un po’ corto. Non troppo corto, tuttavia, per Kagawa, che scattato alle spalle di tutti i difensori potrà andare a raccogliere il pallone per infilarlo comodamente in rete prima che la retroguardia di casa possa intervenire e sventare la minaccia.

Ad inizio ripresa Metsu, grande giramondo del calcio mondiale, aggiusta la sua squadra arretrando e decentrando Ahmed sulla trequarti destra, per cercare di contrattaccare Nagatomo impedendogli così di affondare con continuità sulla fascia ed inserendo l’ex napoletano Montezine in luogo di El Sayed per avere più qualità a centrocampo. Il match però cambia intorno all’ora di gioco, quando Yoshida viene ingiustamente espulso per doppia ammonizione (la sua entrata su Ahmed è sul pallone, cartellino giallo fuori luogo) e sulla punizione che ne segue Kawashima commette un errore piuttosto grossolano sulla conclusione di Montezine, favorendo il secondo vantaggio della squadra di casa.  A quel punto il nostro Zaccheroni si trova di fronte ad un problema non da poco: c’è in fatti da dare un nuovo equilibrio ad una squadra che va a trovarsi in inferiorità numerica. Per provare a sistemare le cose, quindi, il tecnico di Meldola inserisce un centrale difensivo, Iwamasa, al posto dell’unica punta, Maeda, passando quindi ad un 4-2-3 in cui sarà Honda a dover rivestire il duplice ruolo di trequartista centrale e, all’occorrenza, punta.

I padroni di casa, però, non sapranno sfruttare l’uomo in più: lasceranno infatti assolutamente troppo campo agli avversari che anche grazie ad una maggiore tecnicità riusciranno ad improntare l’ultimo terzo di gara su di un possesso palla spiccatamente in loro favore, con il duo Endo-Hasebe che prenderà in pieno possesso del centrocampo. A fare la differenza, quindi, sarà il maggior tasso tecnico della squadra dell’estremo oriente, così come il loro maggior coraggio e la presenza di un Kagawa assolutamente ispirato: dopo aver realizzato il primo pareggio, infatti, la stellina del Borussia andrà a siglare anche il secondo al termine di un’azione molto manovrata che darà bene l’idea dello schiacciamento verso la propria area dei padroni di casa, la cui fragilità difensiva resterà però praticamente invariata e permetterà al numero 10 nipponico di riequilibrare il risultato.  Non contento, poi, il piccolo trequartista di Hyogo propizierà anche la rete del definitivo 3 a 2 raccogliendo al limite dell’area un suggerimento di capitan Hasebe ed infilandosi all’interno della stessa per poi servire Inoha che potrà quindi realizzare indisturbato la rete della definitiva vittoria dei Samurai Blu.

Soluzioni tattiche interessanti, quelle approntate da Zaccheroni in questa sua esperienza asiatica. E chissà che proprio le scelte del mister di Meldola non risultino alla fine decisive verso una vittoria che tutti quanti attendono, nel paese del Sol Levante.

A 48 ANNI HOLYFIELD RESISTE SUL RING

La sospensione del match per una ferita al sopracciglio permette a Evander Holyfield di conservare il titolo WBF dei pesi massimi. Il ritratto di un campione dall’immagine “buonista”, che dopo 35 anni di boxe esibisce ancora una forma smagliante.

Holyfield - WilliamsÉ Gesù a darmi la forza, è lui a muovere i miei pugni.”
Evander Holyfield

Il titolo mondiale WBF (acronimo di World Boxing Federation), non è proprio uno di quei trofei da ostentare con orgoglio in bacheca. Distanziata anni luce dalle quattro maggiori sigle internazionali: WBA, WBC, IBF e WBO, la WBF, sede legale in Lussemburgo e presidenza retta da un sudafricano bianco, vivacchia da un paio d’anni organizzando sfide tra pugili in disarmo, come quella di questa notte a White Sulphur Springs, nel West Virginia. A confrontarsi sono saliti sul ring il detentore, l’ormai 48enne vecchia (ma eterna) gloria Evander Holyfield e lo sfidante, il 38enne bahamense Sherman “Tank” Williams.

Quasi novant’anni insieme, i due pugili non hanno dato vita a un incontro particolarmente esaltante dal punto di vista agonistico, con un Williams sgraziato e appesantito, ma decisamente più efficace di un Holyfield, che a vederlo apparire sul ring, con tanto di fisico stilizzato da culturista, gli si sarebbero dati dieci anni di meno. Ma il peso dei 48 anni dell’ex campione mondiale dei massimi si è fatto sentire subito dopo la prima ripresa, quando lo si è visto in difficoltà sotto i potenti colpi del tozzo bahamense. Difficilmente Holyfield avrebbe potuto resistere per tutti i dieci round previsti da questa serata, battezzata dagli organizzatori con un pomposissimo “Redemption in America”, ma alla fine della terza ripresa una testata accidentale di Williams gli ha provocato una ferita all’arcata sopraccigliare, costringendo l’arbitro a dichiarare chiuso l’incontro con un verdetto di no contest, ovvero parità.

Considerato una sorta di anti-Tyson, il pio (a suo dire) Evander Holyfield ha improntato la propria carriera di pugile all’insegna della purezza stilistica e della correttezza, e ha cercato di costruire il proprio personaggio, anche nella vita privata, su un modello politically correct, che lo ha reso più popolare tra i bianchi yankee che tra gli afro americani. Da sempre praticante evangelico (ha fatto incidere anche un salmo della Bibbia sui pantaloncini da combattimento), non ha mai praticato troppo l’astinenza nella vita sentimentale. Almeno cinque dei suoi figli sono nati da altrettanti peccati extra coniugali, mentre le sue tre ex mogli hanno avuto a lamentarsi sia per il mancato pagamento degli alimenti che per le botte subite, tanto che l’anno scorso un giudice di Atlanta ha emesso un’ordinanza a suo carico di divieto di avvicinamento a meno di 500 metri dalla famiglia.

Nonostante queste contraddizioni tra atti di fede e vita reale, che potrebbero rimandare al gangster redento di Pulp Fiction interpretato da Samuel Jackson, la storia di Evander Holyfield è comunque un discreto esemplare di sogno americano. Cresciuto da una madre abbandonata dal marito in un sobborgo degradato di Atlanta insieme ad altri otto fratelli, è rimasto sempre a debita distanza dalle bande giovanili della sua zona, e nel 1980 si è diplomato a pieni voti alla Fulton High School. Essendo dotato di una predisposizione innata all’attività sportiva, si è cimentato con uguale successo in diverse discipline. Se fosse stato per lui, probabilmente avrebbe scelto il football americano; ma i suoi 188 centimetri di altezza erano stati considerati troppo pochi per i suoi selezionatori, e si era così dedicato anima e corpo alla boxe. La sua prima grande apparizione è datata 1984, alle Olimpiadi di Los Angeles, quando è arrivato a conquistare la medaglia di bronzo nei pesi massimi leggeri. L’anno dopo lo vedrà esordire come professionista, e la sua carriera diventerà un’ascesa trionfale, con la conquista del titolo unificato dei massimi nel 1990, e fino alla sfida cult del 28 giugno 1997 contro un Mike Tyson così inferocito da strappargli a morsi il lobo di un orecchio.

Secondo i giornalisti statunitensi, Evander Holyfield continua a restare disperatamente aggrappato al ring per potersi pagare i debiti contratti in vent’anni vissuti come un sultano, e per mantenere la sua enorme famiglia, composta da tre ex mogli e da una torma di figlioli legittimi e non solo. A nulla sono serviti i consigli dei suoi medici di interrompere l’attività dopo che gli era stata diagnosticata una patologia cardiaca nel 1994 e l’intimazione al ritiro da parte delle autorità pugilistiche dello Stato di New York per manifesta debolezza.

In un momento di enorme crisi della boxe, oggi dominata dai pugili dell’est europeo, la sua immagine continua ad essere appetibile per il mercato americano, dove gli incontri sono trasmessi unicamente sulle televisioni pay per view. Anche a causa di questa vera e propria barriera tariffaria, la boxe oggi è sempre meno popolare tra gli afro americani dei sobborghi; e il sempreverde Holyfield, personaggio “noioso come una partita di canasta” secondo la definizione di un avversario scomparso nell’oblio, è ormai un mito “borghese” per l’America di oggi.