LE PALLOTTOLE DI LURGAN

Calcio nordirlandese, Old Firm e settarismo: un capitolo ancora aperto dopo le intimidazioni a Neil Lennon, Paddy McCourt e Niall McGinn.

Per i ragazzi della Loyalist Volunteer Force di Lurgan, lui è solo “un taig dell’altra parte della città”. Uno sporco cattolico, uno di quelli là. Lurgan, contea di Armagh, è (parole di Susan McKay del Guardian) “una cittadina amara, uno di quei paesi nordirlandesi con una linea invisibile a dividerla a metà: negozi cattolici da una parte, protestanti dall’altra”. Con i vicini paesi di Portadown e Craigavon, Lurgan è uno dei vertici del cosiddetto triangolo degli omicidi e uno dei centri dove i cosiddetti repubblicani dissidenti, critici verso la linea istituzionale e sistemica del Sinn Féin, godono del maggior supporto. Il taig in questione invece è Neil Lennon, centrocampista che ha legato la sua carriera al Celtic di Glasgow, la squadra cattolica e repubblicana della città scozzese. Sette anni da giocatore, due dei quali da capitano, prima di chiudere la carriera in Inghilterra e tornare al Celtic Park, a marzo 2010, in veste di allenatore. Celtic vuol dire Old Firm, lo storico derby glasvegiano in cui i Bhoys bianco-verdi affrontano i Rangers, di estrazione protestante e lealista. Una trasposizione calcistica della questione nordirlandese sull’altra sponda del Canale del Nord che rende gli spalti dell’Ibrox Stadium e del Celtic Park altoparlanti dell’odio settario, come racconta Franklin Foer nel suo How Football Explains the World: “A piena gola, cantano lodi al nostro massacro: we’re up to our knees in Fenian blood, siamo ricoperti fino alle ginocchia di sangue feniano”. Secondo Foer tra il 1996 e il 2003 otto morti e centinaia di assalti accaduti a Glasgow sono direttamente riconducibili all’Old Firm.

Sotto la guida di Lennon, ora squalificato per sei incontri in seguito ad alcune dichiarazioni polemiche contro gli arbitri, il Celtic sta disputando un’ottima stagione, guidando la classifica di Scottish Premier League con cinque punti in più dei Rangers che, però, hanno disputato due gare in meno. Nel 2011 i Bhoys hanno raccolto 10 punti su 12 a disposizione. Nelle ultime tre gare il protagonista è stato il ventunenne irlandese Anthony Stokes: il giovane dublinese è stato l’autore della rete decisiva nella vittoria 1-0 sull’Aberdeen, ha messo a segno una doppietta nel 3-0 sugli Hibernians e ha siglato il rigore del pareggio a tempo scaduto contro l’Hamilton alla fine di una gara tesissima (“a drama-filled clash”, Stevie Miller, BBC) segnata dai tre cartellini rossi estratti dall’arbitro Willie Collum. Soprattutto, però, l’anno si è aperto il 2 gennaio all’Ibrox Stadium con la vittoria 2-0 sui Rangers, propiziata da una doppietta del greco Georgios Samaras.

Una sconfitta che evidentemente non è stata ben digerita dai tifosi dei Blues: tra il 9 e l’11 gennaio è stata resa nota la notizia di tre buste contenenti proiettili intercettate dalla Royal Mail e indirizzate a Lennon e ai due giocatori nordirlandesi della squadra, Paddy McCourt e Niall McGinn. Le buste dirette a Lennon e McGinn sono state intercettate all’ufficio di smistamento di Mallusk (nella contea nordirlandese di Antrim), mentre quella diretta a McCourt, scoperta un paio di giorni dopo, è stata fermata in un sorting office già a Glasgow. Tutte e tre le missive erano state spedite dall’Irlanda del Nord. Paddy McCourt, soprannominato “il Pelé di Derry”, è alla terza stagione con il Celtic e ha vestito quattro volte la maglia della nazionale. Niall McGinn, ventitreenne, è approdato al Celtic nel 2009, un anno dopo aver debuttato in nazionale contro l’Ungheria, primo giocatore del Derry City a vestire la maglia dell’Irlanda del Nord da 19 anni. Pupillo del commissario tecnico Nigel Worthington, ha già collezionato dieci presenze internazionali. Nessuno dei due giocatori aveva mai ricevuto intimidazioni prima d’ora, a differenza di quanto successo a Lennon. L’allenatore ha voluto parlare con entrambi i giocatori e consigliarli, memore della sua storia e della sua esperienza. “Nessuno meglio di Neil può aiutare i giocatori ad attraversare questi avvenimenti”, ha dichiarato il vice di Lennon Johann Mjällby. Non solo nel 2008 Lennon era finito in ospedale dopo esser stato aggredito a Glasgow da parte di alcuni tifosi del Rangers, ma l’odio settario è stata anche la causa della fine prematura della sua carriera internazionale.

Neil Lennon ha vestito quaranta volte la maglia della nazionale nordirlandese, esordendo contro il Messico nel 1994. Cattolico, nel 2000 approdò a Glasgow – sponda Celtic – ricevendo in cambio i fischi e gli insulti del Windsor Park di Belfast in occasione di diverse partite della nazionale, al punto che il giocatore minacciò il ritiro nel febbraio 2001 dopo una partita contro la Norvegia. Un ritiro rinviato di poco più di un anno: il 21 agosto 2002 Lennon avrebbe dovuto guidare la propria nazionale in un’amichevole contro Cipro proprio al Windsor Park, diventando così il primo capitano cattolico nella storia della green and white army. Quella sera Lennon non giocò. Non avrebbe mai più rappresentato la propria nazionale, annunciando il ritiro pochi giorni dopo. Motivo della decisione le minacce di morte ricevute dal giocatore: poche ore prima del match, con una telefonata alla sede di Ormeau Road della BBC, la Loyalist Volunteer Force aveva annunciato che avrebbe ucciso Lennon se questi avesse messo piede in campo. Una telefonata controversa, visto che non conteneva nessuna delle parole d’ordine segrete con cui i gruppi paramilitari nordirlandesi autenticano le proprie minacce e rivendicazioni per evitare che qualsiasi impostore, qualsiasi eejit from the street, possa chiamare e parlare a nome loro. In seguito la LVF avrebbe declinato qualsiasi responsabilità riguardo all’accaduto, affermando sarcasticamente che “sta a Lennon decidere se giocare o meno, non siamo certo noi a fare la formazione”. Era possibile, come suggerì Neil Mackay dalle colonne del Sunday Herald, che si trattasse solo di un eejit, un “idiota” che voleva terrorizzare il giocatore. Certo è che l’odio settario non poteva in ogni caso essere ignorato dalla federazione nordirlandese, dalle forze dell’ordine e da Lennon stesso. La LVF aveva rotto l’accordo di cessate il fuoco meno di un anno prima, assassinando il giornalista investigativo Martin O’Hagan, concittadino di Lennon e responsabile di aver portato alla luce storie di racket e traffico di droga in collegamento all’organizzazione paramilitare. Pochi giorni prima del match – ironicamente sponsorizzato dall’associazione di promozione della convivenza Community Relations Council e inserito nella campagna Kick Sectarianism Out of Football – qualcuno aveva graffitato, nei pressi della casa dei genitori di Lennon, la scritta NEIL LENNON RIP e la silhouette di un impiccato. Padre di una bambina di dodici anni, il giocatore dichiarò: “Non posso far passare la mia famiglia attraverso questi problemi ogni volta. È un peccato che debba finire così, ma ci ho pensato a lungo e ho deciso che non tornerò a giocare per l’Irlanda del Nord. Sono molto deluso dal fatto che il mio desiderio di giocare per la mia nazione, in occasione della mia prima opportunità di capitanare la mia squadra, sia stato portato via”.

L’IPOCRISIA DELL’ESCLUSIONE OLIMPICA DEL GHANA

Lo scorso 13 gennaio, in occasione del meeting del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) tenutosi nel quartier generale di Losanna, il Ghana è stato sospeso per “interferenze politiche” nei confronti del Comitato Olimpico del paese (GOC).

Lo scorso 13 gennaio, in occasione del meeting del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) tenutosi nel quartier generale di Losanna, il Ghana è stato sospeso per “interferenze politiche” nei confronti del Comitato Olimpico del paese (GOC). Un provvedimento simile a quello preso il 1° gennaio di quest’anno ai danni del Kuwait, lo stesso che impedì all’Iraq di partecipare alle Olimpiadi di Pechino.

La sospensione del GOC comporterà l’annullamento dei fondi da parte del CIO e la sospensione delle competizioni olimpiche per atleti e dirigenti.

La disputa fra il CIO è il governo ghanese prosegue ormai da 18 mesi in quanto, ormai, esistono de facto due presidenti: Ben Tongo Baba, riconosciuto dal CIO, e Francis Dodoo, ex triplista e ora sociologo, sostenuto dal governo. In occasione delle elezioni del 2009 è stato scelto il secondo ma il rivale, presidente uscente, ha criticato le modalità di votazione e il CIO non ha riconosciuto l’esito delle urne.

Anche in altre federazioni, specialmente per la federazione calcistica (GFA), è avvenuto qualcosa di simile. Lo scorso novembre, per un posto nel comitato esecutivo della Confederation of African Football (CAF), la GFA aveva proposto il suo stesso presidente Kwesi Nyantakyi mentre il governo aveva provato ad imporre senza successo una vecchia conoscenza del calcio italiano, Abedì Pelé. Nei mesi successivi il governo ha fatto evidenti pressioni sulla GFA, tra cui un raid nei suoi uffici richiesto dall’Economic and Organised Crime Office, alla probabile ricerca  di prove che potessero costringere Nyantakyi a dimettersi.

Difficile dare un giudizio dall’Italia: in entrambi casi pare esserci stata un’evidente interferenza governativa, anche se quest’ultima è molto più evidente in ambito calcistico che nel comitato olimpico.

Il Ghana, però, è ben lontano dal rappresentare lo stereotipo del paese africano governato da un presidente-dittatore che si fa eleggere tramite elezioni farsa e che sfrutta le vittorie sportive per aumentare il proprio prestigio. Da più di un decennio, ormai, il paese gode di una certa stabilità, la quale ha interessato anche i risultati sportivi, soprattutto in ambito calcistico (finale in Coppa d’Africa, ottavi ai Mondiali sudafricani, vittoria ai Mondiali under 20).

Le elezioni nazionali del 28 dicembre 2008 in Ghana sono state da un certo punto di vista storiche perché hanno segnato un secondo cambiamento politico pacifico alle urne dopo quello del 2000, evento assai raro nel continente africano. John Atta-Mills del National Democratic Congress (NDC) ha preso il posto, come Presidente del paese, di John Agyekum Kufuor del New Patriotic Party (NPP) che governava da due mandati. Grazie a questa transazione positiva, il Ghana può ormai essere considerata una democrazia stabile.

Come accade in tutti paesi democratici, in occasione di questi passaggi di consegne episodi di spoil system sono inevitabili: basti pensare a quello che accade dopo ogni tornata elettorale in Italia alla nostra televisione pubblica. Il NPP in otto anni aveva occupato con i suoi uomini gran parte delle cariche pubbliche e, una volta al potere, il NDC ha cominciato la sua silenziosa controffensiva che ha toccato anche lo sport, da sempre utile e sottile strumento propagandistico.

A questo punto quello che potrebbe sembrare in apparenza un banale conflitto di potere ha assunto implicazioni molto vaste, in quanto i dirigenti sportivi, minacciati di perdere la loro carica, si sono cautelati facendo appello alle istituzioni sportive internazionali e accusando chi li voleva sostituire di “interferenze politiche”.

La Carta Olimpica, che rappresenta una sorta di costituzione, al punto 28.9 afferma:

«Apart from the measures and sanctions provided in the case of infringement of the Olympic Charter, the IOC Executive Board may take any appropriate decisions for the protection of the Olympic Movement in the country of an NOC, including suspension of or withdrawal of recognition from such NOC if the constitution, law or other regulations in force in the country concerned, or any act by any governmental or other body causes the activity of the NOC or the making or expression of its will to be hampered. The IOC Executive Board shall offer such NOC an opportunity to be heard before any such decision is taken.»

Per proteggere il Movimento Olimpico, il CIO ha quindi applicato il diritto di sospendere un comitato olimpico (NOC) nel caso di influenze politiche in esso. Similmente, la FIFA ha la possibilità di agire allo stesso modo nei confronti della GFA.

Ma perché proprio il Ghana? È evidente che il Ghana, o il Kuwait, non siano i soli NOC che subiscono pressioni politiche. Ad esser pignoli, tutti i NOC in un modo o nell’altro subiscono influenze politiche in quanto ricattabili economicamente dai governi da cui dipendono. Più concretamente, però, il Ghana paga il fatto di essere una democrazia giovane: i vecchi dirigenti si aggrappano al potere sfruttando la giurisdizione delle istituzioni politiche internazionali, i giovani rampanti, forti del loro passato da atleti e del fatto di essere amati dal pubblico, vengono sostenuti maldestramente e senza seguire le procedure dal governo alla ricerca di consensi.

Ma siamo sicuri che questa situazione sia peggiore rispetto a quella di altri stati che hanno ottenuto addirittura il diritto di ospitare Olimpiadi e Mondiali e in cui la presidenza dei NOC o delle federazioni è diretta emanazione di scelte governative? Perché il CIO e la FIFA continuano a preferire stati che rispettano formalmente le loro procedure, ma sostanzialmente usano lo sport come strumento politico, e puniscono stati che, pur rompendo formalmente le loro regole, stanno cercando di darsi solide istituzioni democratiche?

Fermo restando che ha storicamente dimostrato di preferire la stabilità alla democrazia, l’impressione è che stavolta il CIO si sia fatto trascinare in una disputa di politica interna piuttosto che non di mancato rispetto della Carta Olimpica. Perché se è vero che la sospensione del Ghana è giuridicamente ineccepibile, allo stesso tempo appare assolutamente ipocrita e incoerente. Paesi economicamente e politicamente più potenti del Ghana come Cina, Russia e Qatar, i cui dirigenti sportivi sono diretta emanazione di scelte governative, non sono mai stati nemmeno richiamati, eppure l’uso politico dello sport in queste realtà è all’ordine del giorno.

E,  in queste dispute politiche, a pagare sono sempre gli atleti. La sospensione è ovviamente temporanea, ma se entro il 2012 non si sarà giunti a una soluzione, l’auspicio è che gli atleti possano almeno trovare una formula che permetta loro di gareggiare.

CANTONA, IL RIVOLUZIONARIO

Éric Cantona, ex funambolo del Manchester United, ex allenatore della nazionale francese di beach soccer, si è unito al movimento “StopBanque” dichiarando ufficialmente guerra al sistema bancario francese e internazionale.

Il video incriminato risale ormai all’8 ottobre ma i media internazionali ne hanno dato risalto solamente negli ultimi giorni con l’avvicinarsi del D-day fissato per il 7 dicembre. Éric Cantona, ex funambolo del Manchester United, ex allenatore della nazionale francese di beach soccer, testimonial di mille campagne pubblicitarie, sportivo e attore di successo, si è unito al movimento “StopBanque” dichiarando ufficialmente guerra al sistema bancario francese e internazionale.

Come spesso accade in questi casi il tutto si è sviluppato in maniera un po’ casuale. Intervistato per il quotidiano Presse Ocean nel pieno dello sciopero contro l’innalzamento dell’età pensionabile voluto dal governo Sarkozy, l’ex nazionale francese ha espresso un forte scetticismo sui metodi della protesta. A suo avviso, infatti, di fronte a una sfida di portata globale come quella rappresentata dalla recente e pervasiva crisi economica, i vecchi metodi di pressione sul governo, come le manifestazioni di strada, si rivelano oggi del tutto naïf e poco incisivi. Fra il serio e il faceto, Éric Cantona rifletteva sul fatto che se tutte le persone scese in strada in quei giorni – stime parlano di 3 milioni – avessero ritirato, nello stesso giorno, il loro denaro dalle proprie banche il sistema sarebbe stato concretamente messo in discussione. Tale mossa avrebbe la forza di portare al collasso l’intero sistema bancario, ritenuto dall’ex calciatore il vero responsabile dell’attuale crisi. Con l’andare dei giorni lo spezzone dell’intervista è diventato un cult su Youtube.

È tuttavia bene precisare che le riflessioni del “giocatore del secolo del Manchester United” non sono venute dal nulla, ma sono il frutto del pensiero intellettuale di diverse organizzazioni nazionali e internazionali e nello specifico del movimento anti-globalizzazione di contro-informazione “StopBanque”, il primo a cavalcare le dichiarazioni di Cantona. Proposte simili girano da anni nei siti di contro-cultura e all’interno dei movimenti anti-globalizzazione, tuttavia c’è voluto uno sportivo, una celebrità mediatica, per diffonderle al grande pubblico.

Éric Cantona – genio e sregolatezza, magia e provocazione – alla luce dei fatti si è rivelato un perfetto testimonial. Un testimonial che, date le reazioni governative, del mondo bancario–finanziario e l’inatteso interesse dimostrato dall’opinione pubblica sulla tematica, ha evidentemente colpito nel segno. Se è vero che la proposta di ritirare dalle banche i risparmi il 7 dicembre difficilmente potrà avere successo, la provocazione di Cantona inquieta non poco gli istituti di credito. «Certe persone giocano magnificamente a calcio ma io non mi arrischierei mai. Penso che ognuno debba intervenire nel proprio campo di competenza» ha dichiarato il Ministro delle Finanze francesi Christine Lagarde. Il banchiere Baudoin Prot ha parlato di un appello «irresponsabile, mal fondato» e «portatore di insicurezza» mentre il portavoce del governo François Baroin, giudicando l’uscita di Cantona «poco seria», lo ha attaccato sul piano calcistico affermando che «per quanto si fosse trattato di un ottimo centravanti, dovrà significare qualcosa il fatto che Aimé Jacquet non lo avesse convocato per la Coppa del Mondo del 1998».

Quest’opera di denigrazione, a cui si aggiunge l’ironia sul numero di valigie che serviranno a Cantona per svuotare il proprio conto, rischia di mettere in secondo piano i molti aspetti positivi della provocazione del francese. Una difesa critica è arrivata sulle pagine del quotidiano Liberation che è partito da Cantona (dedicandogli anche la copertina) per aprire un dibattito serio sulle deficienze del sistema creditizio e sul ruolo giocato dai banchieri nella crisi per cercare di individuare proposte meno populiste ma altrettanto efficaci. Riprendendo il pensiero di Nathalie Arthaud, secondo cui «il problema non sono le banche in sé ma i banchieri che le hanno trasformate in casinò personali», dalle colonne del quotidiano francese Vittorio de Filippis ha sostenuto che la campagna di Cantona potrebbe servire per rilanciare l’interesse dell’opinione pubblica nei confronti delle Banche Etiche, nelle quali «depositare il denaro non equivale a giocare in borsa o a speculare».

A prescindere dal seguito, questa vicenda dimostra quale sia la centralità dello sport nella società: ci sono infatti volute le dichiarazioni di un ex calciatore per aprire un dibattito che non fosse di nicchia sulle falle del sistema bancario. Le dichiarazioni al di fuori del mainstream mediatico di celebrità sportive come Cantona hanno la forza di generare il terrore fra i membri dell’establishment politico ed economico: esse risultano avere una presa maggiore nei confronti dell’opinione pubblica. Quando l’atleta smette i panni del burattino che ripete a memoria frasi banali e precostruite, esprimendo liberamente le proprie idee, può finire per creare scompiglio fra coloro che si aspettano che uno sportivo debba parlare esclusivamente di sport. L’aureola di celebrità creatasi intorno a Éric Cantona lo ha reso però immune all’opera di denigrazione guidata da politici e banchieri.

È evidente come la commercializzazione del mondo dello sport tenda a creare campioni ed eroi idolatrati che, generalmente, seguono le regole del gioco diventando un potente alleato del sistema. Ma, in quanto esseri umani, dotati di una propria identità e della libertà d’espressione, possono trasgredire. Éric Cantona, in diversi momenti della sua vita, non si è fatto mancare niente: pur recitando la parte del ribelle, l’attaccante ha comunque accettato le regole del gioco diventando uomo immagine di un noto brand di vestiario sportivo. Oggi, invece, l’ex Red Devil sembra aver indossato i panni del rivoluzionario moderno. Che sia nato un novello Robin Hood?

Nicola Sbetti

Articolo scritto per www.centrostudiconi.it/approfondimenti e per le testate giornalistiche online www.pianeta-sport.net e www.thepostinternazionale.it

SFIDA MONDIALE

Giovedì 2 dicembre la FIFA assegna i Mondiali 2018 e 2022: ecco quali sono i paesi candidati.

Fin dalla sua nascita, nel lontano 1930, la Coppa del Mondo di calcio ha rappresentato qualche cosa di più rispetto a un semplice torneo di calcio. Storicamente, ma ancor di più negli ultimi anni, l’organizzazione di un mega-event come il Mondiale non rappresenta solamente un’occasione per incrementare il prestigio nazionale: se ben sfruttata, infatti, essa può portare a vantaggi in diversi campi come quello economico, turistico e delle relazioni internazionali. Tutto dipende, però, dal tipo di enfasi che si pone nell’evento e dalla sua interconnessione con altri aspetti della società.

Nel 1998 la Coppa del Mondo di calcio in Francia, conclusasi con il trionfo della squadra di casa, portò alla costruzione dell’idea di una Francia vincente non solo sul campo da calcio ma anche nell’arena internazionale, fautrice di un modello integrazionista da ammirare ed esportare rappresentato proprio dai 22 calciatori campioni del mondo, ribattezzati immediatamente (riprendendo l’immagine del tricolore) i “black, blanc, beur”. Come attentamente sottolineato da Patrick Mignon in Fans and Heroes, i simboli e gli appelli all’unità lanciati nelle celebrazioni del 12 luglio 1998 furono assai enfatizzati proprio perché l’unità era molto lontana dall’essere reale, fatto che emerse chiaramente con la ribellione delle banlieue del novembre del 2005. Quello che conta, però, è che i politici nel 1998 cercarono di ottenere attraverso il calcio ciò che non erano stati in grado di raggiungere attraverso le politiche più tradizionali.

Quattro anni più tardi fu il turno di Corea e Giappone. I due paesi non solo dimostrarono al mondo le loro capacità organizzative e il loro sviluppo tecnologico, ma approfittarono anche dell’evento per normalizzare ulteriormente le loro relazioni inducendo la popolazione a fare altrettante. Ovviamente per i coreani tifare per gli ex dominatori imperialisti non rappresentò un’opzione percorribile, ma le cronache riportano che più di qualche tifoso giapponese, a seguito dell’eliminazione della propria squadra, iniziò a simpatizzare per i vicini coreani, in parte istigati dal governo, in parte attratti dal successo sportivo della squadra di Hiddink.

Nel 2006, secondo le cifre della Deutsche Bundesbank, proprio grazie all’ esemplare organizzazione della kermesse, il Mondiale tedesco ha portato nel trimestre in questione a una crescita dello 0,25%.

Quest’anno, come ricordato con insistenza dal jingle della canzone ufficiale, è arrivato il tempo dell’Africa. Non che oggi a Città del Capo o a Johannesburg si siano risolti i problemi di disuguaglianza, violenza e povertà, ma il Mondiale sudafricano ha posto per un paio di mesi il paese e retoricamente l’intero continente africano al centro del mondo.

Insomma, per quanto non sarà certo l’organizzazione dei Mondiali di calcio a risollevare il destino di un paese, questa competizione resta comunque un’occasione di prestigio internazionale e sportivo davvero importante a cui le federazioni calcistiche e i governi non sembrano voler rinunciare. Oltretutto intorno all’evento si crea, fra sponsorizzazioni internazionali, nazionali e diritti televisivi, un giro economico miliardario che fa gola a molti. Scandalizza, ma non sorprende, quindi che, non appena dei giornalisti si sono messi a indagare, siano emersi immediatamente casi di corruzione relativi alle candidature dei Mondiali. A metà ottobre alcuni reporter del Sunday Times si sono finti lobbisti statunitensi e hanno smascherato il membro nigeriano della FIFA Amos Adamu che aveva chiesto ai finti emissari la bellezza di 800mila $ per costruire campi di calcio artificiali. La stessa richiesta è stata avanzata al presidente della Oceania Football Confederation, il quale ha accettato di votare per i fantomatici lobbisti in cambio dei soldi per finanziare un’accademia sportiva.

Una decina di giorni dopo è stata la volta di Michel Zen-Ruffinen. L’ex delfino – poi rivale – di Blatter, filmato segretamente, ha fatto capire che molti dei ventiquattro membri del Fifa Executive Commitee sono da sempre aperti a diverse forme di corruzione e ha reso più credibile la sua affermazione descrivendone vizi e debolezze. Per chi ha letto i libri e le inchieste di Andrew Jennings, il primo reporter a sollevare il velo dell’omertà delle istituzioni sportive, sembra che (almeno nella FIFA) nulla sia cambiato.

La situazione è resa ancora più complessa dalla doppia assegnazione (2018, 2022) in un’unica giornata. “Di doman non c’è certezza” scriveva Lorenzo de’ Medici nel Quattrocento, ma lo stesso potrebbe aver pensato il gran capo Blatter che difficilmente, per questioni anagrafiche, si ricandiderà nel 2014. È chiaro altresì che questa promozione “compri due, paghi uno” facilita lo scambio di voti e la scarsa trasparenza. Ecco allora che, sempre grazie alle dichiarazioni rubate a Zen-Ruffinen, emerge come Spagna e Portogallo si siano accordate con il Qatar per lo scambio di voti, sostenendo le rispettive candidature. Una pratica moralmente disgustosa ma assai comune nei processi poco trasparenti di lobby. La stessa candidatura olimpica di Roma 2020, per esempio, nella fase di pre-selezione per avere la meglio su Venezia, aveva messo sul tavolo tra le altre cose la possibilità di un eventuale accordo Roma – Tokio per ripetere la doppietta (1960-1964 anche nel 2020-2024).

Questioni di prestigio e, soprattutto, economiche rendono quindi la scelta del 2 dicembre davvero importante per le nazioni e le federazioni che ospiteranno il mondiale del 2018 e del 2022. Nel 2018 hanno avanzato le proprie candidature Inghilterra, Russia e, congiuntamente, Spagna-Portogallo e Belgio – Olanda. Per il 2022 si sono, invece, fatte avanti Australia, Qatar, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti.

2018

BENELUX

Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi hanno avanzato la candidatura come un’unica entità geografica, economica e culturale: tuttavia, se si esclude un congresso FIFA in Lussemburgo, gli incontri si disputeranno solamente in terra d’Olanda e in Belgio. I due paesi vorrebbero ripetere l’exploit del 2000 passando dal palcoscenico europeo a quello mondiale. Il progetto prevede quattordici stadi in dodici città (sette in Belgio, cinque nei Paesi Bassi): al momento gli stadi sembrano troppo piccoli alle esigenze, talvolta sproporzionate, della FIFA, tuttavia sia Rotterdam che Bruxelles hanno dato il via libera alla costruzione di due stadi da 80mila spettatori. Quello di Bruxelles, il Nationaal Stadion, potrebbe avere una valenza davvero importante, data la complessa situazione che sta vivendo il paese: in effetti, una delle possibili debolezze di questa candidatura è dovuta all’incertezza politica del Belgio. Nel 2018 esisterà ancora un paese chiamato Belgio? In tal senso però proprio il calcio, al contrario del ciclismo, sembra essere un fattore più unificatore che divisivo. E in ogni caso, malgrado il carisma di Gullit, la candidatura del Benelux non sembra la principale favorita.

INGHILTERRA

Calcisticamente la nazione è ancora ferma alla nostalgia per la vittoria del 1966, considerando che da quella data non è più riuscita a esprimere un gruppo vincente. I migliori risultati sono ancora quelli degli anni Novanta con il quarto posto al Mondiale italiano e la semifinale all’Europeo casalingo del 1996. A livello di organizzazione sportiva, invece, l’Inghilterra è un paese leader: negli ultimi vent’anni l’Inghilterra ha organizzato gli Europei di calcio, i Mondiali di rugby e di cricket e nel 2012 ospiterà i Giochi Olimpici. I Mondiali la confermerebbero come uno dei paesi sportivi d’avanguardia, tenendo sempre presente che nel Regno Unito l’intervento governativo in campo sportivo, benché crescente, è sempre stato ridotto rispetto a quello di molti altri paesi. Gli stadi esistenti e quelli progettati sono assolutamente all’altezza e l’idea di riportare il calcio laddove è stato inventato fanno della candidatura inglese la favorita al pari della Russia.

SPAGNA-PORTOGALLO

Anche in questa occasione, come per Olanda e Belgio, i due principali paesi della penisola iberica hanno pensato di riproporre l’accoppiata vincente dell’Europeo in un palcoscenico più ampio. Ovviamente, alla luce delle dimensioni, e del peso economico e demografico dei due stati, la Spagna farà la parte del leone rispetto al Portogallo. La crisi economica mondiale, però, sembra aver colpito in maniera più pesante i paesi mediterranei che il resto d’Europa e ciò potrebbe forse andare a penalizzare le chance della candidatura iberica. Per controbilanciare le sue carenze la Spagna metterà sul piatto della bilancia il suo indiscutibile prestigio sportivo, che però potrebbe non bastare.

RUSSIA

Senza l’Ucraina il calcio russo pare aver perso davvero molto rispetto a quello sovietico, ma la federazione, con l’investimento importante su Hiddink nel recente passato, ha dimostrato a suon di rubli di voler invertire questo trend. I soldi non bastano, è vero, ma nel caso russo sembrano essere davvero l’asso nella manica. Almeno cinque stadi nuovi di zecca e lo Stadio Olimpico, che sarà inaugurato a Soči in occasione delle Olimpiadi invernali del 2014, si andranno ad aggiungere agli stadi moscoviti, a quello di Kazan e a quello di San Pietroburgo. La federazione ha fatto sapere che il governo non baderà a spese – 10 miliardi di dollari – e che darà, con il primo ministro Putin in prima linea, pieno sostegno alla candidatura.

2022

AUSTRALIA

Nella terra dei canguri in cui il football si gioca con palloni ovali in stadi della stessa forma ci si sta preparando con alacrità per la progettazione dei Mondiali del 2022. Malgrado la scarsa tradizione calcistica, che permane ancor oggi nonostante alla generazione dei Kewell e Viduka sia seguita quella dei Cahill e Bresciano, l’Australia resta terra dello sport e degli sportivi per eccellenza. Il paese sembra avere l’imbarazzo della scelta per quel che riguarda gli stadi: tuttavia molti di essi non sono, e non saranno mai, destinati esclusivamente al calcio. Il rugby e l’australian rules football restano gli sport invernali preferiti dai tifosi australiani e il regolare svolgimento di questi campionati potrebbe entrare in concorrenza con l’organizzazione dei Mondiali. In ogni caso la federazione australiana, come dimostra anche il passaggio dalla confederazione oceanica a quella asiatica, vuole a tutti i costi alzare il livello del calcio australiano e l’organizzazione di un Mondiale resta sempre il miglior viatico.

GIAPPONE

Nel paese del Sol Levante il successo organizzativo del 2002, in coppia con la Corea del Sud, ha reso appetibile la possibilità di un bis. Il paese, oltretutto, non sembra accontentarsi solo del calcio visto che in ballo ci sono anche le candidature alle Olimpiadi del 2016 e dei Mondiali di rugby del 2019. Gli stadi usati per il Mondiale del 2002 e quelli previsti eventualmente per il 2022 fanno del Giappone un rivale temibile. Tuttavia, come per i vicini coreani, la federazione giapponese potrebbe essere penalizzata dalla vicinanza temporale: sono infatti passati solo otto anni tra l’esperienza del 2002 e la scelta del prossimo 2 dicembre. Oggettivamente, però, l’arco temporale di venti anni fra il 2002 e il 2022 pare comunque essere sufficiente lungo per non screditare la candidatura nipponica.

QATAR

Gli sceicchi, che nella storia dei Mondiali non sempre hanno fatto bella figura, sono ormai una realtà nello sport e nel calcio internazionale: dopo aver contribuito alle campagne acquisti fantasmagoriche di alcune squadre e ad alimentare le false speranze di altre, in Qatar si sono messi in proprio. Automobilismo, tennis e i Giochi Asiatici hanno dimostrato che, quando i soldi non mancano, si può fare sport anche nel bel mezzo del deserto. La tradizione è pressoché inesistente, ma le tecnologie sono all’ultimo grido e in grado di sconfiggere quello che sembra essere il vero tallone d’Achille della candidatura del paese: il clima. Benché le temperature scendano raramente sotto i 30°, il comitato organizzatore ha promesso che negli stadi la temperatura non sarà superiore ai 20°. La minaccia del terrorismo internazionale potrebbe forse incidere nella scelta di qualche delegato FIFA, tuttavia il Qatar in questo senso non pare essere particolarmente vulnerabile. Come riportato da Al Jazeera, Blatter ha sdoganato la candidatura del Qatar affermando che “il mondo arabo merita la Coppa del Mondo”. Qatar fra i favoriti, quindi? Sicuramente, anche se rimane comunque incomprensibile l’utilità di costruire undici stadi da 50mila posti in un paese abitato da poco più di 1600 persone. Mai come in questo caso, a competizione finita, l’espressione “cattedrale nel deserto” rischia di essere più appropriata.

COREA DEL SUD

Come per il Giappone, la vicinanza con il Mondiale del 2002 potrebbe forse limitare le chance di successo, o almeno dovrebbe. I coreani, però, hanno imparato davvero bene a fare lobby e, dopo aver messo uomini chiave nel Comitato Olimpico Internazionale, stanno tentando la scalata anche nella FIFA. Il sostegno governativo non manca, gli stadi sono all’avanguardia: gli unici problemi potrebbero venire dai cugini del Nord. Malgrado il vicino militarmente ingombrante, però, l’esperienza del 2002 (al contrario di quella del 1988, dove la Corea del Nord aveva boicottato l’evento) ha dimostrato che in linea di principio la Corea del Sud non dovrebbe rischiare di essere penalizzata da questioni di sicurezza internazionale. Tuttavia la transizione che si sta vivendo a Pyongyang e l’ampio arco temporale fanno sì che le ipotesi di riunificazione, democratizzazione del Nord, guerra o di nulla di fatto siano tutte plausibili, indebolendo un po’ la forza della candidatura coreana.

STATI UNITI

Nella prima metà degli anni Novanta il soccer statunitense veniva trattato con ironia e disprezzo. Oggi, a più di quindici anni dal mondiale casalingo, la nazionale a stelle e strisce è riuscita ad affermarsi come una realtà del calcio internazionale da non sottovalutare grazie anche ad un campionato che, oltre ad attirare stelle prossime alla pensione, produce anche interessanti prospetti. Non sembra creare problemi neppure livello organizzativo: il Mondiale del 1994 aveva portato ufficialmente il calcio nella nuova dimensione iper-globalizzata che tanto piace alla FIFA. Benché non costruiti per il calcio ma per il football americano, gli stadi sono immensi e non entrerebbero nemmeno in conflitto con la stagione dell’NFL che inizia ad agosto inoltrato. La Concacaf, inoltre, sarà la federazione calcistica – OFC esclusa – a cui mancherà da più tempo l’organizzazione della Coppa del Mondo. Il presidente Obama, che sostiene la candidatura, dopo essere stato malamente snobbato in seno al CIO, potrebbe paradossalmente ottenere una rivincita simbolica proprio grazie al meno americano degli sport.

Nicola Sbetti

LE COREE E LA DIPLOMAZIA DEL CALCIO

Divise sul campo di battaglia, vicine su quello di calcio: ecco il destino di Corea del Nord e Corea del Sud.

Quando, nel 1948, viene adottata la decisione di suddividere la penisola coreana in due diversi Stati – l’uno ispirato al modello delle democrazie liberali, l’altro invece di stampo comunista – probabilmente, anzi, sicuramente nessuno si sofferma a riflettere sulle ripercussioni in ambito sportivo che essa avrà. Eppure, prima o poi, le strade di Corea del Nord e Corea del Sud troveranno un punto d’incontro (o di scontro, vedetela come volete) non solo in un campo di battaglia, ma anche da gioco. Forse perché, come sosteneva qualche anno prima George Orwell, lo sport non è altro che un’imitazione della guerra. E così fu.

Lo scrittore inglese, morto esattamente in quell’anno, sottolineava gli aspetti negativi dello sport: non è altro che una causa di attriti o, nel migliore dei casi, un pretesto per esibire con orgoglio una presunta superiorità tecnica nei confronti dei dirimpettai. E questo corrispondeva in parte a verità anche nel caso della Corea di fine anni ’20: la linea di demarcazione tra i due paesi, in corrispondenza del 38° parallelo, è un’ipotesi ancora piuttosto remota ma nello sport emerge comunque una rivalità tra Pyongyang e Seoul. Una rivalità calcistica che trova sfogo nell’istituzione dei giochi Gyung-Pyong, appuntamento fisso a partire dal 1929. Una tradizione che si ripete per otto volte, fino al 25 marzo 1946: è questa la data dell’ultimo incontro di calcio tra le due città con il paese unito. Trascorre un paio di anni e la Corea cessa di esistere, lasciando spazio a due nuovi stati che parlano la stessa lingua ma che finiscono sotto aree di influenza agli antipodi. Poi arriva il momento del conflitto bellico, quello vero: scoppiato nel 1950, finirà solamente tre anni dopo, con un accordo di pace che mai troverà una sua reale applicazione. Anche tra le due Coree è guerra fredda.

Poi, all’improvviso, a quasi trenta anni di distanza dalla divisione della penisola, ecco che il destino inizia a metter mano sui rapporti tra i due paesi: il 6 maggio 1976 diventa una data storica, allorché le rispettive selezioni calcistiche si ritrovano da avversarie. Per la prima volta, Corea del Nord e Corea del Sud si sfidano a colpi di pallone anziché di cannone: è Bangkok ad ospitare l’incontro, valido per le semifinali dei Campionati asiatici di calcio giovanili, che si conclude con la vittoria stringata (1-0) della metà settentrionale della penisola. Due anni dopo, poi, è la volta della prima sfida tra le nazionali maggiori: ironia della sorte, è nuovamente Bangkok il teatro della sfida fratricida tra Pyongyang e Seoul. E, questa volta, si lotta per un premio ancor più prestigioso: la vittoria dei Giochi asiatici. Quella del 22 dicembre 1978 diventa, così, un’edizione ricca di significati: la capitale thailandese viene scelta dopo le precedenti rinunce di Singapore per motivi finanziari e di Islamabad a causa dei conflitti che vedono il Pakistan impegnato contro Bangladesh e India. È anche l’edizione che coincide con l’espulsione delle rappresentative israeliane dai Giochi asiatici. Soprattutto, è l’edizione che regala Corea del Nord-Corea del Sud come duello finale del torneo di calcio nel trentesimo anniversario della loro data di fondazione: entrambe marciano spedite verso l’atto supremo, senza perdere un solo incontro e dando saggio di grande forza. Ma nell’atteso scontro tra titani nessuna delle due riesce a prevalere, neppure dopo i tempi supplementari: niente rigori, il regolamento prevede che il primo posto sia assegnato ex aequo. Vince, è il caso di dire, la Corea, senza operare distinzioni geopolitiche.

Il terzo confronto tra i due stati separati avviene, ancora una volta, in Thailandia: è qui che, nel novembre 1981, si disputa la quattordicesima King’s Cup, torneo internazionale a cadenza annuale al quale prendono parte anche alcune nazionali europee. Ad onor del vero, Corea del Nord e Corea del Sud inviano le loro rappresentative militari, i cui giocatori fanno in realtà parte delle forze armate, entrambe inserite nel girone 2: la vittoria, ancora una volta, arride ai settentrionali che, imponendosi per 2-0, ipotecano la qualificazione al turno successivo. In tre incontri, la Corea del Nord ne vince due, senza mai subire reti. Una gioia destinata, tuttavia, a non ripetersi per otto anni. 16 ottobre 1989: mentre la guerra fredda tra USA e URSS volge ormai al termine – e di lì a poche settimane crollerà il Muro di Berlino – a Singapore le due nazionali scendono in campo in un match valido per le qualificazioni ai Mondiali di Italia ’90. Dopo due sconfitte, un pareggio e nessun gol segnato, la Corea del Sud riesce a porre fine al malefico sortilegio: dopo diciotto minuti Hwang Sun-Hong segna la rete che decide l’incontro. Un successo storico bissato qualche mese dopo, il 29 luglio 1990: a Pechino le due nazionali tornano a fronteggiarsi per tenere a battesimo la Dynasty Cup, una manifestazione sportiva riservata alle federazioni calcistiche dell’Estremo Oriente e destinata a breve vita. E la Corea del Sud si impone nuovamente con il minimo scarto, trovando tuttavia solamente al novantesimo il gol della vittoria, a firma di Hwangbo Kwan.

Ma il vero evento è a ottobre: a distanza di due settimane, il derby del 38° parallelo si gioca per la prima volta nei rispettivi paesi. Una tantum, non ci sono trofei o qualificazioni ai Mondiali da vincere: Corea del Nord e Corea del Sud danno vita ad una serie di amichevoli meglio note come “partite della riunificazione”. Il calcio, dunque, diventa uno strumento diplomatico – come il ping pong lo fu per Cina e Stati Uniti – per favorire il disgelo tra i due paesi, far avvicinare le rispettive posizioni e, perché no?, sognare di unire nuovamente la penisola coreana sotto un’unica bandiera. Si arriva così ad un altro, storico incontro: quello dell’11 ottobre 1990 che ha per scenario il mastodontico stadio “Rungrado – May Day” di Pyongyang, avveniristica struttura simile ad un fiore di magnolia che può ospitare oltre 150mila spettatori. E, non a caso, gli spalti fanno registrare il tutto esaurito. A metà del primo tempo la rete del sudcoreano Kim Joo-Sung sembra presagire alla terza vittoria consecutiva di Seoul, ma ad inizio ripresa il capitano Yoon Jung-Soo fa impazzire i sostenitori locali siglando il gol del pareggio. Ed in pieno recupero, due minuti oltre lo scadere dei tempi regolamentari, Tak Yong-Bin trasforma il rigore che completa la rimonta e regala alla Corea del Nord il successo per 2-1. Dodici giorni dopo, il 23 ottobre, si torna nuovamente a giocare ma a campi invertiti: all’Olimpico di Seoul la sponda meridionale della penisola vendica il recente ko con un’altra rete decisiva di Hwang Sun-Hong, messa a segno dopo venticinque minuti.
Il 1991 è un anno di pausa, quanto ad amichevoli o partite di un certo peso. Ma non è un anno qualsiasi. Ai Mondiali di calcio Under 20, ospitati dal Portogallo, Nord e Sud uniscono le forze e si presentano sotto un’unica bandiera: è quella della Corea unificata, un vessillo bianco al cui centro risalta il profilo, colorato di azzurro, della penisola. Una circostanza che, però, non avrà alcun seguito, nonostante i giovani coreani scrivano una delle pagine più belle battendo di misura l’Argentina. Il confronto diretto tra le due Coree ritorna il 24 agosto 1992: ancora Pechino, ancora Dynasty Cup. A differenza delle precedenti sfide, però, in terra cinese esce un salomonico pareggio: al (solito) vantaggio sudcoreano del futuro capitano Hong Myung-Bo replica, nuovamente nelle battute conclusive, Choi Yong-Son. Senza storia, invece, l’incontro che va in scena in Qatar il 28 ottobre 1993: la Corea del Sud è in piena corsa per la qualificazione ai Mondiali americani ed i cugini del nord proprio non riescono ad opporre resistenza. Al triplice fischio finale è 3-0, la vittoria con il maggior scarto nella storia delle sfide fratricide, con le reti che giungono tutte nella ripresa: i marcatori sono Ko Jung-Woon, Ha Seok-Joo e, soprattutto, Hwang Sun-Hong. Segnando il momentaneo raddoppio sudcoreano, l’attaccante transitato brevemente dalla Bundesliga diventa il detentore di un curioso record: con tre reti è lui il cannoniere più prolifico nella storia delle sfide sull’asse Pyongyang-Seoul.

Per dodici anni, poi, non succede più nulla (eccezion fatta per un’amichevole a Seoul nel settembre 2002 tra le nazionali giovanili, organizzata dalla Fondazione Europa-Corea e sponsorizzata dalla federcalcio del Sud). Fino al 4 agosto 2005, nel pieno dei Campionati est-asiatici, competizione che ha raccolto l’eredità della Dynasty Cup: a Jeonju, città sudcoreana che ha ospitato alcune partite dei Mondiali di calcio, le due nazionali si preoccupano prima di tutto della fase difensiva e non si aggrediscono vicendevolmente. Come nel primo incontro tra le nazionali maggiori, avvenuto nel 1978, tra Corea del Nord e Corea del Sud è pareggio a reti bianche. Non sarà così dieci giorni dopo per un altro appuntamento con le amichevoli della riunificazione: è il 14 agosto e a Seoul regna un clima gioioso e ridanciano. Il giorno dopo, infatti, si celebra l’anniversario della liberazione dal Giappone. E i sessanta anni della prestigiosa ricorrenza non potevano ricevere miglior festeggiamento: i “diavoli rossi” assestano il secondo 3-0 nella storia dei confronti diretti, andando in gol con Chung Kyung-Ho, Kim Jin-Yong e Park Chu-Young.
Ma il vero anno che rimarrà nella storia è il 2008: per quattro volte in meno di sette mesi Nord e Sud si sfidano in ambito calcistico. Un’abbuffata di derby che si chiude senza vinti né vincitori. Si inizia il 20 febbraio con un altro incontro valido per i Campionati est-asiatici, nella città cinese di Chongping: l’ennesima illusione di supremazia sudcoreana si concretizza con il gol di Yeom Ki-Hun, ad un quarto d’ora dal termine Jong Tae-Se riporta tutti con i piedi per terra. Il 26 marzo, invece, ci si gioca la qualificazione ai Mondiali in Sud Africa: è Shangai ad ospitare, per motivi politici, l’incontro che vede i nordcoreani come nazione ospitante. Niente reti, niente vincitori o sconfitti: la stessa trama che offre il match di ritorno a Seoul, giocato il 22 giugno. Finita l’estate, è nuovamente Corea del Nord-Corea del Sud: a Shangai, il 10 settembre, le due cugine osano maggiormente rispetto alle precedenti uscite e segnano un gol a testa. E, come a voler spezzare la catena, stavolta sono i padroni di casa a sbloccare il risultato con il rigore di Hong Young-Jo, cui fa seguito dopo nemmeno cinque minuti il pareggio definitivo di Ki Sung-Yong. L’ultimo incrocio avviene il 1° aprile 2009 a Seoul, per la gara di ritorno della seconda fase della qualificazione mondiale: mancano appena tre minuti alla fine quando Kim Chi-Woo regala alla Corea del Sud la sesta vittoria in questa serie di derby dal sapore particolare.

A rendere ancor più intricati i legami tra calcio e politica nelle vicinanze del 38° parallelo ha poi provveduto la FIFA: giovedì 2 dicembre, infatti, verranno decisi i paesi che ospiteranno le edizioni 2018 e 2022 dei Mondiali di calcio. Nel secondo caso ha avanzato la propria candidatura anche la Corea del Sud, opposta ad Australia, Qatar, Stati Uniti e Giappone (già, c’eravamo tanto amati…). E Seul ha fatto sapere che, in caso di assegnazione, lavorerà affinché alcune partite siano giocate al di là del 38° parallelo. Assai singolare, comunque, che negli stessi giorni le due Coree siano coinvolte in questi giochi: non sorprenderebbe se nuovi, paventati scontri influissero negativamente sulla decisione della FIFA e se, viceversa, l’assegnazione dei Mondiali 2022 alla Corea del Sud indirizzasse i due paesi verso una riappacificazione e, chissà, una riunificazione della penisola.  La partita, insomma, si gioca tanto a Zurigo quanto nel Mar Giallo. Può un semplice pallone di cuoio decidere i destini di due paesi?

Simone Pierotti