MORTE NEL POMERIGGIO

Novanta anni fa, una partita qualunque di football gaelico si macchiava di sangue.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Secondo una leggenda mai provata fino in fondo, quel giorno i militari inglesi si sfregano le mani: non importa quale faccia della moneta verrà restituita dal lancio in aria, gli irlandesi la pagheranno cara, in quella domenica di fine novembre del 1920. Da qualche anno i rapporti tra l’Irlanda e la corona si sono irrigiditi: il Parlamento britannico approva l’Home Rule, riconoscendo così l’autogoverno dell’isola dei celti, mentre in Europa divampa la Prima guerra mondiale. Lo scoppio del conflitto porta al rinvio dell’entrata in vigore dell’atto e contribuisce ad innervosire gli animi: il 1916 è l’anno dell’Easter Rising, la Rivolta di Pasqua, una ribellione armata di sei giorni sedata duramente dagli inglesi. Lo scontro tocca l’apice con le elezioni del 1918, le prime con la nuova riforma elettorale che estende il diritto di voto anche alle donne ultratrentenni: il Sinn Féin, partito nazionalista irlandese, ottiene 73 seggi in Parlamento ma i suoi militanti si rifiutano di sedere sugli scranni di Westminster. Decidono, invece, di costituire un’assemblea irlandese – il Dáil Éireann – ed un proprio governo – l’Aireacht, guidato da Éamon de Valera: entrambi gli organi proclamano l’indipendenza dell’isola. Si apre, così, il conflitto anglo-irlandese, del quale la Bloody Sunday del 21 novembre 1920 costituisce una tappa cruciale.

La lunga domenica di sangue a Dublino inizia con il sorgere del sole: di buon mattino, le squadre dell’IRA (Irish Republican Army) entrano in azione. Il piano è già predisposto: il capo dell’intelligence, nonché ministro delle finanze dell’Aireacht, Michael Collins ordina l’assassinio di alcune spie inglesi presenti in città. In particolare, l’attenzione è rivolta alla Cairo Gang, un gruppo di diciotto alti ufficiali britannici che hanno prestato servizio per Sua Maestà in Egitto e Palestina e che vorrebbero infiltrarsi nell’organizzazione di Collins: nessun dubbio, sono loro il bersaglio da colpire. Con la complicità di alcune domestiche e grazie alle soffiate di un poliziotto della RIC (Royal Irish Constabulary), gli uomini di Collins riescono a scovare il domicilio di numerosi agenti britannici: la maggior parte di essi è localizzata in un sobborgo meridionale di Dublino. All’alba iniziano le operazioni, che portano all’omicidio di quattordici persone, tra cui due appartenenti alla Divisione Ausiliaria, quattro ufficiali dell’intelligence britannica ed altrettanti agenti dei servizi segreti: sono meno della metà dei trentacinque nomi finiti sulla lista nera, ma la notizia scuote l’intelligence britannica presente in Irlanda. E la vendetta non tarda ad arrivare.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Le truppe inglesi stanno predisponendo il contrattacco. Due le alternative: o si mette a ferro e fuoco Sackville Street, oppure si fa irruzione a Croke Park, cattedrale del football gaelico. Testa o croce. Croce. In tutti i sensi. Nonostante il clima di tensione, cinquemila – anzi, diecimila secondo altre fonti – persone si dirigono allo stadio: i locali del Dublino affrontano la squadra di Tipperary (nella foto a sinistra, il biglietto della partita). Iniziato alle 15.15, con mezzora di ritardo, l’incontro viene interrotto dopo dieci minuti: è in quell’istante che i Black and Tans, un gruppo paramilitare britannico, forzano i tornelli dell’entrata da Canal End e irrompono sul campo di gioco, spalleggiati all’esterno da truppe della RIC e della Divisione Ausiliaria. I militari aprono il fuoco sulla folla, sparando per novanta, interminabili secondi. Gli spettatori, in preda al panico, fuggono terrorizzati: alcuni di loro provano a mettersi in salvo scavalcando il muro della tribuna Canal End, altri si dirigono verso l’altra estremità dello stadio, gli ingressi su Clonliffe Road. Ad attenderli c’è un altro cordone di militari, supportato da un’autoblindo che lascia partire altri proiettili sopra le teste della folla impaurita. Per un macabro scherzo del destino, Londra restituisce il colpo a Dublino: quattordici le vittime del mattino, quattordici le vittime del pomeriggio. Al Croke Park sono sette le persone crivellate, mentre cinque vengono ferite mortalmente e, infine, altre due muoiono calpestate dalla folla in fuga: la morte si porta via due bambini di appena 10 e 11 anni e Jeannie Boyle, una ragazza che si era recata alla partita in compagnia del fidanzato che, cinque giorni dopo, l’avrebbe dovuta portare all’altare. Anche lo sport piange: rimangono a terra Jim Hegan del Dublino, che riesce tuttavia a sopravvivere, e Michael Hogan, capitano del Tipperary, che invece non viene risparmiato dai proiettili. Ed è proprio a lui che, qualche anno dopo, verrà intitolata una delle tribune del Croke Park. Ma gli irlandesi non hanno ancora finito di versare sangue: due alti ufficiali dell’IRA, Dick McKee e Peadar Clancy, assieme all’amico Conor Clune vengono portati al Castello di Dublino, quartier generale inglese sull’isola. Qui subiscono torture e muiono in circostanze misteriose. Il numero delle vittime sale, così, a trentuno. L’Irlanda paga con il sangue di alcuni suoi figli la sollevazione nei confronti dell’Inghilterra, ma la tragica vicenda segna le menti dell’opinione pubblica: la credibilità del Regno Unito sullo scenario politico internazionale ne esce a pezzi, il sostegno al governo repubblicano di de Valera si fa sempre più forte.

L’escalation di violenza prosegue per oltre un anno, fino all’11 luglio 1921, quando viene firmata la tregua e lo Stato Libero d’Irlanda viene riconosciuto da Londra come dominion, una comunità cioè associata all’impero britannico ma con poteri autonomi ed un proprio Parlamento. Nel frattempo la GAA, l’associazione che promuove e coordina gli sport gaelici, vieta agli appartenenti alle truppe britanniche o alle forze dell’ordine nordirlandesi di assistere a eventi sportivi organizzati dalla GAA stessa. Al contempo, fa sì che gli sport “stranieri” e, nella fattispecie, britannici – ad esempio calcio e rugby – non possano essere giocati negli impianti della GAA come il Croke Park. Le conseguenze più importanti, però, si hanno in ambito giudiziario: due corti militari aprono immediatamente l’inchiesta sui fatti del 21 novembre e, in poco più di due settimane, emettono un verdetto. Il governo britannico, però, fa sparire le carte processuali, rimaste nascoste per oltre ottanta anni: una volta rinvenute – dieci anni fa – è stato possibile venire a conoscenza della sentenza. E cioè che il fuoco aperto sulla folla dagli inglesi era da considerarsi un gesto indiscriminato ed ingiustificabile e, soprattutto, veicolato senza alcun ordine superiore. Resta, ancor oggi, qualche dubbio su chi abbia effettivamente iniziato gli spari a Croke Park tra gli uomini dell’IRA e le truppe al servizio della Gran Bretagna (qui trovate tutte le ricostruzioni e numerose testimonianze). Ma sul sangue che scorreva a fiotti in quella maledetta domenica, no, non v’è dubbio alcuno.

AMERICA SOTTO SMACCO

Esattamente cinque anni il Maccabi Tel Aviv divenne la prima squadra europea di basket a sconfiggere una formazione NBA sul suolo americano.

No, gli Stati Uniti proprio non volevano saperne di ammettere di essere stati sconfitti dai “pivellini” europei. 8 settembre 1978: a Tel Aviv il Maccabi disputa un’amichevole contro i Washington Bullets, vincitori del loro primo – e, finora, unico – titolo NBA. Dick Motta, artefice del miracolo, porta in Israele appena nove giocatori, comprese le stelle Elvin Hayes e Wes Unseld. Ma i campioni americani sono fuori forma e con la testa ancora in vacanza: il raduno inizierà solamente tra un mese. I mediorientali intuiscono che può essere il momento propizio per scrivere una pagina di storia. E così è: Miki Berkovich, indiscusso trascinatore del Maccabi e della nazionale, segna da solo 26 punti. E contribuisce ad una clamorosa vittoria per 98-97. L’Europa batte l’America. O, data la nazionalità del Maccabi, David affossa Golia. Ma l’America non riconosce l’impresa compiuta dagli israeliani, che negli anni immediatamente successivi ottengono altri tre successi contro una selezione NBA, i New Jersey Nets ed i Phoenix Suns. Le amichevoli, però, si sono giocate nel mese di agosto: per il massimo organo cestistico d’oltreoceano le vittorie sono dunque da invalidare. Un boicottaggio che prosegue sino al 1987, anno di istituzione del McDonald’s Open, triangolare prima e quadrangolare poi che manda in pensione la Coppa Intercontinentale. Qui le squadre NBA, forse per la compartecipazione della Federbasket mondiale alla creazione dell’evento, non accettano semplicemente di confrontarsi ancora con avversari del Vecchio Continente: da questo momento, infatti, i confronti tra Europa e America acquisiscono il valore dell’ufficialità. Nello stesso anno la nazionale dell’URSS sconfigge, in amichevole, gli Atlanta Hawks con un pazzesco 132-123. Che facciamo, la riconosciamo? “No, non ancora. Il confronto è impari, è una nazionale opposta ad una franchigia NBA” bofonchiano dall’altra estremità dell’Atlantico. Le prime europee a sfiorare, questa volta sì, l’impresa sono le italiane: la Tracer Milano dà il via ai confronti ufficiali sull’asse America-Europa e la Scavolini Pesaro si arrende soltanto ai supplementari ai Knicks nel corso della quarta edizione del Mc Donald’s Open. Passano quattordici anni e la Benetton Treviso rischia un colpo ancor più grosso, perdendo 86-83 all’Air Canada Centre di Toronto contro i Raptors. La lacuna sembra ormai colmata.

17 ottobre 2005. Stesso scenario, stesso avversario. L’Europa lancia ancora il guanto di sfida ai Raptors e nella circostanza si affida alla vincitrice dell’Eurolega, il Maccabi Tel Aviv, seguito sugli spalti dell’arena canadese dalla numerosa comunità ebrea. Per quanto sia un’amichevole, il coach americano Sam Mitchell non vuol passare per il buon samaritano e fin da subito schiera Chris Bosh, Morris Peterson e Jalen Rose, i giocatori più talentuosi della sua squadra. Pini Gershon replica con un dispiegamento di forze tutt’altro che inferiore: Nikola Vujčić, Anthony Parker e l’ex di turno Maceo Baston sono della partita già dal primo minuto.
La trama dell’amichevole è paragonabile a quei libri gialli in cui nelle pagine iniziali si deduce già il nome dell’assassino, perché i Raptors mantengono sempre la situazione a proprio vantaggio e chiudono il primo quarto avanti per 24-20. Il Maccabi non abbassa la guardia e, anzi, durante il successivo parziale pareggia temporaneamente con una schiacchiata di Anthony Parker. I canadesi riordinano presto le loro idee: nella seconda metà del quarto segnano diciassette punti, concedendone appena sette, e arrivano così all’intervallo lungo con dieci lunghezze di vantaggio (56-46).

In America, esattamente in occasione del titolo NBA di Washington di ventisette anni prima, fu coniata una massima divenuta assai presto di uso comune: “L’opera non è finita fino a quando canta la donna grassa”. Mai darsi per spacciati nello sport, almeno fino a quando il direttore di gara non fischia la fine della contesa. Il Maccabi, sospinto dal calore degli ebrei canadesi, prova a giocarsi le sue carte vincenti anche quando si trova a dover saldare un debito da quattordici punti. Due tiri liberi di Baston avvicinano nuovamente gli israeliani che hanno il merito di decurtare di sei punti lo scarto: l’impresa non appare più così impossibile da portare a compimento. E, quando il tabellone dell’Air Canada Centre ricorda che ci sono meno di tre minuti da giocare, il Maccabi passa per la prima volta in vantaggio (95-93), spinto da una tripla di Will Solomon. Una prodezza preceduta dalla monumentale difesa di Yaniv Green, vigile custode del canestro israeliano che stoppa un tiro in sospensione di Mike James e, soprattutto, rende nullo il tentativo di lay-up di Rose. Le certezze dei canadesi si sono sgretolate, oramai si lotta punto su punto.

Diciannove secondi alla conclusione. James ha appena messo dentro il canestro del 103-103. Il Maccabi gestisce l’ultima azione dell’incontro. Gli israeliani puntano tutto su Anthony Parker, miglior giocatore dell’Eurolega vinta dai gialloblù di Tel Aviv. Lui è nato a Naperville, Illinois, ha giocato a Philadelphia e Orlando, il basket americano non è certo un mistero per lui. E la guardia del Maccabi si mette in testa di diventare un eroe. Otto decimi alla conclusione: Parker, tutto isolato in un angolo, mira il tabellone e spicca il volo, Peterson prova ad oscurargli la visuale ma invano. Il pallone si accoccola tra le maglie della retina. Canestro. 105-103. Il Maccabi riscrive la storia del basket: mai una formazione europea aveva sconfitto una franchigia NBA sul suolo americano. Gli Stati Uniti erano usciti malconci dai Mondiali di Indianapolis e dai Giochi olimpici di Atene, ma con le squadre di club avevano sempre salvato l’onore. Adesso no, non più. Inutili i puerili tentativi della NBA di occultare, sul proprio sito web, anche questa sconfitta, stavolta sì ufficiale: l’ultimo baluardo è stato abbattuto.

Simone Pierotti

LO SPRINGBOK LONTANO DAL CUORE DEL SUDAFRICA

In Sudafrica i simboli sono importanti e l’antilope che simboleggia e rappresenta la nazionale sudafricana è tornata nuovamente nell’occhio del ciclone. Via dal petto dei giocatori ed emarginata sulla manica sinistra per tutto l’arco della Coppa del Mondo 2011.

Dimenticatevi Invictus, o meglio, provate a chiedervi cosa è successo dopo i titoli di coda. Il rugby ha continuato ad essere il bastione e il simbolo dell’orgoglio afrikaner. Terminata l’euforia del 1995 il rugby perse l’occasione per rifondarsi e rimase ancora per tre anni in mano a quel Louis Luyt, il quale al termine della suddetta finale aveva dichiarato che, se fosse stata concessa loro la partecipazione, gli Springboks avrebbero vinto anche le due precedenti edizioni. Il pallone ovale e gli Springboks sono rimasti e per certi versi rimangono ancora uno degli ultimi bastioni dell’ultranazionalismo afrikaner.

Il periodo più buio del rugby sudafricano fu raggiunto nei primi anni del nuovo millennio quando, oltre alle prestazioni sportive negative, la nazionale si guadagnò le prime pagine dei giornali per una rissa fra l’avanti afrikaner Geo Cronjé e la seconda linea coloured Quinton Davids. Pare accertato che il primo si fosse rifiutato di fare la doccia con il secondo. Entrambi furono squalificati. Pochi mesi dopo una deludente Coppa del Mondo, si toccò il fondo quando emersero le foto del disumano ritiro tenutosi a Kamp Staaldraad.

Allo stesso tempo molti politici dell’African National Congress non hanno mai rinunciato a cercare di minare questo fortino afrikaner, imponendo quote ed erodendo man mano il potere dalle mani del vecchio establishment bianco. L’allenatore Jake White, promosso dopo lo scandalo di Kamp Staaldraad, denunciò spesso le pressioni politiche che pretendevano un numero maggiore di giocatori di colore nel quindici iniziale.

Se il simbolismo nello sport è importante, in Sudafrica pare essere fondamentale. Nelson Mandela, semplicemente indossando la divisa di gioco e un cappellino degli Springboks, era riuscito con una mossa politica geniale a dimostrare che il paese per restare unito doveva includere anche determinati aspetti culturali degli oppressori di ieri. Il gioco è stato riproposto da Thabo Mbeki in occasione del successo del 2007, in cui anche un ormai anziano Mandela è stato rivestito della maglia verde-oro che per l’occasione aveva stampato sulla manica il numero di prigionia del leader politico sudafricano (466664). La luna di miele del Sudafrica con i leader dell’ANC era però ormai finita.

Lo Springbok, la celebre antilope che dal 1906 rappresenta la nazionale di rugby sudafricana e che fino al 1995 era stato uno dei simboli più divisivi del paese, ha provato a riproporsi tanto nel 1995 quanto nel 2007 come simbolo unificatore ma, malgrado la forza della retorica, non è mai riuscita a convincere i sudafricani che continuano a vedere in essa un simbolo della segregazione razziale. Già nel 1992 con la fine dell’apartheid, per marcare un cambiamento, fu aggiunta all’antilope una corona di protea, fiore che simboleggia l’intero movimento sportivo sudafricano, dal cricket all’atletica. Nel 2008 le pressioni dei falchi dell’ANC hanno fatto sì che la federazione di rugby spodestasse lo Springbok dal cuore dei giocatori, riposizionandolo sul lato destro della maglia. Dal 2009 infatti, in occasione della tournée dei British and Irish Lions, i ‘boks’ hanno giocato con le nuove maglie in cui all’altezza del cuore, al posto della gazzella, si stagliava uno stemma raffigurante la protea.

Al Mondiale neozelandese però, le regole commerciali e la rigidità dell’IRB renderanno possibile la sparizione dell’antilope dal petto dei giocatori. Secondo regolamento infatti c’è posto solamente per tre stemmi sul fronte della maglia: il logo della competizione, lo sponsor tecnico e il logo della nazionale (la protea). Dopo numerose polemiche, l’antilope ha dovuto quindi migrare tristemente, sulla manica sinistra dei giocatori. Che si tratti di un arrivederci e non di un addio (tutto tornerà infatti come nel biennio 2009-10 a fine Mondiale) lo si capisce anche dando una rapida occhiata al sito della federazione di rugby in cui il simbolo e la parola Springboks capeggiano un po’ ovunque. Sorge comunque spontanea una domanda: chissà cosa ne pensa Nelson Mandela, l’uomo che nel 1995 e nuovamente nel 2007 indossò i simboli del vecchio nemico per dare loro un nuovo significato di inclusione e d’integrazione?

Nicola Sbetti

CALCIO E NAZIONALISMO: LO STELLA ROSSA VA ALLA GUERRA

Dopo i disordini che hanno portato al rinvio di Italia – Serbia al Marassi di Genova, vi riproponiamo l’articolo comparso sul Numero 0 sul nazionalismo dello Stella Rossa.

La dedica di una statua che sorge dinanzi allo Stadio Maksimir di Zagabria, rappresentante un gruppo di soldati, recita: “Ai tifosi della Dinamo Zagabria, che iniziarono la guerra con la Serbia su questo campo il 13 maggio 1990”. La partita che prese luogo nella capitale croata tra i padroni di casa della Dinamo e i Serbi dello Stella Rossa di Belgrado fu l’avvisaglia di quanto sarebbe successo un anno dopo, l’inevitabile crollo della Federazione Jugoslava, termine di una frana innescatasi all’indomani della morte del maresciallo Tito nel maggio 1980. L’ex-partigiano croato era stato il collante di una nazione nata dall’unione di popoli che, fino alla Seconda Guerra Mondiale, si erano massacrati a vicenda. Nelle parole del comunista albanese Mahmet Bekalli: “Non avevamo idea che, insieme a lui, stavamo seppellendo la Jugoslavia”. La spaccatura fu evidente soprattutto tra Croazia e Serbia, dove due burocrati dell’epoca del comunismo titoista presero il potere dopo aver dato una netta svolta nazionalista alla propria politica: Franjo Tuđman e Slobodan Milošević. Tuđman, presidente della squadra filo-jugoslava del Partizan Belgrado ai tempi di Tito, per la sua Hrvatska Demokratska Zajednica (Unione Democratica Croata) prese in prestito l’iconografia degli ustaše, i fascisti croati che nella Seconda Guerra Mondiale collaborarono con i nazisti, massacrando i Serbi. Oltre a prendere in prestito la šahovnica, la bandiera a scacchi rossi e bianchi degli ustaše, cominciò a farsi chiamare poglavnik, duce, in un chiaro riferimento al loro sanguinario leader Ante Pavelić. Tuđman veicolò il proprio nazionalismo anche attraverso il calcio quando divenne presidente della Dinamo Zagabria, che poi avrebbe ribattezzato Croatia Zagreb, alienando gran parte del seguito della squadra.

Nel giugno 1989 Slobodan Milošević, appena divenuto presidente della Serbia, tenne un discorso che avrebbe cambiato la storia a Kosovo Polje, la “piana dei Merli” a nord della capitale kosovara Priština, teatro di una storica battaglia tra la Serbia e l’Impero Ottomano avvenuta seicento anni prima. Milošević denunciò “il genocidio strisciante di cui sono vittime i Serbi nel Kosovo, culla della loro cultura” e affermò, in quella che fu la sua frase di maggior successo, che “nessuno deve permettersi di picchiare il nostro popolo”. Cavalcando l’onda del nazionalismo, il presidente serbo si rendeva conto di quanto questa potesse ritorcersi contro di lui, e fece in modo di avere un controllo forte su quello che era considerato il calderone più esplosivo: la tifoseria dello Stella Rossa di Belgrado, squadra politicizzata, anti-titoista e fortemente nazionalista, i cui ultrà si stavano distinguendo per la violenza delle proprie azioni. L’uomo che prese il controllo dei tifosi dello Stella Rossa, unendo tutti i gruppi rivali in una sola unità disciplinata e determinata, fu Željko Ražnatović, gangster di stampo mafioso e maestro dell’evasione, richiamato in Serbia dal governo per fare il “lavoro sporco”, come ad esempio eliminare fisicamente i dissidenti che erano fuggiti all’estero. L’uomo che, qualche anno più tardi, sarebbe salito all’onore delle cronache internazionali come l’efferato criminale di guerra Arkan. Arkan vietò agli hooligans dello Stella Rossa l’alcool e bandì piccole violenze e vandalismi. In cambio li addestrò e cambiò il loro nome da “zingari” a Delije, “eroi”, rendendoli una vera e propria formazione paramilitare, capace di creare seri disordini nelle partite contro il Partizan e la Dinamo Zagabria.

Il momento in cui le tensioni nazionalistiche eruppero sul campo fu proprio il fatale 13 maggio 1990, al Maksimir di Zagabria, una settimana dopo la celebrazione del decennale della morte di Tito: i Bad Blue Boys della Dinamo e i Delije si fronteggiarono in una battaglia i cui connotati e la cui organizzazione fanno pensare più a una guerriglia premeditata da entrambe le fazioni che a uno scontro tra tifosi. Per proteggere un giovane tifoso dalle manganellate della Milicija, la Polizia Federale Jugoslavia, il capitano dei croati Zvonimir Boban sferrò un calcio a un poliziotto, diventando istantaneamente un eroe nazionale. Il bilancio degli scontri fu di 138 feriti e 147 arresti. Boban rischiò un fermo da parte della polizia e perse l’occasione di essere convocato con la Jugoslavia a disputare il Mondiale di Italia ’90. Gli scontri tra i Delije e i Bad Blue Boys furono solo un preludio di quanto sarebbe avvenuto durante la primavera dell’anno seguente: quando il 29 maggio 1991 lo Stella Rossa vinse la Coppa dei Campioni, battendo ai rigori l’Olympique Marsiglia, Slovenia e Croazia avevano già dichiarato la propria indipendenza, portando la Jugoslavia alla guerra civile che l’avrebbe distrutta. Solo alcuni mesi dopo i Delije si arruolarono in massa nell’unità paramilitare comandata da Arkan, la Srpska Dobrovolijačka Garda (Guardia Volontaria Serba), più nota con il nome di Tigrovi, tigri. Le Tigri di Arkan presero parte alle guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo e divennero tristemente famose per gli efferati crimini di guerra commessi. Anche dall’altra parte avvenne un fenomeno simile, con gran parte dei Bad Blue Boys partiti per il fronte della guerra serbo-croata, spesso indossando il simbolo della Dinamo sulle proprie uniformi. Dal Maksimir di Zagabria e dal Marakana di Belgrado i combattimenti si erano riversati su tutta la Federazione Jugoslava.

Quando i croati ripresero il controllo di Vukovar, assediata per 87 giorni dalla Jugoslavenska Narodna Armija, l’Armata Popolare Jugoslava, la rappresaglia colpì la popolazione serba della città, tra cui la famiglia di Siniša Mihajlović, centrocampista dello Stella Rossa, poi a Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Nella sua casa, distrutta, oltre a un poster della nazionale jugoslava con un foro di proiettile sul cuore di Mihajlovic, furono ritrovate sue foto cui i soldati croati avevano ritagliato gli occhi: un rimando alle crudeltà di Ante Pavelić, che chiedeva ogni mattina ai suoi ustaše di consegnargli un cesto pieno di occhi a riprova che i massacri continuavano allo stesso ritmo.

Il regno mafioso di Arkan in Serbia prosperò durante il conflitto, e Ražnatović cercò di acquistare lo Stella Rossa, per farne un monumento alla sua persona. La dirigenza rifiutò di cedere, al che la Tigre, dopo un rifiuto dai kosovari dell’FK Priština, acquistò l’Obilić di Belgrado, squadra che porta il nome di un eroe serbo della battaglia di Kosovo Polje. A suon di intimidazioni a giocatori e dirigenti avversari, l’Obilić venne promosso in prima divisione nel 1997 e l’anno dopo fu campione di Jugoslavia (ormai composta solo da Serbia e Montenegro) nel 1998. Il 18 agosto 1999 le nazionali di Jugoslavia e Croazia si incontrarono per la prima volta a Belgrado in un incontro, finito 0-0, valido per le qualificazioni all’Europeo. Il tifo di Belgrado salutò l’inno croato Lijepa Naša Domovino con l’ostensione di cinquantamila diti medi alzati, e la curva insultò i giocatori della nazionale avversaria, chiamandoli ustaše nei propri cori. L’ostilità dell’atmosfera raggiunse il culmine quando, al quinto del secondo tempo, le luci dello stadio si spensero. “Si vedevano solo i raggi infrarossi dei fucili dei cecchini”, ricordò Slaven Bilić, nazionale croato presente allo stadio nonostante un infortunio. Il Marakana eruppe in un “Criminali rossi! Criminali rossi!” rivolto a Milošević e al suo regime, che iniziava a scricchiolare dopo la guerra in Kosovo. Mentre la leggenda di Arkan, assassinato cinque mesi più tardi da un commando di fronte all’Intercontinental Hotel di Belgrado, sopravvisse alla Tigre, la popolarità del presidente serbo era crollata. Proprio il Marakana, lo stadio dove Milošević aveva arruolato tramite Arkan una parte importante del suo esercito, segnò la fine della sua dittatura: la curva gli si ritorse contro e cominciò a intonare alle partite gli slogan Slobo odlazi, “Slobodan vattene”, e Slobo spasi Srbiju i ubi se, “Slobodan, salva la Serbia e ammazzati”. Dopo esser stato sconfitto alle elezioni da Vojislav Koštunica, Milošević si rifiutò di riconoscere il risultato delle urne. Il 5 ottobre 2000 a Belgrado, nelle dimostrazioni della Bager Revolucija, la “Rivoluzione dei Bulldozer” che fece infine crollare il regime, in prima linea nei combattimenti c’erano di nuovo le maglie dello Stella Rossa.

Damiano Benzoni

LIVERPOOL FC: NUOVO PADRONE, DEBITI VECCHI

I Reds, sommersi dai debiti, stanno per cambiare proprietario. Ma la situazione resta critica.

Il Liverpool sta per cambiare proprietario, ma dovrebbe continuare a restare in mani statunitensi. Dal duo composto dal settantaduenne magnate dell’imprenditoria sportiva, George Gillett, e dal suo socio, il sessantaquattrenne Tom Hicks, il fondatore della quasi omonima finanziaria Hicks, Muse, Tate & Furst, la gloriosa squadra inglese dovrebbe passare alla NESV, New England Sports Venture, che già controlla la Boston Red Socks, una delle squadre di baseball più titolate d’America.

Il condizionale è ancora indispensabile, e continuerà ad esserlo almeno fino alla fine della prossima settimana, poiché i due attuali proprietari hanno impugnato la decisione di vendita da parte del consiglio di amministrazione in carica, presieduto da Martin Broughton, il prestigioso manager inglese, attualmente anche alla guida di British Airways.

Il Liverpool era stato acquisito dai due soci statunitensi, Gillett e Hicks, nel febbraio 2007, al termine di una trattativa lampo con il passato presidente, David Moores. La loro offerta di 219 milioni di sterline aveva battuto sul filo di lana i concorrenti della DIC, Dubai International Capital, la società finanziaria della famiglia reale degli Emirati Arabi.

Inizialmente la coppia d’affari aveva suscitato qualche timida speranza tra i tifosi dei Reds, soprattutto per la comprovata esperienza di Gillett in materia sportiva. Quest’ultimo aveva trascinato a ottimi risultati la squadra canadese di hockey su ghiaccio dei Montreal Canadians, ed era stato uno dei soci di maggioranza degli Harlem Globetrotters tra gli anni sessanta e settanta. Ma anche Hicks aveva potuto sbandierare un buon curriculum nel settore, vantando partecipazioni nell’altra formazione di hockey dei Dallas Stars e in quella di baseball dei Texas Rangers, dove era anche in società con George W. Bush, allora semplice, si fa per dire, uomo d’affari. Qualche non immotivato timore lo suscitavano invece alcuni precedenti di Gillett, che nel 1992 aveva trascinato il proprio gruppo finanziario alla bancarotta.

Durante la loro amministrazione, i timori avevano avuto ragione delle speranze; e come scritto oggi da Leonardo Maisano sul Sole 24 Ore, il colore rosso del Liverpool era passato dalle maglie ai bilanci, tanto che l’esposizione debitoria era precipitata fino alla cifra spaventosa di 351 milioni di sterline. La spiegazione di un simile passivo era dovuta, oltre che ad una serie di campagne acquisti a dir poco dissennate, alla necessità di dotarsi di un nuovo stadio in sostituzione del glorioso, ma ormai angusto Anfield Road. I finanziamenti per questo nuovo impianto, da costruirsi nell’area di Stanley Park, e i cui lavori avrebbero dovuto iniziare nell’autunno del 2008, erano stati concessi da Royal Bank of Scotland e da Wachovia, la finanziaria della statunitense Wells Fargo Bank, per 280 milioni di sterline.

Quando poi Gilletts e Hicks, incalzati dalle due banche, hanno dovuto prendere atto dell’impossibilità di fare fronte ai debiti, nell’aprile di quest’anno si sono messi a cercare un nuovo compratore, incaricando proprio il manager Martin Broughton, al quale hanno dato mandato pieno per portare a termine l’affare.

Si è così manifestata una serie convulsa di voci di offerte e conseguenti smentite, tra cui la parentesi di un velleitario tentativo di scalata da parte dei tifosi del Liverpool, con l’ambizione di raccogliere centomila soci sostenitori, disponibili a versare una quota di 5mila sterline a testa. Questa iniziativa aveva anche ricevuto l’appoggio del ministero della cultura del governo Brown, tramite il Supporters Direct, un ente britannico di diritto pubblico, nato nel 2000 al fine di incentivare l’azionariato popolare nelle squadre sportive, ma era abortita in capo a pochi giorni.

Dal canto suo, Broughton si è messo immediatamente all’opera, e ha vagliato, per poi cestinare, diverse offerte da altrettanto diversi potenziali acquirenti, provenienti soprattutto da paesi dell’Asia e del Medio Oriente, tra cui Hong-Kong, Siria, India e Kuwait. Ma solo ieri ha annunciato l’offerta decisiva: quella degli statunitensi di NESV, che hanno messo sul piatto 300 milioni di sterline.

Secondo i conteggi di Gillett e Hicks, l’offerta non è all’altezza del valore reale del Liverpool FC, e i due hanno tentato, rintuzzati però da Broughton, di sostituire due membri del consiglio di amministrazione con altrettanti uomini di loro assoluta fiducia: ovvero con uno dei figli di Hicks ed uno dei suoi dipendenti.

Sulla carta la mossa della NESV dovrebbe essere coronata da successo, dal momento che, oltre all’appoggio degli amministratori in carica, gode soprattutto di quello dei due principali creditori: Royal Bank of Scotland e Wachovia.

Per Gillett e Hicks non ci sono invece grandi speranze, anche se hanno impugnato quest’offerta. La sentenza su questo ricorso sarà emanata entro la metà di ottobre, quando anche il credito dei due colossi bancari andrà in scadenza. E se l’acquisto dovesse essere annullato, il Liverpool finirebbe in mano alle banche. Ma in questo caso e facendo i debiti scongiuri, il previdente Broughton ha annunciato che farebbe scendere in campo un ancora sconosciuto piano B. Sempre che non si tratti solo di un bluff.

Giuseppe Ottomano