SFIDA MONDIALE

Giovedì 2 dicembre la FIFA assegna i Mondiali 2018 e 2022: ecco quali sono i paesi candidati.

Fin dalla sua nascita, nel lontano 1930, la Coppa del Mondo di calcio ha rappresentato qualche cosa di più rispetto a un semplice torneo di calcio. Storicamente, ma ancor di più negli ultimi anni, l’organizzazione di un mega-event come il Mondiale non rappresenta solamente un’occasione per incrementare il prestigio nazionale: se ben sfruttata, infatti, essa può portare a vantaggi in diversi campi come quello economico, turistico e delle relazioni internazionali. Tutto dipende, però, dal tipo di enfasi che si pone nell’evento e dalla sua interconnessione con altri aspetti della società.

Nel 1998 la Coppa del Mondo di calcio in Francia, conclusasi con il trionfo della squadra di casa, portò alla costruzione dell’idea di una Francia vincente non solo sul campo da calcio ma anche nell’arena internazionale, fautrice di un modello integrazionista da ammirare ed esportare rappresentato proprio dai 22 calciatori campioni del mondo, ribattezzati immediatamente (riprendendo l’immagine del tricolore) i “black, blanc, beur”. Come attentamente sottolineato da Patrick Mignon in Fans and Heroes, i simboli e gli appelli all’unità lanciati nelle celebrazioni del 12 luglio 1998 furono assai enfatizzati proprio perché l’unità era molto lontana dall’essere reale, fatto che emerse chiaramente con la ribellione delle banlieue del novembre del 2005. Quello che conta, però, è che i politici nel 1998 cercarono di ottenere attraverso il calcio ciò che non erano stati in grado di raggiungere attraverso le politiche più tradizionali.

Quattro anni più tardi fu il turno di Corea e Giappone. I due paesi non solo dimostrarono al mondo le loro capacità organizzative e il loro sviluppo tecnologico, ma approfittarono anche dell’evento per normalizzare ulteriormente le loro relazioni inducendo la popolazione a fare altrettante. Ovviamente per i coreani tifare per gli ex dominatori imperialisti non rappresentò un’opzione percorribile, ma le cronache riportano che più di qualche tifoso giapponese, a seguito dell’eliminazione della propria squadra, iniziò a simpatizzare per i vicini coreani, in parte istigati dal governo, in parte attratti dal successo sportivo della squadra di Hiddink.

Nel 2006, secondo le cifre della Deutsche Bundesbank, proprio grazie all’ esemplare organizzazione della kermesse, il Mondiale tedesco ha portato nel trimestre in questione a una crescita dello 0,25%.

Quest’anno, come ricordato con insistenza dal jingle della canzone ufficiale, è arrivato il tempo dell’Africa. Non che oggi a Città del Capo o a Johannesburg si siano risolti i problemi di disuguaglianza, violenza e povertà, ma il Mondiale sudafricano ha posto per un paio di mesi il paese e retoricamente l’intero continente africano al centro del mondo.

Insomma, per quanto non sarà certo l’organizzazione dei Mondiali di calcio a risollevare il destino di un paese, questa competizione resta comunque un’occasione di prestigio internazionale e sportivo davvero importante a cui le federazioni calcistiche e i governi non sembrano voler rinunciare. Oltretutto intorno all’evento si crea, fra sponsorizzazioni internazionali, nazionali e diritti televisivi, un giro economico miliardario che fa gola a molti. Scandalizza, ma non sorprende, quindi che, non appena dei giornalisti si sono messi a indagare, siano emersi immediatamente casi di corruzione relativi alle candidature dei Mondiali. A metà ottobre alcuni reporter del Sunday Times si sono finti lobbisti statunitensi e hanno smascherato il membro nigeriano della FIFA Amos Adamu che aveva chiesto ai finti emissari la bellezza di 800mila $ per costruire campi di calcio artificiali. La stessa richiesta è stata avanzata al presidente della Oceania Football Confederation, il quale ha accettato di votare per i fantomatici lobbisti in cambio dei soldi per finanziare un’accademia sportiva.

Una decina di giorni dopo è stata la volta di Michel Zen-Ruffinen. L’ex delfino – poi rivale – di Blatter, filmato segretamente, ha fatto capire che molti dei ventiquattro membri del Fifa Executive Commitee sono da sempre aperti a diverse forme di corruzione e ha reso più credibile la sua affermazione descrivendone vizi e debolezze. Per chi ha letto i libri e le inchieste di Andrew Jennings, il primo reporter a sollevare il velo dell’omertà delle istituzioni sportive, sembra che (almeno nella FIFA) nulla sia cambiato.

La situazione è resa ancora più complessa dalla doppia assegnazione (2018, 2022) in un’unica giornata. “Di doman non c’è certezza” scriveva Lorenzo de’ Medici nel Quattrocento, ma lo stesso potrebbe aver pensato il gran capo Blatter che difficilmente, per questioni anagrafiche, si ricandiderà nel 2014. È chiaro altresì che questa promozione “compri due, paghi uno” facilita lo scambio di voti e la scarsa trasparenza. Ecco allora che, sempre grazie alle dichiarazioni rubate a Zen-Ruffinen, emerge come Spagna e Portogallo si siano accordate con il Qatar per lo scambio di voti, sostenendo le rispettive candidature. Una pratica moralmente disgustosa ma assai comune nei processi poco trasparenti di lobby. La stessa candidatura olimpica di Roma 2020, per esempio, nella fase di pre-selezione per avere la meglio su Venezia, aveva messo sul tavolo tra le altre cose la possibilità di un eventuale accordo Roma – Tokio per ripetere la doppietta (1960-1964 anche nel 2020-2024).

Questioni di prestigio e, soprattutto, economiche rendono quindi la scelta del 2 dicembre davvero importante per le nazioni e le federazioni che ospiteranno il mondiale del 2018 e del 2022. Nel 2018 hanno avanzato le proprie candidature Inghilterra, Russia e, congiuntamente, Spagna-Portogallo e Belgio – Olanda. Per il 2022 si sono, invece, fatte avanti Australia, Qatar, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti.

2018

BENELUX

Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi hanno avanzato la candidatura come un’unica entità geografica, economica e culturale: tuttavia, se si esclude un congresso FIFA in Lussemburgo, gli incontri si disputeranno solamente in terra d’Olanda e in Belgio. I due paesi vorrebbero ripetere l’exploit del 2000 passando dal palcoscenico europeo a quello mondiale. Il progetto prevede quattordici stadi in dodici città (sette in Belgio, cinque nei Paesi Bassi): al momento gli stadi sembrano troppo piccoli alle esigenze, talvolta sproporzionate, della FIFA, tuttavia sia Rotterdam che Bruxelles hanno dato il via libera alla costruzione di due stadi da 80mila spettatori. Quello di Bruxelles, il Nationaal Stadion, potrebbe avere una valenza davvero importante, data la complessa situazione che sta vivendo il paese: in effetti, una delle possibili debolezze di questa candidatura è dovuta all’incertezza politica del Belgio. Nel 2018 esisterà ancora un paese chiamato Belgio? In tal senso però proprio il calcio, al contrario del ciclismo, sembra essere un fattore più unificatore che divisivo. E in ogni caso, malgrado il carisma di Gullit, la candidatura del Benelux non sembra la principale favorita.

INGHILTERRA

Calcisticamente la nazione è ancora ferma alla nostalgia per la vittoria del 1966, considerando che da quella data non è più riuscita a esprimere un gruppo vincente. I migliori risultati sono ancora quelli degli anni Novanta con il quarto posto al Mondiale italiano e la semifinale all’Europeo casalingo del 1996. A livello di organizzazione sportiva, invece, l’Inghilterra è un paese leader: negli ultimi vent’anni l’Inghilterra ha organizzato gli Europei di calcio, i Mondiali di rugby e di cricket e nel 2012 ospiterà i Giochi Olimpici. I Mondiali la confermerebbero come uno dei paesi sportivi d’avanguardia, tenendo sempre presente che nel Regno Unito l’intervento governativo in campo sportivo, benché crescente, è sempre stato ridotto rispetto a quello di molti altri paesi. Gli stadi esistenti e quelli progettati sono assolutamente all’altezza e l’idea di riportare il calcio laddove è stato inventato fanno della candidatura inglese la favorita al pari della Russia.

SPAGNA-PORTOGALLO

Anche in questa occasione, come per Olanda e Belgio, i due principali paesi della penisola iberica hanno pensato di riproporre l’accoppiata vincente dell’Europeo in un palcoscenico più ampio. Ovviamente, alla luce delle dimensioni, e del peso economico e demografico dei due stati, la Spagna farà la parte del leone rispetto al Portogallo. La crisi economica mondiale, però, sembra aver colpito in maniera più pesante i paesi mediterranei che il resto d’Europa e ciò potrebbe forse andare a penalizzare le chance della candidatura iberica. Per controbilanciare le sue carenze la Spagna metterà sul piatto della bilancia il suo indiscutibile prestigio sportivo, che però potrebbe non bastare.

RUSSIA

Senza l’Ucraina il calcio russo pare aver perso davvero molto rispetto a quello sovietico, ma la federazione, con l’investimento importante su Hiddink nel recente passato, ha dimostrato a suon di rubli di voler invertire questo trend. I soldi non bastano, è vero, ma nel caso russo sembrano essere davvero l’asso nella manica. Almeno cinque stadi nuovi di zecca e lo Stadio Olimpico, che sarà inaugurato a Soči in occasione delle Olimpiadi invernali del 2014, si andranno ad aggiungere agli stadi moscoviti, a quello di Kazan e a quello di San Pietroburgo. La federazione ha fatto sapere che il governo non baderà a spese – 10 miliardi di dollari – e che darà, con il primo ministro Putin in prima linea, pieno sostegno alla candidatura.

2022

AUSTRALIA

Nella terra dei canguri in cui il football si gioca con palloni ovali in stadi della stessa forma ci si sta preparando con alacrità per la progettazione dei Mondiali del 2022. Malgrado la scarsa tradizione calcistica, che permane ancor oggi nonostante alla generazione dei Kewell e Viduka sia seguita quella dei Cahill e Bresciano, l’Australia resta terra dello sport e degli sportivi per eccellenza. Il paese sembra avere l’imbarazzo della scelta per quel che riguarda gli stadi: tuttavia molti di essi non sono, e non saranno mai, destinati esclusivamente al calcio. Il rugby e l’australian rules football restano gli sport invernali preferiti dai tifosi australiani e il regolare svolgimento di questi campionati potrebbe entrare in concorrenza con l’organizzazione dei Mondiali. In ogni caso la federazione australiana, come dimostra anche il passaggio dalla confederazione oceanica a quella asiatica, vuole a tutti i costi alzare il livello del calcio australiano e l’organizzazione di un Mondiale resta sempre il miglior viatico.

GIAPPONE

Nel paese del Sol Levante il successo organizzativo del 2002, in coppia con la Corea del Sud, ha reso appetibile la possibilità di un bis. Il paese, oltretutto, non sembra accontentarsi solo del calcio visto che in ballo ci sono anche le candidature alle Olimpiadi del 2016 e dei Mondiali di rugby del 2019. Gli stadi usati per il Mondiale del 2002 e quelli previsti eventualmente per il 2022 fanno del Giappone un rivale temibile. Tuttavia, come per i vicini coreani, la federazione giapponese potrebbe essere penalizzata dalla vicinanza temporale: sono infatti passati solo otto anni tra l’esperienza del 2002 e la scelta del prossimo 2 dicembre. Oggettivamente, però, l’arco temporale di venti anni fra il 2002 e il 2022 pare comunque essere sufficiente lungo per non screditare la candidatura nipponica.

QATAR

Gli sceicchi, che nella storia dei Mondiali non sempre hanno fatto bella figura, sono ormai una realtà nello sport e nel calcio internazionale: dopo aver contribuito alle campagne acquisti fantasmagoriche di alcune squadre e ad alimentare le false speranze di altre, in Qatar si sono messi in proprio. Automobilismo, tennis e i Giochi Asiatici hanno dimostrato che, quando i soldi non mancano, si può fare sport anche nel bel mezzo del deserto. La tradizione è pressoché inesistente, ma le tecnologie sono all’ultimo grido e in grado di sconfiggere quello che sembra essere il vero tallone d’Achille della candidatura del paese: il clima. Benché le temperature scendano raramente sotto i 30°, il comitato organizzatore ha promesso che negli stadi la temperatura non sarà superiore ai 20°. La minaccia del terrorismo internazionale potrebbe forse incidere nella scelta di qualche delegato FIFA, tuttavia il Qatar in questo senso non pare essere particolarmente vulnerabile. Come riportato da Al Jazeera, Blatter ha sdoganato la candidatura del Qatar affermando che “il mondo arabo merita la Coppa del Mondo”. Qatar fra i favoriti, quindi? Sicuramente, anche se rimane comunque incomprensibile l’utilità di costruire undici stadi da 50mila posti in un paese abitato da poco più di 1600 persone. Mai come in questo caso, a competizione finita, l’espressione “cattedrale nel deserto” rischia di essere più appropriata.

COREA DEL SUD

Come per il Giappone, la vicinanza con il Mondiale del 2002 potrebbe forse limitare le chance di successo, o almeno dovrebbe. I coreani, però, hanno imparato davvero bene a fare lobby e, dopo aver messo uomini chiave nel Comitato Olimpico Internazionale, stanno tentando la scalata anche nella FIFA. Il sostegno governativo non manca, gli stadi sono all’avanguardia: gli unici problemi potrebbero venire dai cugini del Nord. Malgrado il vicino militarmente ingombrante, però, l’esperienza del 2002 (al contrario di quella del 1988, dove la Corea del Nord aveva boicottato l’evento) ha dimostrato che in linea di principio la Corea del Sud non dovrebbe rischiare di essere penalizzata da questioni di sicurezza internazionale. Tuttavia la transizione che si sta vivendo a Pyongyang e l’ampio arco temporale fanno sì che le ipotesi di riunificazione, democratizzazione del Nord, guerra o di nulla di fatto siano tutte plausibili, indebolendo un po’ la forza della candidatura coreana.

STATI UNITI

Nella prima metà degli anni Novanta il soccer statunitense veniva trattato con ironia e disprezzo. Oggi, a più di quindici anni dal mondiale casalingo, la nazionale a stelle e strisce è riuscita ad affermarsi come una realtà del calcio internazionale da non sottovalutare grazie anche ad un campionato che, oltre ad attirare stelle prossime alla pensione, produce anche interessanti prospetti. Non sembra creare problemi neppure livello organizzativo: il Mondiale del 1994 aveva portato ufficialmente il calcio nella nuova dimensione iper-globalizzata che tanto piace alla FIFA. Benché non costruiti per il calcio ma per il football americano, gli stadi sono immensi e non entrerebbero nemmeno in conflitto con la stagione dell’NFL che inizia ad agosto inoltrato. La Concacaf, inoltre, sarà la federazione calcistica – OFC esclusa – a cui mancherà da più tempo l’organizzazione della Coppa del Mondo. Il presidente Obama, che sostiene la candidatura, dopo essere stato malamente snobbato in seno al CIO, potrebbe paradossalmente ottenere una rivincita simbolica proprio grazie al meno americano degli sport.

Nicola Sbetti

LE COREE E LA DIPLOMAZIA DEL CALCIO

Divise sul campo di battaglia, vicine su quello di calcio: ecco il destino di Corea del Nord e Corea del Sud.

Quando, nel 1948, viene adottata la decisione di suddividere la penisola coreana in due diversi Stati – l’uno ispirato al modello delle democrazie liberali, l’altro invece di stampo comunista – probabilmente, anzi, sicuramente nessuno si sofferma a riflettere sulle ripercussioni in ambito sportivo che essa avrà. Eppure, prima o poi, le strade di Corea del Nord e Corea del Sud troveranno un punto d’incontro (o di scontro, vedetela come volete) non solo in un campo di battaglia, ma anche da gioco. Forse perché, come sosteneva qualche anno prima George Orwell, lo sport non è altro che un’imitazione della guerra. E così fu.

Lo scrittore inglese, morto esattamente in quell’anno, sottolineava gli aspetti negativi dello sport: non è altro che una causa di attriti o, nel migliore dei casi, un pretesto per esibire con orgoglio una presunta superiorità tecnica nei confronti dei dirimpettai. E questo corrispondeva in parte a verità anche nel caso della Corea di fine anni ’20: la linea di demarcazione tra i due paesi, in corrispondenza del 38° parallelo, è un’ipotesi ancora piuttosto remota ma nello sport emerge comunque una rivalità tra Pyongyang e Seoul. Una rivalità calcistica che trova sfogo nell’istituzione dei giochi Gyung-Pyong, appuntamento fisso a partire dal 1929. Una tradizione che si ripete per otto volte, fino al 25 marzo 1946: è questa la data dell’ultimo incontro di calcio tra le due città con il paese unito. Trascorre un paio di anni e la Corea cessa di esistere, lasciando spazio a due nuovi stati che parlano la stessa lingua ma che finiscono sotto aree di influenza agli antipodi. Poi arriva il momento del conflitto bellico, quello vero: scoppiato nel 1950, finirà solamente tre anni dopo, con un accordo di pace che mai troverà una sua reale applicazione. Anche tra le due Coree è guerra fredda.

Poi, all’improvviso, a quasi trenta anni di distanza dalla divisione della penisola, ecco che il destino inizia a metter mano sui rapporti tra i due paesi: il 6 maggio 1976 diventa una data storica, allorché le rispettive selezioni calcistiche si ritrovano da avversarie. Per la prima volta, Corea del Nord e Corea del Sud si sfidano a colpi di pallone anziché di cannone: è Bangkok ad ospitare l’incontro, valido per le semifinali dei Campionati asiatici di calcio giovanili, che si conclude con la vittoria stringata (1-0) della metà settentrionale della penisola. Due anni dopo, poi, è la volta della prima sfida tra le nazionali maggiori: ironia della sorte, è nuovamente Bangkok il teatro della sfida fratricida tra Pyongyang e Seoul. E, questa volta, si lotta per un premio ancor più prestigioso: la vittoria dei Giochi asiatici. Quella del 22 dicembre 1978 diventa, così, un’edizione ricca di significati: la capitale thailandese viene scelta dopo le precedenti rinunce di Singapore per motivi finanziari e di Islamabad a causa dei conflitti che vedono il Pakistan impegnato contro Bangladesh e India. È anche l’edizione che coincide con l’espulsione delle rappresentative israeliane dai Giochi asiatici. Soprattutto, è l’edizione che regala Corea del Nord-Corea del Sud come duello finale del torneo di calcio nel trentesimo anniversario della loro data di fondazione: entrambe marciano spedite verso l’atto supremo, senza perdere un solo incontro e dando saggio di grande forza. Ma nell’atteso scontro tra titani nessuna delle due riesce a prevalere, neppure dopo i tempi supplementari: niente rigori, il regolamento prevede che il primo posto sia assegnato ex aequo. Vince, è il caso di dire, la Corea, senza operare distinzioni geopolitiche.

Il terzo confronto tra i due stati separati avviene, ancora una volta, in Thailandia: è qui che, nel novembre 1981, si disputa la quattordicesima King’s Cup, torneo internazionale a cadenza annuale al quale prendono parte anche alcune nazionali europee. Ad onor del vero, Corea del Nord e Corea del Sud inviano le loro rappresentative militari, i cui giocatori fanno in realtà parte delle forze armate, entrambe inserite nel girone 2: la vittoria, ancora una volta, arride ai settentrionali che, imponendosi per 2-0, ipotecano la qualificazione al turno successivo. In tre incontri, la Corea del Nord ne vince due, senza mai subire reti. Una gioia destinata, tuttavia, a non ripetersi per otto anni. 16 ottobre 1989: mentre la guerra fredda tra USA e URSS volge ormai al termine – e di lì a poche settimane crollerà il Muro di Berlino – a Singapore le due nazionali scendono in campo in un match valido per le qualificazioni ai Mondiali di Italia ’90. Dopo due sconfitte, un pareggio e nessun gol segnato, la Corea del Sud riesce a porre fine al malefico sortilegio: dopo diciotto minuti Hwang Sun-Hong segna la rete che decide l’incontro. Un successo storico bissato qualche mese dopo, il 29 luglio 1990: a Pechino le due nazionali tornano a fronteggiarsi per tenere a battesimo la Dynasty Cup, una manifestazione sportiva riservata alle federazioni calcistiche dell’Estremo Oriente e destinata a breve vita. E la Corea del Sud si impone nuovamente con il minimo scarto, trovando tuttavia solamente al novantesimo il gol della vittoria, a firma di Hwangbo Kwan.

Ma il vero evento è a ottobre: a distanza di due settimane, il derby del 38° parallelo si gioca per la prima volta nei rispettivi paesi. Una tantum, non ci sono trofei o qualificazioni ai Mondiali da vincere: Corea del Nord e Corea del Sud danno vita ad una serie di amichevoli meglio note come “partite della riunificazione”. Il calcio, dunque, diventa uno strumento diplomatico – come il ping pong lo fu per Cina e Stati Uniti – per favorire il disgelo tra i due paesi, far avvicinare le rispettive posizioni e, perché no?, sognare di unire nuovamente la penisola coreana sotto un’unica bandiera. Si arriva così ad un altro, storico incontro: quello dell’11 ottobre 1990 che ha per scenario il mastodontico stadio “Rungrado – May Day” di Pyongyang, avveniristica struttura simile ad un fiore di magnolia che può ospitare oltre 150mila spettatori. E, non a caso, gli spalti fanno registrare il tutto esaurito. A metà del primo tempo la rete del sudcoreano Kim Joo-Sung sembra presagire alla terza vittoria consecutiva di Seoul, ma ad inizio ripresa il capitano Yoon Jung-Soo fa impazzire i sostenitori locali siglando il gol del pareggio. Ed in pieno recupero, due minuti oltre lo scadere dei tempi regolamentari, Tak Yong-Bin trasforma il rigore che completa la rimonta e regala alla Corea del Nord il successo per 2-1. Dodici giorni dopo, il 23 ottobre, si torna nuovamente a giocare ma a campi invertiti: all’Olimpico di Seoul la sponda meridionale della penisola vendica il recente ko con un’altra rete decisiva di Hwang Sun-Hong, messa a segno dopo venticinque minuti.
Il 1991 è un anno di pausa, quanto ad amichevoli o partite di un certo peso. Ma non è un anno qualsiasi. Ai Mondiali di calcio Under 20, ospitati dal Portogallo, Nord e Sud uniscono le forze e si presentano sotto un’unica bandiera: è quella della Corea unificata, un vessillo bianco al cui centro risalta il profilo, colorato di azzurro, della penisola. Una circostanza che, però, non avrà alcun seguito, nonostante i giovani coreani scrivano una delle pagine più belle battendo di misura l’Argentina. Il confronto diretto tra le due Coree ritorna il 24 agosto 1992: ancora Pechino, ancora Dynasty Cup. A differenza delle precedenti sfide, però, in terra cinese esce un salomonico pareggio: al (solito) vantaggio sudcoreano del futuro capitano Hong Myung-Bo replica, nuovamente nelle battute conclusive, Choi Yong-Son. Senza storia, invece, l’incontro che va in scena in Qatar il 28 ottobre 1993: la Corea del Sud è in piena corsa per la qualificazione ai Mondiali americani ed i cugini del nord proprio non riescono ad opporre resistenza. Al triplice fischio finale è 3-0, la vittoria con il maggior scarto nella storia delle sfide fratricide, con le reti che giungono tutte nella ripresa: i marcatori sono Ko Jung-Woon, Ha Seok-Joo e, soprattutto, Hwang Sun-Hong. Segnando il momentaneo raddoppio sudcoreano, l’attaccante transitato brevemente dalla Bundesliga diventa il detentore di un curioso record: con tre reti è lui il cannoniere più prolifico nella storia delle sfide sull’asse Pyongyang-Seoul.

Per dodici anni, poi, non succede più nulla (eccezion fatta per un’amichevole a Seoul nel settembre 2002 tra le nazionali giovanili, organizzata dalla Fondazione Europa-Corea e sponsorizzata dalla federcalcio del Sud). Fino al 4 agosto 2005, nel pieno dei Campionati est-asiatici, competizione che ha raccolto l’eredità della Dynasty Cup: a Jeonju, città sudcoreana che ha ospitato alcune partite dei Mondiali di calcio, le due nazionali si preoccupano prima di tutto della fase difensiva e non si aggrediscono vicendevolmente. Come nel primo incontro tra le nazionali maggiori, avvenuto nel 1978, tra Corea del Nord e Corea del Sud è pareggio a reti bianche. Non sarà così dieci giorni dopo per un altro appuntamento con le amichevoli della riunificazione: è il 14 agosto e a Seoul regna un clima gioioso e ridanciano. Il giorno dopo, infatti, si celebra l’anniversario della liberazione dal Giappone. E i sessanta anni della prestigiosa ricorrenza non potevano ricevere miglior festeggiamento: i “diavoli rossi” assestano il secondo 3-0 nella storia dei confronti diretti, andando in gol con Chung Kyung-Ho, Kim Jin-Yong e Park Chu-Young.
Ma il vero anno che rimarrà nella storia è il 2008: per quattro volte in meno di sette mesi Nord e Sud si sfidano in ambito calcistico. Un’abbuffata di derby che si chiude senza vinti né vincitori. Si inizia il 20 febbraio con un altro incontro valido per i Campionati est-asiatici, nella città cinese di Chongping: l’ennesima illusione di supremazia sudcoreana si concretizza con il gol di Yeom Ki-Hun, ad un quarto d’ora dal termine Jong Tae-Se riporta tutti con i piedi per terra. Il 26 marzo, invece, ci si gioca la qualificazione ai Mondiali in Sud Africa: è Shangai ad ospitare, per motivi politici, l’incontro che vede i nordcoreani come nazione ospitante. Niente reti, niente vincitori o sconfitti: la stessa trama che offre il match di ritorno a Seoul, giocato il 22 giugno. Finita l’estate, è nuovamente Corea del Nord-Corea del Sud: a Shangai, il 10 settembre, le due cugine osano maggiormente rispetto alle precedenti uscite e segnano un gol a testa. E, come a voler spezzare la catena, stavolta sono i padroni di casa a sbloccare il risultato con il rigore di Hong Young-Jo, cui fa seguito dopo nemmeno cinque minuti il pareggio definitivo di Ki Sung-Yong. L’ultimo incrocio avviene il 1° aprile 2009 a Seoul, per la gara di ritorno della seconda fase della qualificazione mondiale: mancano appena tre minuti alla fine quando Kim Chi-Woo regala alla Corea del Sud la sesta vittoria in questa serie di derby dal sapore particolare.

A rendere ancor più intricati i legami tra calcio e politica nelle vicinanze del 38° parallelo ha poi provveduto la FIFA: giovedì 2 dicembre, infatti, verranno decisi i paesi che ospiteranno le edizioni 2018 e 2022 dei Mondiali di calcio. Nel secondo caso ha avanzato la propria candidatura anche la Corea del Sud, opposta ad Australia, Qatar, Stati Uniti e Giappone (già, c’eravamo tanto amati…). E Seul ha fatto sapere che, in caso di assegnazione, lavorerà affinché alcune partite siano giocate al di là del 38° parallelo. Assai singolare, comunque, che negli stessi giorni le due Coree siano coinvolte in questi giochi: non sorprenderebbe se nuovi, paventati scontri influissero negativamente sulla decisione della FIFA e se, viceversa, l’assegnazione dei Mondiali 2022 alla Corea del Sud indirizzasse i due paesi verso una riappacificazione e, chissà, una riunificazione della penisola.  La partita, insomma, si gioca tanto a Zurigo quanto nel Mar Giallo. Può un semplice pallone di cuoio decidere i destini di due paesi?

Simone Pierotti

DALL’ARGENTINA CON FURORE

Christian Javier Simari Birkner racconta l’insolita carriera di uno sciatore argentino.

Cristian Javier Simari Birkner, 31 anni, professione sciatore. Apparentemente non c’è nulla di strano: centinaia  sono gli atleti che praticano questo sport a livello agonistico. Ma la particolarità è che il ragazzo in questione è originario di una terra che certo, nell’immaginario collettivo, non viene mai affiancata allo sci alpino: l’Argentina. E con lui ci sono due sorelle, Macarena e Maria Belén, anch’esse presenze fisse nel Circo Bianco, senza perdersi un’edizione del Mondiale o dei Giochi Olimpici. Anche una terza sorella, la giovanissima Angelica, è in procinto di debuttare tra i big.

I Simari Birkner, famiglia di sciatori: che effetto fa rappresentare l’Argentina nel mondo con questo sport?

«Lo sci mi ha dato tutto, e dunque secondo me la cosa più importante non è tanto rappresentare il mio Paese in giro per il mondo, ma poter fare quello che più mi piace. E farlo bene. Certo che se non fosse stato per la mia famiglia, non avrei mai potuto arrivare a questi livelli».

Come mai hai scelto di praticare questo sport a livello agonistico? In Argentina non è certo la disciplina più popolare, sebbene non manchino le montagne.

«Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia di sportivi, quasi tutti sciatori: i miei zii hanno partecipato anche ad un’edizione dei Giochi Olimpici e a più Campionati del Mondo. Da ragazzo vivevo le gare dei miei parenti molto da vicino, ma penso che la decisione definitiva di impegnarmi agonisticamente in questo sport l’ho presa vedendo meglio l’ambiente dello sci alpino, andando per dieci anni a Madonna di Campiglio a veder correre Tomba, Girardelli e gli altri campioni, svegliandomi alle quattro del mattino solo per poter arrivare sulla “3 Tre” (la pista di Madonna di Campiglio, ndr) per guardare le gare. È grazie a queste cose che ho capito di non volermi limitare ad osservare, ma di voler partecipare anch’io direttamente».

Chi è lo sciatore che ti ha fatto innamorare di questo sport? E adesso, chi stimi maggiormente?

«Come persona, e come atleta, ammiravo tantissimo Marc Girardelli: secondo me è riuscito a cambiare lo sci, a migliorarlo, e il fatto che lui corresse per il Lussemburgo praticamente da solo, con suo padre ed un gruppo di allenatori, si avvicina anche alla mia esperienza personale. Adesso lo sci è ancora diverso da prima, c’è maggiore equilibrio e quindi penso che ogni atleta della Coppa del Mondo meriti il mio rispetto e la mia stima».

Obiettivi per questa stagione? Anche se la tua è già iniziata d’estate, con una buona serie di vittorie nella South American Cup.

«Il primo obiettivo era rivincere la South American Cup e ce l’ho fatta: adesso sto recuperando da una piccola lesione al ginocchio sinistro rimediata durante la discesa di Chillan, e dunque spero di essere in forma per i primi di dicembre, in modo da poter gareggiare in Coppa del Mondo, Coppa Europa e North American Cup, preparandomi al meglio per il Campionato del Mondo di Garmisch-Partenkirchen».

Sei un atleta polivalente, gareggi dallo slalom alla discesa: qual è la tua disciplina preferita? E su che genere di tracciato ti trovi meglio?

«La specialità che mi piace maggiormente è il gigante, è anche quella in cui sono più allenato. Come tracciati, preferisco quelli duri, con delle pendenze davvero aspre, per cui mi trovo davvero benissimo sulla Podkoren di Kranjska Gora e in Val d’Isere».

6)Quali sono state la tua maggiore soddisfazione e la tua peggiore delusione in questa prima parte di carriera?

«La mia delusione più grande è quella di non essere ancora riuscito a chiudere nei 30 una gara di Coppa del Mondo: una volta sono uscito nella seconda manche a Kranjska Gora, dove oltretutto stavo facendo davvero bene. Ricordo con rammarico anche il Campionato del Mondo del 2001, a Sankt Anton: ero al nono posto dopo la prima manche dello slalom della combinata, e stavo scendendo come un pazzo nella seconda, prima di commettere un grave errore a sette porte dalla fine, compromettendomi la gara. La maggiore soddisfazione la lego invece ai Mondiali di Sankt Moritz di due anni dopo: ero ventiseiesimo e già contento dopo la prima prova del gigante, ma poi nella seconda mi sono scatenato realizzando il quarto tempo parziale e chiudendo al diciassettesimo posto complessivo, davanti a grandi atleti come Lasse Kjus e Christian Mayer».

Quali sono i tuoi hobby? Sei molto attivo su Facebook…

«Adoro la natura, andare a cavallo e in bicicletta, mi piace stare, quando posso, nella mia Argentina, magari mangiando un bel piatto di asado (un arrosto tipicamente sudamericano, ndr). In generale, prediligo le attività all’aria aperta, anche se ammetto che con tutti i viaggi e il tempo da trascorrere nei vari hotel utilizzo spesso il computer, che mi permette di comunicare con il mondo in ogni momento».

Ultima domanda: oltre a Cristian, Macarena e Maria Belén, c’è qualche altro sciatore argentino che può fare strada?

«Io credo dì sì. In Argentina abbiamo molti sportivi di livello mondiale, anche se in generale manca sempre una buona organizzazione. Spero quindi che si sviluppi una struttura migliore, in grado di permettere ai vari atleti di esprimere appieno il loro talento. Inoltre, penso anche che l’attuale sistema della Coppa del Mondo di sci non sia perfetto per le realtà minori: le gare si fanno solo in poche nazioni, e nelle seconde manche degli slalom e dei giganti partecipano solo trenta atleti, spesso solo austriaci, italiani, svizzeri e francesi. Questo secondo me non aiuta i paesi più giovani da un punto di vista sciistico che avrebbero bisogno di maggiore spazio, anche se resto convinto che l’Argentina abbia grandi potenzialità».

Marco Regazzoni

HOCKEY GHIACCIO: IL PUNTO DOPO IL PRIMO GIRONE D’ANDATA

Con la fine del primo girone d’andata il campionato italiano di hockey su ghiaccio è entrato oramai nel vivo. Poche le novità, molte le conferme. Come lo scorso anno infatti il Valpusteria è già in fuga, apparentemente irraggiungibili. I lupi di Brunico, allenati dal confermatissimo Mair e forti di una rosa pressoché immutata a cui è stato aggiunta un portiere affidabile come il finlandese Tommi Nikkila, non hanno ancora perso una partita. Primi con 24, punti frutto di otto vittorie piene, i giallo-neri hanno espresso ad oggi il miglior hockey della serie A. Resta però un interrogativo; saranno in grado di continuare a pattinare a questi livelli o crolleranno nel finale di stagione come accaduto nello scorso campionato?

Oltre alla capolista sono parecchie le similitudini con la passata stagione. Il Renon (3° a 16 punti), già vincitore della Supercoppa Italian, segue il Valpusteria a debita distanza pur dando l’impressione di estrema solidità grazie al duo Cloutier-Tudin e agli italiani sempre più protagonisti. Il Bolzano, che tra Palaonda e prima linea è stato letteralmente un cantiere aperto, si trova con 15 punti al 4° posto. Un ottima base di partenza per una squadra che, con un portiere super come Matt Zaba e un centro di tutto rispetto come l’ultimo arrivato Danny Irmen, non può non essere considerata fra le favorite allo scudetto.

E i campioni d’Italia? Esattamente come la passata stagione l’Asiago galleggia sornione a metà classifica (6° con 11 punti). Guai però a sottovalutare i leoni veneti.

Bene anche i friulani del Pontebba (5° con gli stessi punti dell’Asiago) che, anche con la nuova divisa bianconera, si stanno riconfermando come squadra di medio – alta classifica. Fra i friulani il difensore di scuola Renon, Andreas Lutz è diventato il nuovo recordman di presenze della squadra superando una bandiera come Fabio Armani.

Male, molto male invece il trio Alleghe (7° a 6 punti), Fassa (8° a 5 punti), e Cortina (9° a 1 solo punto). Gli agordini continuano a palesare drammatici problemi difensivi e, con 30 goal subiti, sono la peggior difesa della serie A. Il Fassa paga la perdita di Dennis e i problemi estivi nella costruzione della squadra, mentre il Cortina, ormai nobile decaduta, è ancora in attesa della prima vittoria stagionale.

A sparigliare le carte rispetto un film già visto ci ha pensato la Valpellice dei fratelli Aquino, seconda in classifica a 19 punti. Da squadra competitiva quasi esclusivamente fra le mura amiche la Valpe sta evolvendo in una potenziale squadra d’alto livello. È ancora presto per dire se i Piemontesi sono diventati grandi, quello che è certo è che non sono più una matricola.

Il mese di ottobre per altro è stato caratterizzato da un’intensa attività dell’hockeymercato. Detto di Irmen a Bolzano colpisce come ben tre squadre abbiano cambiato in corsa il proprio goalie. Certo il portiere resta un ruolo delicatissimo e spesso determinante per le sorti di una squadra ma è difficile pensare che i problemi di Asiago Alleghe e Cortina siano stati esclusivamente legati alle prestazione dei loro estremi difensori. Il campionato italiano riabbraccia quindi l’Mvp della passata stagione Daniel Bellissimo, tornato a difendere la gabbia dell’Asiago al posto di Perugini e l’ex portierone del Fassa Adam Dennis sbarcato ad Alleghe in sostituzione di un comunque discreto Gusten Tornqvist. A Cortina invece è stato chiamato in tutta fretta Adam Munro (17 presenze in Nhl) per fronteggiare la partenza oltreoceano di Adam Russo

Nicola Sbetti

LONGHI: “NIENTE SÖLDEN, MA GUARDO AVANTI”

Assente in Coppa del Mondo, lo sciatore trentino è già proiettato verso gli impegni futuri.

Sabato inizierà la Coppa del Mondo femminile di sci e domenica seguirà a ruota quella maschile, sempre con uno slalom gigante a Sölden, sul ghiacciaio del Rettenbach. La squadra azzurra, molto competitiva in questa disciplina grazie a big come Massimiliano Blardone, Davide Simoncelli e Manfred Moelgg, non schiererà l’esperto trentino Omar Longhi che, non facendo parte della selezione nazionale, si allenerà con i compagni del Gruppo Sportivo Fiamme Gialle per riconquistare un posto in Coppa del Mondo.

Longhi, trentenne di Cles Val di Non ma residente al Passo del Tonale, vanta tra l’altro quattro podi in Coppa Europa, tutti nella disciplina del gigante, tra i quali spicca la vittoria ottenuta a Val Thorens nello scorso dicembre. In vista di questa nuova stagione, siamo riusciti ad avere una sua interivsta.

Omar, domenica c’è Sölden, l’apertura della stagione: quali sono gli auspici per questa nuova annata?

«A Sölden purtroppo non ci sarò, perché il direttore tecnico ha deciso di non far disputare la prima gara a quegli atleti che, non facendo parte della selezione nazionale, si allenano con i rispettivi gruppi militari; io sarei potuto partire con un buon pettorale, penso con il 38 (visto il suo punteggio FIS, n.d.r.), ma ad ogni modo accetto la decisione e guardo avanti».

È da tante stagioni che ti si vede battagliare in CdM e in Coppa Europa: qual è stata sin qui la tua più grande gioia? E il più grande rammarico?

«Sicuramente le soddisfazioni maggiori sono venute dai podi e dai risultati brillanti in Coppa Europa, ma ovviamente non posso dimenticare le qualificazioni per le seconde manche nelle gare di Coppa del Mondo; le delusioni sono legate a tre infortuni che ho avuto in altrettanti momenti decisivi della mia carriera, quando mi sentivo davvero in forma e pronto finalmente per sfondare».

Quali sono le piste di gigante che ti entusiasmano maggiormente?

«Prediligo i tracciati che richiedono una buona tecnica, e quindi adoro la Gran Risa dell’Alta Badia, dove infatti ho ottenuto anche il mio primo piazzamento a punti in Coppa del Mondo».

Come definiresti il tuo modo di sciare?

«Credo di avere una sciata molto dolce e tecnica: fisicamente non ho una grandissima potenza, e dunque cerco di compensare sfruttando al massimo le doti tecniche».

Come ci si sente a doversi allenare col gruppo militare, non facendo parte della nazionale “ufficiale”? È facile accettare una decisione del genere?

«No, non è per niente facile. Penso che ci siano stati alcuni atleti, anche molto dotati tecnicamente, che si siano persi proprio per questa ragione, per non aver fatto parte della squadra nazionale. Sta ad ognuno di noi trovare le motivazioni giuste che ti fanno andare avanti, superando difficoltà di questo genere; non bisogna mai mollare la presa, perché la forza di volontà è assolutamente indispensabile per ottenere buoni risultati».

Com’è Omar Longhi fuori dalle piste da sci? Che interessi particolari ha?

«Mi reputo un ragazzo normalissimo, non a caso i miei migliori amici sono maestri di sci o semplici muratori. Cerco sempre di divertirmi quando sono in compagnia, sfruttando al massimo questi momenti».

Ultima domanda: tra i giovani del panorama sciistico azzurro, ce n’è uno in particolare che secondo te ha ottime chance di sfondare?

«Ci sono dei giovani davvero interessanti, ma è un po’ presto per fare qualche nome, hanno tutti bisogno di fare esperienza e di crescere agonisticamente in Coppa Europa, senza perdersi per strada. Tra l’anno in cui sono nato io e i primi anni novanta c’è un certo buco generazionale che non ha facilitato il ricambio, ma sono convinto che qualche nostro giovane possa fare davvero molta strada ed arrivare fra i primi al mondo».

Marco Regazzoni