LA ROJA IN FINALE PER LA PRIMA VOLTA

La Spagna raggiunge per la prima volta nella storia la finale della Coppa del Mondo che disputerà domenica contro l’Olanda. Per la prima volta dal 1978, si incontrano due squadre che non hanno mai vinto la Coppa

La gioia spagnolaPensare ad un movimento, quello spagnolo, che nella sua storia non era mai riuscito ad arrivare ad una finale Mondiale faceva stranire non poco. Mentre a livello di club il Real mieteva vittime e raccoglieva successi a destra e a manca, infatti, la nazionale non riusciva mai a riproporsi allo stesso livello. A cambiare l’antifona ci ha quindi pensato una generazione straordinaria, tra le migliori mai viste in Spagna e non solo. Squadra completissima, infatti, quella allenata prima da Aragones ad Euro 2008 e poi, attualmente, da Del Bosque nel corso di questo Mondiale. Unica nota stonata, proprio rispetto al torneo iridato in corso di svolgimento in Sudafrica, il rendimento di un Fernando Torres che pare essere l’ombra di sè stesso: giocasse ai suoi livelli, infatti, la Roja avrebbe probabilmente vinto molto più largamente i propri match e sarebbe arrivata come favoritissima ad una finale in cui partirà comunque con i favori del pronostico, ma senza che possano esserci certezze in merito al possibile risultato finale.

A decidere il match disputato contro una chiusissima Germania è una rete del gladiatore per eccezione della nazionale iberica, quel Carles Puyol che pur senza indossare la fascia da capitano fa da leader in campo di un gruppo tecnicamente sopraffino cui lui, con la sua grinta, può dare scosse decisive. Splendida l’esecuzione aerea del centrale Blaugrana: sul cross battuto dalla sinistra del fronte offensivo spagnolo, infatti, Puyol si fionda in area con lo slancio massimo per andare a svettare più in alto anche di Piquè, compagno di reparto tanto nel club quanto in nazionale universalmente riconosciuto come uno dei maestri nel gioco aereo del calcio di oggi giorno. Nonostante paghi diversi centimetri rispetto al difensore ex Manchester United, insomma, Puyol dà prova delle sue grandissimi qualità incornando un pallone che si insacca quindi alle spalle di un immobile Neuer, bucato dalla fiondata scoccata dall’avversario.

Spagna che comunque, al di là del gran goal realizzato dal proprio centrale, merita senza se e senza ma la vittoria del match: la qualità del gioco espresso dalla Roja non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello espresso dalla nazionale di Loew, ancora una volta costretta a fermarsi in semifinale (dopo che quattro anni fa i tedeschi si erano dovuti piegare, di fronte al proprio pubblico, davanti agli Azzurri). I favori del pronostico risulteranno essere un peso psicologico eccessivamente pesante per la nazionale di Del Bosque? Difficile, probabilmente. Questa, del resto, è praticamente la stessa squadra che solo due anni fa si laureò Campione d’Europa. Non solo: tantissimi dei suoi componenti hanno una spropositata esperienza internazionale e sono abituatissimi a giocare a certe temperature.

Giocatori come Casillas, Puyol, Iniesta e Xavi sentiranno sicuramente un po’ di tensione pre-match, come è normale succeda in una situazione del genere, ma difficilmente potranno scendere in campo con la tremarella alle gambe e sentendosi bloccati, incapaci di giocare ai livelli che gli competono. Dopo l’Europeo, insomma, gli iberici potrebbero raddoppiare facendo proprio anche il Mondiale. Per intanto non possiamo che levarci il cappello davanti a questa signora squadra, l’unica tra le favoritissime alla vittoria finale ad aver rispettato i pronostici riuscendo a centrare l’accesso all’ultimo atto della competizione.

Mercoledì 7 luglio 2010
SPAGNA – GERMANIA 1-0 (0-0)
Durban Stadium, Durban

SPAGNA: Casillas (c), Ramos, Piqué, Puyol, Capdevila, Busquets, Iniesta, Xavi Hernández, Xabi Alonso (92′ Marchena),  Pedro (85′ Silva), Villa (81′ Torres).

GERMANIA: Neuer, Lahm (c) Mertesacker, Friedrich, Boateng (52′ Jansen), Khedira (80′ Gomez), Schweinsteiger, Trochowski (62′ Kroos), Özil, Podolski, Klose.

ARBITRO: Kassai (HUN)

GOL: 73′ Pujol (SPA)

NOTE: nessun ammonito

Francesco Federico Pagani

ALMANACCO DI SUDAFRICA 2010: 6 LUGLIO

La storia essenziale della Coppa del Mondo di Sudafrica 2010 raccontata, giorno dopo giorno, partita dopo partita, attraverso i tabellini e le reazioni della stampa delle nazioni in campo: una carrellata di prime pagine che fornisce uno spaccato di cultura sportiva, emozioni, tecnica giornalistica e non, design editoriale che permette di costruire un racconto non convenzionale della Coppa del Mondo 2010.



URUGUAY – OLANDA 2-3 (1-1)

URUGUAY: Muslera, M.Pereira, Godín, Victorino, Cáceres, Pérez, Gargano, Arévalo, Á.Pereira (78′ Abreu), Cavani, Forlán (c) (84′ S.Fernández).

OLANDA: Stekelenburg, Boulahrouz, Heitinga, Mathijsen, van Bronckhorst (c), van Bommel, de Zeeuw (46′ van der Vaart), Robben (89′ Elia), Sneijder, Kuyt, van Persie.

ARBITRO: Irmatov (UZB)

GOL: 18′ van Bronckhorst (NED), 41′ Forlán (URU), 70′ Sneijder (NED), 73′ Robben (NED), 92′ M.Pereira (URU)

NOTE: ammoniti M.Pereira, Cáceres (URU), van Bommel, Sneijder, Boulahrouz (NED).

Volkskrant
El Observador
Republica
Trouw

Massimo Brignolo

GLI ORANJE IN FINALE

L’Olanda è la prima finalista del Mondiale sudafricano, dopo aver battuto un Uruguay mai domo 3-2.

Era il 1975 quando Bert van Marwijk fece la sua prima (ed unica) apparizione con la maglia della nazionale olandese, oggi sotto la sua guida. Erano gli anni dell’Olanda del calcio totale, degli Oranje di Cruijff, Resembrink e Neeskens che in campo si esprimevano con una precisione spaventosa, come se i calciatori fossero gli ingranaggi di un meccanismo che non si ingolfava mai. Una squadra che rivoluzionò il modo di giocare a calcio ma che, allo stesso tempo, falliva puntualmente l’appuntamento decisivo, come accadde nel 1974 e nel 1978. Adesso van Marwijk può condurre gli Oranje laddove neppure il profeta del calcio totale Rinus Michels osò spingersi: sulla vetta del mondo.

Va dunque all’Olanda la prima semifinale del Mondiale sudafricano: grazie alla sofferta vittoria per 3-2 ai danni dell’Uruguay, la nazionale di van Marwijk stacca il biglietto per la finalissima dell’11 luglio. Chi pensava che gli olandesi avrebbero avuto vita facile con i sudamericani, falcidiati dalle assenze del talentuoso Lodeiro e del bomber Suárez, si è dovuto ben presto ricredere. Certo, le prime battute di gara confermano i pronostici che danno per favorita l’Olanda: Muslera smanaccia su un traversone dalla destra di Robben e serve il pallone sui piedi di Kuyt che non inquadra lo specchio per una questione di centimetri. L’Olanda gioca con la consueta precisione e dopo diciotto minuti trova il meritato vantaggio: è il capitano Giovanni van Bronckhorst a rompere gli indugi con una staffilata di sinistro dalla lunga distanza su cui Muslera palesa qualche responsabilità. La partita sembra in mano agli Oranje, con la complicità di un Uruguay che si affida solo ad un paio di tentativi, pertanto velleitari, di Álvaro Pereira. Ma la Celeste, piano piano, rosicchia centimetri e in finale di frazione segna il pareggio: il merito è tutto del capitano Diego Forlán che gonfia la rete con un sinistro dalla distanza, timbrando per la quarta volta il cartellino nella competizione. Stekelenburg, fino a questo momento impeccabile, si fa clamorosamente infilare da una conclusione centrale, tradito in parte anche dalla bizzarra traiettoria del pallone Jabulani.

Van Marwijk cambia le carte in tavola e ad inizio ripresa spedisce van der Vaart al posto di de Zeeuw, sostituto dello squalificato de Jong. Sorprendentemente, l’Uruguay continua ad imbrigliare l’Olanda: l’opaca prestazione di Sneijder, forse distratto dalle voci che lo danno possibile vincitore del prossimo Pallone d’Oro, fotografa alla perfezione le difficoltà degli arancioni di creare pericoli. E Stekelenburg deve salvare il risultato su una velenosa punizione di Forlán. Passato lo spavento, l’Olanda prova a ripartire: van der Vaart trova un pertugio nella difesa uruguagia e impegna Muslera di sinistro, sulla ribattuta Robben spara alto. Ma il gol arriva, a venti minuti dal termine, grazie ad un’illuminazione del giocatore più atteso e finora più in ombra: Sneijder calcia all’interno dell’area piccola, prima Maxi Pereira e poi Victorino deviano la conclusione verso la porta di Muslera. Anche van Persie, in posizione irregolare, sfiora il pallone: la rete è da annullare, ma l’arbitro uzbeko Irmatov indica il cerchio di centrocampo. Il centrocampista dell’Inter sale così a quota cinque in classifica marcatori, affiancando in vetta lo spagnolo Villa. Il nuovo vantaggio galvanizza gli arancioni che dopo tre minuti chiudono (apparentemente) i conti: cross con il contagiri di Kuyt dalla sinistra, nel cuore dell’area svetta Robben che di testa lascia Muslera di sasso. Lo stesso Robben sfiora la quarta rete che sarebbe punizione eccessiva per la generosità dell’Uruguay. La nazionale di Tabárez, ancora una volta, dimostra di sopperire alle lacune tecniche sfoderando grinta, tenacia e tenuta psicologica: e così, quando tutti sono già convinti di vedere l’Olanda in finale, un sinistro a girare di Maxi Pereira riapre i giochi nel primo minuto di recupero. L’Uruguay, che ha speso tante energie, tenta l’ultimo, disperato assalto, senza riuscirvi. Trentadue anni dopo, l’Olanda torna a disputare una finale mondiale. La Celeste esce a testa alta, dando così torto a quanti avevano accusato la squadra di aver goduto di eccessiva sorte e di non aver meritato la semifinale. Sarà dunque una finale tutta europea quella del Mondiale 2010 e chiunque vincerà scriverà un pezzo di storia: finora, nessuna nazionale del Vecchio Continente ha mai vinto quando si è giocato fuori dai confini del Mediterraneo.

Martedì 6 luglio 2010
URUGUAY – OLANDA 2-3 (1-1)
Green Point, Città del Capo

URUGUAY: Muslera, M.Pereira, Godín, Victorino, Cáceres, Pérez, Gargano, Arévalo, Á.Pereira (78′ Abreu), Cavani, Forlán (c) (84′ S.Fernández).

OLANDA: Stekelenburg, Boulahrouz, Heitinga, Mathijsen, van Bronckhorst (c), van Bommel, de Zeeuw (46′ van der Vaart), Robben (89′ Elia), Sneijder, Kuyt, van Persie.

ARBITRO: Irmatov (UZB)

GOL: 18′ van Bronckhorst (NED), 41′ Forlán (URU), 70′ Sneijder (NED), 73′ Robben (NED), 92′ M.Pereira (URU)

NOTE: ammoniti M.Pereira, Cáceres (URU), van Bommel, Sneijder, Boulahrouz (NED).

Simone Pierotti

SEMIFINALI: CHI PUO’ SOLLEVARE LA COPPA?

Facciamo le carte alle semifinaliste di Sudafrica 2010: punti di forza e debolezze sulla strada della conquista della Coppa del Mondo.

TatticaArrivati a questo punto tutte e quattro possono vincere, ma ognuna per un motivo diverso.

L’Uruguay può vincere perché ha una forza d’orgoglio che supera i troppe volte compassati olandesi. Tabárez è un fine psicologo, van Marwijk da come sembra è un po’ troppo rilassato. L’Uruguay ha perso nel momento della verità i suoi due uomini migliori, Lugano e Suárez, ma i sostituti hanno pochi minuti sulle spalle e possono portare una ventata di freschezza che a questo punto serve. Il portiere ha la fiducia del mondo, ma attenti è sempre un pochino “distratto”, la difesa è registrata, superarla anche in velocità non è facile (l’innesto di Cáceres migliora l’impatto fisico), il centrocampo si regge sulla forza incredibile di Arévalo a cui si unirà l’energia ancora intatta di Gargano, l’attacco perde tanto con Suárez ma ha sempre Forlán, che sa quello che fa, con Cavani più vicino alla porta e sicuramente pericoloso per i centrali olandesi.

L’Olanda può vincere semplicemente perché ha giocatori migliori in quasi tutti i settori del campo. Stekelenburg è ad oggi il miglior portiere del mondo, van der Wiel a destra non ce l’ha nessuno e Heitinga ha rosicchiato un po’ di anni alla carta d’identità, van Bommel è l’allenatore in campo e da le chiavi della squadra a Sneijder che comanda dalla cintola in su. L’Olanda è arrivata a questo punto perché i giocatori di offesa hanno finalmente riconosciuto un leader in Sneijder e si affidano a lui per qualsiasi cosa. Il primo che si è ribellato, van Persie, ha rischiato di non scendere più in campo e per questo si è subito calmato. Robben se sale di forma diventa l’uomo del Mondiale.

L a Germania può vincere perché è la squadra che gioca il miglior calcio del  Mondiale. Alla squadra del 2008 sono stati aggiunti una mezzala destra che segna tantissimo, Müller, e un uomo di fantasia che gioca semplice, Özil. In questo modo la squadra ha iniziato da dove si era fermata, con meccanismi oliati, riproposti con grande facilità. Paradossalmente ha beccato due squadre molto facili da battere: l’Inghilterra era bolsa fisicamente, l’Argentina non aveva né capo né coda e nessuno passava la palla all’altro, battere la Spagna è sicuramente più difficile.

La Spagna può vincere perché ha la squadra migliore del lotto, l’uomo più in forma del Mondiale, Villa, la difesa più atletica e tecnica di tutte. Del centrocampo c’è poco da dire, Xavi, Iniesta e Busquets tengono su una squadra e dominano il gioco. Sta giocando molto bene anche Capdevila che spinge molto e bene in fascia. Manca totalmente la fascia destra e non c’è un centravanti che sa giocare con Villa centrale, per questo Del Bosque lo mette in fascia. Ma appena Torres esce e Villa si sposta al centro fa gol. Se entra prima Llorente o Fàbregas può essere un bene per la Spagna.

Jvan Sica

BRASILE E ARGENTINA: ANATOMIA DI DUE FALLIMENTI

Una chiave di lettura sull’eliminazione delle due sudamericane favorite per il titolo

Foto: EPA

Un Mondiale pubblicizzato come sudamericano ha perso le due regine ai quarti, con il solo Uruguay a vincere una partita persa. I motivi della disfatta di Brasile e Argentina sono di facile decrittazione. Contro l’Olanda è accaduto quello che sospettavamo: un Brasile senza nessun ricambio valido (tranne Dani Alves) che desse lo spunto decisivo per uscire da un gioco molto lineare è stato messo fuori dall’irruenza di Felipe Melo e dalla costanza dell’Olanda, capace di giocare allo stesso ritmo e con fraseggi molto simili per l’intero incontro (deve stare molto attenta all’Uruguay, capace di difendere forte e cambiare passo meglio del Brasile, anche se mancando Suárez, miglior attaccante del Mondiale insieme a Villa, perde tantissimo). Adesso la squadra deve rifondarsi e vincere in casa. Per questo motivo chi prenderà il posto di Dunga avrà all’inizio i benefici dell’effetto Prandelli (o post-Lippi, Dunga in questo caso), ma poi dovrà sobbarcarsi un lavoro psicologico tremendo. Brasile 2014 deve dare la sesta stella, c’è poco da stare lì a riflettere. Con quale Brasile, ad oggi, si arriverebbe ad un evento così importante? In difesa ci sono dei ricambi validi, primo fra tutti Thiago Silva, anche se Maicon, Lúcio e Juan non nascono ogni quattro anni. Il portiere potrebbe rimanere, anche se il vivaio è prolifico e qualche altro giovanissimo sulle fasce in Brasile nasce sempre. I veri problemi sono centrocampo e attacco.

La volontà di Dunga di giocarsela con chi gli ha fatto vincere Coppa America e Confederations Cup, convocando giocatori inutili (Júlio Baptista, Josué, Gilberto Melo, Grafite) lo ha lippizzato e ha creato lo stesso sconquasso generazionale in cui si trova l’Italia. Una generazione in Brasile è totalmente saltata e dei nati nella prima metà degli anni ’80 c’è il solo Robinho che può arrivare, da grande vecchio, all’appuntamento brasiliano. C’è da puntare quindi sui giovanissimi: qui sorge un altro problema che è invece tipico del paese sudamericano (a differenza dell’Argentina). Una marea di calciatori giovani lasciano prestissimo i loro club di appartenenza, come è sempre successo. Ma invece di arrivare in Italia, Spagna, Germania o Inghilterra, i dollaroni di Russia, Giappone, Grecia e addirittura Ucraina fanno più gola. Della squadra vicecampione mondiale under 20, Dunga non ha convocato nessuno. E, tra quelli che giocavano in quella squadra, Douglas Costa e Alex Texeira sono allo Šachtar Donec’k, Rafael Tolói è vicino ad una delle grandi di Mosca, Renan è allo Xerez in prestito dal Valencia, Diogo all’Olimpiakos, Alan Kardec al Benfica e Souza al Porto. Della squadra titolare della finale contro il Ghana nessun elemento gioca in una grande squadra europea, molti vincitori di quel match (solo ai rigori e in modo immeritato) giocano in squadre di seconda fascia europea, ma almeno sono stati convocati e hanno giocato già il loro primo Mondiale. Con una squadra completamente da rifare, giovani che non hanno nessuna grande esperienza internazionale e senza convocazioni in Nazionale, il Brasile è un cantiere in cui è tutto ancora da decidere.

Per l’Argentina invece, il discorso è molto diverso. Il più grande errore di Maradona è stato credere che Messi fosse lui. Un errore che ha creato le premesse per la figuraccia tattica di ieri. Ieri l’Argentina era una squadra da dopolavoro. Tutti fermi ad aspettare le accelerazioni di Lionel. Come accadeva nel 1986, secondo un calcio di mille anni fa. L’idea di Maradona era fotocopiare il 1986 e riproporlo grazie alla Pulce. Una difesa bloccatissima (Brown, Cuciuffo e Ruggeri erano tre centrali e Olarticoechea non garantiva una grandissima spinta), centrocampo di lotta con un mediano compassato che moderava i ritmi e faceva muovere a cadenza bassissime la squadra (e qui nasce il primo grande problema: Batista nel 1986 poteva giocare al calcio perché bastava fraseggiare a velocità da dopolavoro nella propria metà campo, mentre con il pressing di oggi Verón è improponibile e Maradona sapeva di non poterlo schierare dopo che lo aveva testato nella prima gara con la Nigeria), un attacco con un centravanti goleador e una seconda punta che svariava.

Il nodo e lo snodo è il numero 10. Lì c’era Maradona, che saltava gli uomini e riusciva a non imbottigliarsi mai (anche per la mancanza di pressing). In questo modo apriva spazio per gli altri due attaccanti che trovavano sempre la strada spalancata. Messi invece saltava i primi due e andava ad imbottigliarsi in mezzo a tre avversari che gli negavano tutti gli spazi di passaggio. In questo modo continuava a dribblare, perdendo palla o tirando in porta sbilanciato. Messi non è Maradona perché doveva capire di anticipare il tempo di passaggio, così da coinvolgere gli altri nel gioco e destabilizzare la difesa avversaria. Non è Maradona perché se vicino non gli metti Xavi e Iniesta che portano la palla pulita fino ai 25 metri, Messi non è capace di far muovere la squadra, costretta a stare appresso alle sue briciole. Nel Barcelona può aspettare a sinistra lo svolgimento del gioco e poi accendersi quando la difesa avversaria deve già prendere in carico l’intero fronte del gioco, mentre nell’Argentina, non avendo mediani di costruzione, parte dal centro e va a fare confusione sia a destra che a sinistra, bloccando qualsiasi gioco in fascia. Con un Verón, e non con Cambiasso e Zanetti che non avrebbero portato nessuna variante in questo sistema di gioco, questo gioco si poteva attuare, ma la Brujita era da pensione. Sciocco anche il richiamo a Milito, che sa giocare soprattutto in profondità con una batteria di mezze punte che portavano palla senza darla mai nello spazio. Maradona per me ha fatto il massimo con una squadra facilmente disinnescabile.