LACROSSE: LA MARCIA DELL’ITALIA AI MONDIALI DI MANCHESTER

LacrosseContinua trionfale la marcia su Manchester degli azzurri che ottengono un posto garantito tra le prime 20 del Mondo, risultato imprevisto ed eccezionale quanto basta per ottenere menzione anche nei media internazionali.

Gli uomini di coach Dellisser vincono quattro partite consecutive e si affermano come una realtà nel panorama del lacrosse; exploit ancora più significativo per il movimento nazionale considerando che il numero di vittorie ottenute dall’Italia quest’anno pareggia il record di quattro anni fa a London (Canada) quando la squadra composta interamente da americani mise in fila Hong Kong, Galles, Repubblica Ceca e Scozia.

Quest’anno, invece, la presenza nativa è massiccia e ben miscelata con l’esperienza dei “naturalizzati”, che non vanno comunque dimenticati: dal bomber austro-italiano Steven Whitford, assistente allenatore e giocatore classe 1965 che si è scrollato di dosso in breve tempo 18 anni, tanti quanti i gol messi a segno nelle sue sette partite, al vero spauracchio offensivo degli azzurri Tim Fuchs per il quale parlano i numeri: 20 reti e 7 assist.

Avevamo lasciato questa squadra dopo la positiva, ma non esaltante, prima fase: due sconfitte iniziali contro Repubblica Ceca e Svezia mitigate dalla vittoria in scioltezza sui messicani ed un posto nella lower division da testa di serie. Qui comincia la scalata dei nostri: prima l’Argentina, poi le più quotate Danimarca e Svizzera cadono nel tritacarne azzurro e solo una sconfitta contro la Slovacchia, evidente contraccolpo di una serie di vittorie tanto esaltante quanto fisicamente dispendiosa, nega loro una posizione che avrebbero ampiamente meritato. Non vi è comunque nulla di cui disperare, come detto. È vero che quattro anni fa ci si piazzò decimi su venti squadre, ma quest’anno con dieci squadre in più – ovvero più concorrenza, più partite, più possibilità di fare passi falsi, più rischi – ed un team azzurro dall’incisiva presenza nativa si è ottenuto un risultato forse meno affascinante dal punto di vista della mera classifica, ma ben più significativo.

Dopo il Messico un’altra squadra del continente americano attendeva gli azzurri, l’Argentina: “molto forte nei faceoff” ci fa notare lo specialista azzurro Carlo Bernard, e capace di passare in vantaggio dopo soli 45″ per mano del bomber Zack Kahn (assist di Astrada). Ecco che prontamente torna fuori l’Italia vista contro il Messico: Fuchs (2:32), Withford (3:52, Fuchs), Mark Fortunato (8:34) e la doppietta di Fuchs (11:11) sbeffeggiano i sussulti argentini che riescono comunque a raddoppiare con Kahn (12:27) e mantenere aperta la partita. Allungo del difensore italo-canadese Miceli (16:46, M.Fortunato) e risposta immediata di Chemi (17:52, Astrada) cui seguono altre quattro sberle azzurre (tre del letale Withford – 19:04, Wilmot; 21:49; 29:13, Fuchs – e timbro di Mark Fortunato a 23:39) che sembrano consegnare la partita alla storia. Ma gli argentini escono dal loro guscio, reagiscono con una rete di Kahn (40:22) prontamente compensata dalla doppietta di Miceli (44:49) e godono di dieci minuti di autentico berserksgangr: tripletta e assist di Kahn (55:42; 58:04, Brown; 60:24, Hylen; assist a 66:27 per la rete di Brown) mitigata dalla segnatura di Withford (63:13) su assistenza di De Lisser ed ancora Brown (66:27, Kahn). Qui, sull’11-8, gli argentini possono davvero riaprire la partita, ma l’improbo sforzo necessario a ridimensionare la squadra italiana si fa sentire ed una doppietta di Withford (69:37, Fuchs e 74:35) chiude i giochi. Solo alla soddisfazione personale serve la rete di Campos a 78:28. Grande prova della squadra, grande prova di Withford, Fuchs, Miceli, ma Lubrano ci tiene a sottolineare la prova, non solo in questa gara, del portiere Matteo Magugliani da Valmontone: 79% di salvataggi, eccezionale.

“In molti aspetti tiene testa al titolare italo-americano Fortunato, che è comunque il secondo di Virginia” aggiunge Iubini.

Nell’altro match del “mini-playoff” la Danimarca beneficiava di una vittoria a tavolino poichè destinata agli assenti Iroquois. Azzurri dunque che partono in deficit di condizione contro una “squadra fisica: alti, veloci e ben organizzati” ci dice Lubrano. La prestazione dell’Italia non può che risentirne: dopo 7:13 di studio reciproco passa in vantaggio la Danimarca con Dane Hansen (assist di Lund), ma nel lungo periodo la schiacciante superiorità tecnica dei nostri ha la meglio. I muscoli nordici plasmati al vento dello Jutland nulla possono contro l’abilità della coppia Withford-Fuchs che solo con la carabina si può contenere: una tripletta a testa (9:22 Withford, Fuchs; 15:52 Withford, M.Fortunato; 19:34, 37:41 e 42:12 Fuchs; 43:14 Withford) perfettamente inframezzata dalla prima rete al Mondiale del classe 1988 Federico Galperti, romano tesserato per la Bocconi Lacrosse. Dane Hansen, mai così profilico finora, raggiunge la tripletta personale (46:57, Larsen; 57:49, B.Hansen) mentre Wilmot (54:33) segna la sua seconda rete del torneo. Sull’8-3 i danesi “non ne hanno più” e l’Italia chiude la partita senza troppi patemi d’animo con Mark Fortunato (71:10, Wilmot) ed il poker personale di Fuchs (75:24, Withford).

Superato lo scoglio nordico, gli azzurri sfidano la Svizzera al play-in: chi vincerà lotterà per un posto tra il 17esimo ed il 19esimo, chi perderà proverà a chiudere 21esimo. Gli elvetici sono squadra sulla carta superiore all’Italia, “molto veloce, priva di tiratori pericolosi oltre i 15 metri, con un gioco improntato a far girare palla di fronte alla porta, cosa che gli riesce molto bene, e cercare l’uomo libero sotto porta” il parere di Lubrano. Il match è combattuto fino alla fine, l’esito incerto: all’uno-due svizzero di Bame (07:28) e Kannape (11:34) risponde la doppietta del mastino Fuchs (19:40, M.Fortunato e 25:00). Altro uno-due svizzero stavolta firmato Schoch (26:32), tra i migliori dei suoi, e Burger (31:27) ed incredibile sorpasso azzurro firmato Galperti (36:25), Fuchs (42:40, Miceli) e Giorgini (45:55). Il match seguita nella sua imprevedibilità e la Svizzera si riporta avanti con Burger (61:09, Bame) e Schoch (63:46, Kaiser). Pochi minuti di gioco ed arriva il pareggio di Fuchs (69:32), seguito a ruota dal KO di Withford (72:35, Wilmot). Un duro colpo per gli elvetici che avevano definito l’Italia “squadra cuscinetto” ed ora hanno fatto i conti con la caparbietà e la tecnica dei nostri, capaci di piantare l’italica bandiera sulla cima delle ripide montagne svizzere. Bernard rimarca la velocità, il dribbling e la precisione di Schoch, mentre Iubini sottolinea la prova del portiere Bertsch, oppostosi valorosamente ai tiri di Fuchs nel primo quarto. Sempre Iubini esalta la vittoria “di squadra, ottenuta contro avversari superiori sulla carta tatticamente e fisicamente, con una grande organizzazione di gioco. Abbiamo sempre avuto la lucidità per essere su tutte le palle”.

In questa seconda metà del mese di luglio dell’anno di grazia 2010 all’Armitage Centre ha combattuto, sudato, digrignato i denti e colpito duro tutto il movimento internazionale del lacrosse e gli azzurri sono arrivati tra i primi venti del Mondo: una vera e propria pietra miliare per il movimento, i Leoni di Manchester hanno fatto la storia.

Nel prossimo appuntamento il resoconto della sconfitta contro la Slovacchia e della partita in svolgimento contro la Lettonia.

Christian Tugnoli

(si ringraziano Andrea Lubrano, Carlo Bernard e Alessandro Iubini per la disponibilità, la simpatia e la pazienza con cui hanno reso conto delle gare disputate)

IERI & OGGI: ELENA ISINBAEVA VALICA IL MURO DEI 5 METRI

Cinque anni fa cadeva un muro storico: Elena Isinbaeva superava per la prima volta i 5 metri nel Salto con l’Asta.

Elena IsinbaevaSono passati cinque anni dalla sera nella quale a Londra, nel meeting del Crystal Palace, Elena Isinbaeva infranse un muro storico nel Salto con l’Asta femminile: i 5 metri che in campo maschile erano stati superati la prima volta il 27 aprile 1963 dallo statunitense Brian Sternberg (e già Sergei Bubka aveva superato da venti anni i 6 metri).

Figlia di un idraulico musulmano e di un’operaia, Elena Isinbaeva nasce a Volgograd il 3 giugno 1982 e il suo è un talento unico rubato alla ginnastica artistica alla quale si è dedicata fino all’età di 15 anni, fino a quando la sua altezza (1.74) non l’ha messa fuori dai giochi. In una disciplina decisamente giovane se declinata al femminile – il primo record del mondo riconosciuto è del 1992 – Elena si trova decisamente bene e nel 1998 ai Campionati Mondiali Giovanili alla sua terza gara ufficiale conquista la medaglia d’Oro superando 4.00 (il record del mondo dell’australiana Emma George è 60 cm più in alto). Fallita la qualificazione alle Olimpiadi di Sydney (dove si impone Stacy Dragila), la prima medaglia nella massima categoria è per la Isinbaeva l’Argento ai Campionati Europei del 2002 con 4.55.

Il 13 luglio 2003, a 21 anni e un mese, la russa ottiene il suo primo record del mondo valicando l’asticella nel meeting di Gateshead a 4.82 cancellando dal libro dei primati la statunitense Stacy Dragila. Con l’eccezione di 21 giorni nell’estate del 2004 con un interregno dell’altra russa Feofanova, è da allora che il nome di Elena Isinbaeva campeggia nella tabella dei record del mondo alla voce Asta Femminile. La sua è una lenta progressione, centimetro dopo centimetro in una sequenza per massimizzare i ritorni, fino al mese di luglio del 2005.

Il 3 settembre 2004 a Bruxelles, Elena ha posto il limite a 4.92; il 5 luglio 2005 a Losanna sale a 4.93. Dieci giorni dopo a Creta, complice il vento e una giornata no manca il record. Una piccola delusione che nelle parole della russa le fa comprendere come i piccoli progressi stiano diventando poco più di una routine e come le occasioni debbano essere colte quando si presentano. Il 16 giugno a Madrid si permette quindi di contravvenire la legge del centimetro, salendo fino a 4.95 e prendendoci gusto.

E siamo al 22 luglio 2005, al Norwich Union Grand Prix di Londra di fronte a 18.000 spettatori.  Elena entra in scena a 4.70, dopo quasi due ore d’ attesa e quando in gara è rimasta solo la polacca Rogowska. La Isinbaeva supera la misura alla prima prova. E si ripete a 4.80. Poi, insieme alla Rogowska, decide di passare direttamente a 4.96. Per la polacca è un’ altezza impossibile, per la russa sembra non essere uno scherzo. Il primo tentativo è fallito. Il secondo, sebbene l’ asticella rimbalzi un po’ , è invece da record. E’ il settimo nelle ultime otto gare, indoor comprese.  Ed arriva il colpo di scena: la russa indica ai giudici di gara i 5 metri. Sono le 21.39 italiane (le 20.39 di Londra) quando con un salto perfetto cade un muro dell’atletica mentre la ragazza di Volgograd mette a segno il suo diciassettesimo record del mondo (10 all’aperto e 7 indoor in quel momento, sono ora 27 all’inseguimento dei 35 di Sergei Bubka).

Massimo Brignolo

SPORT & SOCIETA’: L’ESPERIENZA DI ALTRIMONDIALI

Ospitiamo un articolo di Luca Marchina che ci racconta l’esperienza di Altrimondiali da Nairobi a Johannesburg, e oltre.

Altri MondialiPianeta Sport ha seguito attentamente i Mondiali 2010 cercando di sfuggire alla retorica occidentalista dell’“Africa buona” che solo perché ha organizzato un mondiale di calcio ha messo alle spalle tutti i suoi problemi. C’è però chi ha fatto di più; invece di poltrire davanti alla televisione la “squadra” di Altrimondiali ha fatto armi e bagagli e con un pulmino e un pallone ha girato il continente. Luca Marchina ci racconta quest’esperienza. (N.S.)

C’è un’altra squadra vincente in questo mondiale oltre alla Spagna: è la squadra del matatu di Altrimondiali, la campagna lanciata in occasione dei Mondiali di calcio sudafricani dall’associazione Altropallone, in collaborazione con CoLomba, la rete delle Ong lombarde, e con Karibu Afrika, partner italo – kenyano dell’iniziativa. L’equipaggio, formato da tre guidatori italiani, due esperti sportivi e un video-reporter keniani, è partito il primo giugno da Nairobi dopo il torneo d’apertura tenutosi nella baraccopoli di Mathare. Il mezzo di trasporto scelto è il “matatu”, tipico pulmino di marca giapponese, principale mezzo pubblico in tutte le città d’Africa, in grado di caricare fino al triplo dei passeggeri consentito e di affrontare sia le affollatissime vie del centro che le sgangherate strade delle periferie.

Lungo la strada sono stati organizzati partitelle e tornei di calcio. L’utilizzo del calcio, con il suo linguaggio universale, si è rivelato uno strumento di inclusione e aggregazione davvero efficace. Alcuni tornei erano stati organizzati per tempo e grazie al supporto di Ong lombarde, altre attività sportive invece sono nate in maniera spontanea lanciando semplicemente un pallone. Grazie al contributo di Guna Spa e Coop Lombardia ad ogni tappa il matatu ha potuto aprire il baule, per tirare fuori palloni, pettorine e porte pieghevoli.

In Tanzania abbiamo giocato con i pastori masai, con gli albini e con i disabili. “Dopo aver visto giocare a calcio persone con solo una gamba, ora credo che la disabilità non è inabilità” conferma Hillary, allenatore di calcio di strada. In Malawi il matatu si è aggregato a un gruppo di bambini che stavano giocando a calcio con un pallone auto-costruito fatto con borsine di plastica e spago. Alla fine della partita quando abbiamo regalato loro il pallone i bambini sono scappati di corsa per andare con orgoglio a mostrarlo a tutti. In Zambia ci si è ritrovati a giocare ben oltre il tramonto con centinaia di bambini. In Zimbabwe abbiamo incontrato un calcio più organizzato e di squadra.

In Mozambico abbiamo avuto l’esperienza più forte: dopo esserci fermati presso una scuola (una serie di banchi artigianali posizionati sotto un immenso baobab) Emiliano calcia il pallone all’interno del piazzale e la maggior parte dei bambini scappa non appena il pallone rimbalza. Proviamo a gesti a radunare i bambini e diamo il via alla partita in un imbarazzo generale. I ragazzi non sanno come si batte il calcio d’inizio e appena battuto nessuno si muove, la palla rotola fuori dal campo. Dominic prova a spiegare a gesti alcune regole, due ragazzi più grandi ci aiutano e riusciamo pian piano a far correre i bambini. La palla viene inizialmente presa di più con le mani che non con i piedi, il primo gol arriva solo dopo 20 minuti di gioco. Alla fine della partita il maestro (unico per questa scuola) ci dice che i ragazzi non avevano mai visto un pallone da calcio e la maggior parte di loro non aveva mai giocato. I mondiali qui li seguono per radio. Passiamo quindi per lo Swaziland ed entriamo in Sudafrica: lo specchio dell’Africa che si può riassumere nella parola “contraddizione”. Francesco lo descrive così: “Grandi colline e foreste di quartieri residenziali molto ben tenuti e curati. Fuori, lontani, non considerati dalle strade principali ci sono le case e la terra di chi fatica a sopravvivere. Lo spettacolo è triste, ma nascosto. La maggioranza è composta da persone che vivono in condizioni disastrate, ma non si vedono. Non salgono sul palcoscenico in prima fila davanti al pubblico ma da dietro in maniera invisibile sorreggono le scenografie di uno spettacolo consumista sulla gioia di vivere”. Passando per Cape Town in un clima invernale il matatu è quindi arrivato a Johannesburg l’11 luglio, giorno della finale della Coppa del Mondo, dopo aver percorso circa 9000 Km.

Con il diario di viaggio, le fotografie e i video realizzati on the road e pubblicati sul sito di Altrimondiali, i ragazzi del Matatu hanno fatto conoscere a tutti il vero vincitore di questi mondiali: l’Africa che scende in campo tutti i giorni contro i pregiudizi; quell’Africa che gioca le sue partite fino al 90° minuto.

Ma gli “Altrimondiali” si sono giocati anche in Italia, grazie ai tornei di calcio multietnici, feste e incontri culturali organizzati a Milano, Lumezzane, Cinisello Balsamo, Sesto San Giovanni, Firenze.

A differenza dei Mondiali della Fifa, la sfida degli Altrimondiali non si è chiusa con la finale dell’11 luglio: il viaggio del Matatu diventerà un film-documentario, e sarà presentato ai festival del cinema italiani. Inoltre, poiché di restare in garage il Matatu non ne vuole proprio sapere, già si prepara la prossima sfida: non solo Brasile 2014 ma anche Polonia e Ucraina nel 2012 con gli Altrieuropei, per dimostrare come il calcio possa essere strumento di coesione sociale e integrazione anche nelle metropoli europee.

Luca Marchina

IERI & OGGI: ALTHEA GIBSON, PRIMA NERA A VINCERE UN TITOLO AMERICANO NEL TENNIS

La storia di Althea Gibson, la tennista che superò le barriera razziali diventando il primo atleta di colore a vincere un titolo americano nel Tennis e molto di più.

Althea GibsonParlare di Althea Gibson significa necessariamente parlare della segregazione razziale nello sport, in questo caso nel Tennis, negli Stati Uniti tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Sviluppatosi negli Stati Uniti come sport per l’alta borghesia e l’elite, il Tennis statunitense visse per decenni una dicotomia tra tornei per bianchi e tornei per neri gestiti da due organizzazioni diverse; nel caso degli afroamericani fu l’American Tennis Association, creata nel 1916, ad occuparsi dello sviluppo del gioco tra la popolazione di colore organizzando dal 1917 i Campionati Nazionali contrapposti ai Campionati della USLTA, US Lawn Tennis Association, dove solo i bianchi avevano accesso. Il primo incontro interrazziale avvenne solo nel 1940 quando Don Budge, autore nel 1938 del Grand Slam, giocò in una esibizione al New York Cosmopolitan Club di Harlem contro il campione ATA Jimmie McDaniel vincendo per 6-1 6-2 ma riconoscendo come il gioco di McDaniel avrebbe potuto essere da Top Ten.

Si trattò solo di un caso sporadico e le barriere razziali più rilevanti furono rotte solo a partire da una decina di anni più tardi da Althea Gibson, una ragazza nata nella Carolina del Sud nel 1927 e trasferitasi ad Harlem all’età di tre anni. La passione per il tennis crebbe proprio al Cosmopolitan Club di Harlem e la Gibson nel 1944 vinse il suo primo titolo nazionale ATA nella categoria junior. La qualità del gioco di Althea crebbe e nel 1950 riuscì a partecipare ai Campionati Nazionali Indoor della USLTA divenendo la prima giocatrice di colore a raggiungere la finale di un Campionato Nazionale. Fu ammessa, nonostante il colore della pelle, a partecipare ai Campionati sulla terra rossa dove uscì nei quarti di finale ma la barriera razziale sarebbe stata superata solo partecipando al massimo evento statunitense del tennis, lo US Open che all’epoca si teneva sull’erba di Forest Hills. Tutto faceva presagire un’ennesima esclusione fino a quando la campionessa bianca Alice Marble intervenne con un articolo sulla rivista American Lawn Tennis scrivendo: “Se il tennis è un gioco per gentildonne e gentiluomini, è il momento che si inizi a comportarsi da persone corrette e non da moralisti ipocriti” per chiudere con una sfida: “se Althea Gibson rappresenta una minaccia per questa generazione di giocatrici, è corretto che questa minaccia sia affrontata sui campi da gioco”. L’intervento ebbe effetto e, nel giorno del suo ventitreesimo compleanno, Altea divenne la prima persona di colore a partecipare agli US Opendove uscì al secondo turno contro Louise Brough, una delle star dell’epoca. La storia, talvolta leggendaria, vuole che il match contro la Brough fosse interrotto da un fulmine che colpì una statua e che la Gibson dichiarasse: “quando il fulmine ha colpito ho visto un segno dei tempi che cambiano”.

Saetta o non saetta, la Gibson, la donna di colore delle prime volte nel tennis, nel 1951 fu la prima afroamericana a giocare a Wimbledon ma i suoi migliori anno arrivarono a partire dal 1956 quando vinse il suo primo titolo in un torneo del Grand Slam, gli Open di Francia. L’anno successivo è l’anno della definitiva affermazione: vince Wimbledon battendo in finale Darlena Hard 6-3 6-2 e al ritorno in patria viene fatta sfilare a Broadway. Nonostante questo nella sua biografia la Gibson ricorderà come sebbene vincesse tornei e le fossero tributati onori anche dal vicepresidente Nixon in certe zone del paese le venisse rifiutato l’accesso in alcuni alberghi e le fosse impedito di organizzare un rinfresco in suo onore. Il 21 luglio 1957, Althea Gibson diventa il primo tennista di colore a vincere un titolo nazionale statunitense battendo nella finale dei Campionati in Terra Rossa ancora Darlene Hard con il risultato di 6-2 63. Poco più di un mese dopo si issò sul tetto del tennis americano e mondiale affermandosi anche negli US Open superando in finale Louise Brough (6-3 6-2).

Diventata ormai la tennista numero uno al mondo, Althea Gibson difese con successo ambedue i titoli l’anno successivo e sia nel 1957 sia nel 1958 fu scelta dall’Associated Press come l’atleta dell’anno (un’altra prima volta per gli afroamericani). Dopo aver vinto il suo secondo US Open passò al professionismo.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: IL PRIMO TOUR DI EDDY MERCKX

La prima di cinque vittorie di Eddie Merckx al Tour de France: il Cannibale lascia il secondo a quasi 18′ in una classifica d’altri tempi

Eddie MerckxSei vittorie di tappa, la maglia gialla, la maglia verde, la maglia a pois del Gran Premio della Montagna, la maglia della Combinata, il trofeo per il più combattivo, la vittoria della Faema nella classifica a squadre: è il bilancio unico e irripetibile del primo Tour de France del Cannibale, al secolo Eddie Merckx.

Era il 20 luglio 1969 quando il belga si impose anche nella cronometro di fine Tour da Créteil – Paris la Cipale infliggendo nell’occasione 53″ a Raymond Poulidor e 1’14” a Roger Pingeon, il secondo sul podio finale con un distacco d’altri tempi, 17’54”. Il ventiquattrenne belga si era già imposto, con la maglia iridata (la prima di tre) conquistata nel 1967 ad Heeerlen, nel Giro d’Italia del 1968 mentre nel 1969, quando era al comando della classifica generale era stato squalificato a Savona perchè trovato positivo ad un controllo antidoping.  Perdonato all’ultimo momento dalla sua Federazione, Merckx si presentò desideroso di rivincita ai nastri di partenza di Roubaix.

Una tappa tra tutte può essere utilizzata per descrivere il dominio del belga alla prima esperienza nella Grande Boucle: il tappone pirenaico Luchon – Mourenx. Dopo Peyresourde e Aspin dove i grandi rimangono in gruppo la Faema prende l’iniziativa sul Tourmalet e in vetta un episodio rivela il carattere di cannibale e di padre padrone del grande belga: a 200 metri dal GpM, accelera per passare per primo davanti al suo gregario Vandenbossche. Nel dopo corsa la maglia gialla spiegherà il suo comportamento con la delusione per aver ricevuto dallo sfortunato Vandenbossche la notizia qualche giorno prima della sua decisione di cambiare squadra a fine stagione. ma Merckx non è contento di aver dato una lezione al gregario infedele. Il Cannibale accelera in discesa e alla fine della stessa ha 25″ di vantaggio, si rifornisce e parte come se si trattasse di una tappa a cronometro. Quaranta chilometri dopo alla base del Soulor ha 3’35” di vantaggio che diventano 5’15” allo scollinamento e 6’55 sulla cima dell’Aubisque. All’arrivo, dopo 140 km di fuga solitaria, Merckx avrà relegato il secondo di tappa, l’italiano Michele Dancelli, a 7’56. Il giorno dopo Jacques Goddet su L’Équipe intitolerà il suo articolo “Merckxissimo”

Quella sera quando mancano cinque tappe all’arrivo a Parigi Merckx ha 16’18” di vantaggio su Pingeon che arrotonderà ancora nei giorni successivi per vincere il primo dei suoi 5 Tour de France.


Massimo Brignolo