COMMESSO, UNA VITA ALL’ATTACCO

La testa piegata sul manubrio, le mani sul volto per coprire le lacrime di rabbia e delusione. E’ questa l’immagine di Totò Commesso rimasta nella mente di molti appassionati: un corridore umano, non una macchina come certi suoi colleghi, che, dopo essersi visto soffiare una vittoria attesa da 4 anni, sfoga tutta la sua frustrazione. Tour de France 2006, quattordicesima tappa, traguardo di Gap: sotto un sole che spacca le pietre, si presenta sul rettilineo finale il napoletano in compagnia del francese Pierrick Fédrigo, al termine di una fuga lunga e combattuta, col gruppo trainato dalla Liquigas che cerca di rientrare fino all’ultimo metro. Totò è favorito, parte ai -150 metri, ma ha un rapporto troppo duro, e il suo compagno d’avventura lo passa, lo beffa, lo scaraventa nella disperazione. Uno dei momenti più duri nella carriera di questo bravo corridore, una vita sempre in fuga, sempre all’attacco, sempre pronto a sorprendere.

Nato a Torre del Greco, cittadina della provincia napoletana, il 28 marzo 1975, Salvatore Commesso detto Totò non segue la strada abituale dei giovani di quelle parti, una strada a forma di pallone da calcio: gli piace andare in bici, gli piace pedalare, e allora inizia a correre con la squadra degli zii paterni, il GS Macelleria Fratelli Commesso, nella categoria Esordienti, appena undicenne. Ma nel nostro Meridione il ciclismo non è così sviluppato e seguito come in Toscana, in Veneto e in Lombardia: le corse sono poche, e le trasferte da sobbarcarsi per mettere a frutto questa grande passione sono enormi e dispendiose. Per chi vuole fare il corridore professionista, l’unica via percorribile è emigrare al Nord, lasciandosi tutto alle spalle, inseguendo il proprio sogno. Totò non si tira indietro: d’estate va sempre a Cesana Brianza, nel lecchese, dove abitano alcuni parenti, e nel 1989 trasferisce definitivamente la sua residenza a Pusiano, sempre da quelle parti, tesserandosi per l’Unione Ciclistica Costamasnaga, in una realtà così diversa dalla sua Campania. In tre stagioni con la squadra brianzola conquista 25 successi, dando prova non solo di ottime doti da corridore, ma anche di un carattere allegro ed altruista che lo fanno stimare da tutti: con queste vittorie, e un buon numero di piazzamenti, si rende conto che il sogno di diventare professionista non è così irrealizzabile. Continua la trafila delle categorie giovanili, con società comasche e bergamasche: ai mondiali Under 23 del 1996, a Lugano, una sua lunga fuga spiana la strada alla tripletta azzurra, guidata dal suo corregionale Giuliano Figueras; nello stesso anno è campione regionale di categoria e la stagione successiva vince il titolo europeo e i Giochi del Mediterraneo.

Finalmente, nel 1998, dopo un percorso caratterizzato da sudore e sacrifici, Totò Commesso passa tra i professionisti, nella rossa Saeco di Re Leone Cipollini. Quello stesso anno vince una tappa al Giro del Capo, in Sudafrica, e coglie una serie di buoni piazzamenti, tra cui spiccano il terzo posto al Campionato di Zurigo e il quarto ad Amburgo in prove di Coppa del Mondo: questi risultati sono la conferma di come sia uno dei giovani più interessanti del panorama ciclistico italiano, dotato di una buona velocità negli sprint e soprattutto di una propensione all’attacco fuori dal comune. Il 1999, seconda stagione tra i pro, è forse la più bella per Commesso: il 28 giugno ad Arona si disputa il Campionato Nazionale e, dopo una corsa combattutissima, sul traguardo con vista sul Verbano si presentano in quattro, tre dei quali (Commesso, Petito e Celestino) in maglia Saeco. Proprio Celestino si sacrifica lanciando lo sprint ai compagni, e in volata Commesso sorprende tutti precedendo Petito, che non la prende propriamente bene perché quel giorno la squadra aveva lavorato per lui, e rimane stupito dall’esuberanza e da questa “mancanza di rispetto” dello scugnizzo napoletano. Comunque sia, Totò onora al meglio la maglia tricolore conquistata in queste condizioni un po’ particolari: al Tour de France dello stesso anno, nella tappa di Albi, il campione nazionale corona una fuga di ben 232 chilometri, precedendo in uno sprint senza storia l’altro azzurro Serpellini, e diventando così il primo napoletano di sempre ad imporsi in una frazione della Grande Boucle. In quell’anno, ad onor del vero, si macchia anche di una vicenda non propriamente onorevole, visto che alla Vuelta di Spagna reagisce agli insulti di uno spettatore con un cazzotto in diretta televisiva.

Tour de France e Tricolore, sono queste le corse della vita per il bravo Totò. Nel 2000, sempre in maglia Saeco, sempre alla corsa francese, stavolta sul traguardo tedesco di Friburgo, realizza un altro capolavoro: 242 chilometri di fuga, prima in compagnia e poi in coppia con il solo Vinokourov, puntualmente sconfitto nello sprint finale da questo napoletano piccolino (165 cm di statura) ma con due gambe che girano a meraviglia.

Nel 2002 invece, sulle strade trevigiane, dopo un paio di stagioni buie, segnate da soli due successi in Portogallo, la sua stella torna a splendere, vincendo il secondo campionato nazionale della sua vita, davanti a Dario Frigo e Francesco Casagrande. Quella stessa estate si aggiudica il Trofeo Matteotti e il Criterium d’Abruzzo, importanti classiche di metà stagione. Da lì in poi inizia una sorta di maledizione per questo corridore tanto amato dal pubblico: sempre all’attacco e sempre in fuga, non riuscirà più a trovare quella brillantezza e quella lucidità necessaria per vincere. Non si contano i suoi piazzamenti tra i primi cinque, tanto nelle frazioni di Giro e Tour quanto in svariate corse in linea: per sei, interminabili anni Commesso, che veste anche le maglie di Lampre e Tinkoff, insegue il successo senza ottenerlo, con punte di assoluto rammarico come quella descritta in apertura.

L’incantesimo si spezza in una tappa del Giro del Lussemburgo 2008 quando, con la divisa della piccola Preti Mangimi, può finalmente scatenare tutta la sua incontenibile gioia, tornando ad alzare le braccia al cielo dopo questa lunga e dolorosa astinenza. E’ l’ultimo squillo in carriera per questo simbolo della Campania ciclistica, che chiude la sua avventura da professionista accasandosi per due stagioni alla Meridiana-Kalev, la prima squadra della storia con base nel nostro Meridione. Un atleta particolare, sempre all’attacco senza paura e spesso senza calcoli, capace in questo modo di guadagnarsi gli apprezzamenti degli addetti ai lavori e del grande pubblico, come solo i veri campioni sanno fare.

CITY: DOVE NON E’ IL MODULO A FARE LA DIFFERENZA

Nel corso di questa stagione ho avuto modo di seguire in più occasioni il City di Mancini. L’ultimo loro match che ho potuto vedere risale proprio a domenica quando i Citizens hanno fatto visita al Chelsea di Carlo Ancelotti per un derby della panchina tutto italiano vinto, piuttosto nettamente, dall’ex allenatore di Parma, Juventus e Milan.

La motivazione per la quale tra tante squadre ho scelto di seguire con discreta costanza proprio quella presieduta dallo sceicco Khaldoon Al Mubarak è semplice e facilmente intuibile: la curiosità suscitata in me da una compagine ricca di talento ma costruita un po’ a mo’ di raccolta delle figurine era tanta e la volontà di provare a capire quanto il tecnico jesino sarebbe stato in grado di amalgamare un undici all’altezza anche maggiore.

Dopo averne seguito in più occasioni le gesta, quindi, posso affermare con tranquillità e fermezza come questo City più che una squadra sembri davvero un’accozzaglia di talenti un po’ improvvisata e raffazzonata, senza un’identità di gioco ben precisa, trascinata più da giocate personali dei singoli che dal collettivo. In tutto ciò la via d’uscita non sembra essere rappresentata dal modulo tattico perché non tutto, nel calcio, è una questione di numeri. Si debbono infatti costruire degli equilibri che vanno al di là di questo. Non per nulla ad oggi il Mancio ha tentato diverse alternative, ma senza riuscire ancora a far quadrare il cerchio.

Principalmente il City si schiera con una sorta di 4-3-2-1 composto da una classica linea difensiva a quattro, un centrocampo folto e muscolare tendenzialmente schierato con tre mediani, due ali schierate all’altezza della trequarti ed una sola punta di ruolo. In altri casi, però, le ali vengono avanzate all’altezza dell’attaccante di modo da trasformare il tutto in un 4-3-3 più classico. Più raramente, poi, ecco la squadra schierarsi con un più lineare 4-4-2, come in occasione del match di FA Cup dello scorso febbraio con il Notts County, quando i Citizens si schierarono con la coppia Dzeko-Balotelli davanti ed un centrocampo in linea con Tourè e Vieira centrali e Kolarov-Silva esterni.

In tutto ciò, però, il City continua a non avere la giusta quadratura, né, soprattutto, una fluidità di manovra degna di una squadra che si rispetti, a maggior ragione quando così talentuosa. E non sarà un ennesimo cambio di modulo a sistemare le cose. In situazioni come queste pesa quindi molto il lavoro del mister, che in Inghilterra è poi un manager a tutto tondo. Perché alcuni dei punti negativi di questa squadra possiamo ritrovarli anche relativamente al lavoro svolto in sede di mercato: non sempre spendere tanto significa spendere bene, anzi. Ecco quindi come a gennaio sia stato acquistato, e per un bel po’ di soldi, Edin Dzeko dal Wolfsburg. A che pro, se poi la squadra viene schierata prevalentemente con Tevez unica punta? Prendiamo a campione proprio quest’ultimo mese di marzo: la punta bosniaca è partita titolare in due sole occasioni, di cui una, contro il Chelsea, in cui Tevez non era disponibile. Perché spendere trenta milioni di euro per un giocatore da relegare poi in panchina?

I problemi principali, a mio avviso, si riscontrano però proprio nel gioco di questa squadra. Al di là di moduli e singole scelte c’è bisogno, come detto, di costruire un’identità di gioco a questa squadra, che non può continuare ad essere tirata avanti dalle giocate dei suoi campioni. Vedere un Silva involversi in una situazione in cui non si sente né carne né pesce, una linea di mediani qualitativamente discreta ma in cui nessuno si prende la responsabilità di dettare i ritmi, giocatori come Milner e Wright Phillips non fare nulla più del proprio compitino o un gioco di sovrapposizione sulle fasce latitare dà bene l’idea dello stato delle cose.

L’unica possibile soluzione attuabile a questo punto sembrerebbe quindi essere un cambio di allenatore. Estromettere Mancini – a fine anno, beninteso – dalla guida della squadra per porre al suo posto un manager capace di dare un’impronta più chiara al proprio team. Del resto, senza voler essere eccessivamente duro nei confronti dell’ex tecnico interista, le sue squadre non hanno mai brillato in quanto a gioco. I risultati in passato sono sì arrivati, ma personalmente non ho mai apprezzato troppo il suo modo di gestire una squadra. Sostituire Mancini con un allenatore più capace di dare un’impronta alla propria squadra, come uno Spalletti o un Hiddink per dirne due, potrebbe quindi far effettuare un bel salto di qualità a questa compagine. Spendendo bene i propri soldi sul mercato, poi, ecco che si arriverebbe in breve ad una serissima contender per Premier e Champions League.

QUANDO FRANCO COMMISSARIÒ IL BARCELLONA

Ritrovato da “La Vanguardia” il primo statuto del Barcellona dopo la guerra civile, che sancì la sua sottomissione al regime franchista.

“Il Barça è l’esercito disarmato della Catalogna.” (Manuel VázquezMontalbán, 1999)

Per la Catalogna la caduta di Barcellona il 26 gennaio 1939, e l’entrata in città dell’esercito falangista del generale Franco, non era stata soltanto il capolinea della democrazia, ma aveva significato anche la fine di ogni autonomia e l’inizio di un lungo periodo di sottomissione pressoché assoluta nei confronti del potere centrale.

Il Fútbol Club Barcelona era stato nel ventennio precedente uno dei simboli principali dell’orgoglio catalano, soprattutto durante gli anni venti. Non a caso, il 14 giugno 1926, all’epoca della dittatura del generale Primo de Rivera, i sessantamila presenti allo stadio barcellonese di Les Corts avevano fischiato all’unisono l’esecuzione della Marcha Real, l’inno nazionale spagnolo, e avevano applaudito quella di God Save the King.

Le autorità militari non potevano accettare l’accaduto con spirito di tolleranza. Dopo avere rispedito nella sua patria svizzera il presidente e fondatore Joan Gamper, avevano squalificato il Barcellona per sei mesi, spingendolo ad un passo dalla bancarotta, da cui si era salvato solo grazie all’intervento delle banche catalane e alla raccolta di fondi dei tifosi. Con l’avvento dell’effimera seconda repubblica, il ritorno della libertà in Catalogna, come del resto in tutto il paese, aveva strappato al Barcellona il ruolo di valvola di sfogo della frustrazione politica, riportando i tifosi in un ambito più strettamente calcistico.

E sempre più coinvolti dai fatti politici, i tifosi-soci della squadra, che erano oltre 12mila a metà degli anni venti,avevano cominciato a distaccarsi, per poi crollare a poco più di duemila durante gli anni della guerra civile, quando le attività sportive erano ormai ridotte al rango di incontri ufficiosi. La maggior parte dei sostenitori erano impegnati nei combattimenti, e altri ancora avevano dovuto riparare oltre confine, in Francia. Per il club catalano era stato un periodo devastante: il 6 agosto 1936 il suo presidente Josep Sunyol, un industriale dello zucchero di fede repubblicana, era stato catturato dai franchisti nella Sierra di Guadarrama,e lì fucilato senza processo; poi poco meno di due anni dopo, la storica sede sociale in Calle Consell de Cent era stata colpita da un bombardamento aereo notturno che l’aveva completamente distrutta.

È quindi facile immaginare in quale situazione disastrosa potesse trovarsi il Barcellona al momento dell’ingresso in città delle truppe di Franco. Solo lo stadio di Les Corts, adibito a deposito di munizioni durante la guerra civile, era potuto rimanere intatto, grazie all’abbandono delle milizie repubblicane, senza opposizione di resistenza, all’esercito falangista. In un tale contesto, epurare la dirigenza del club da tutti gli elementi sgraditi al regime risultò quindi un’operazione facilissima, e nell’aprile del 1939 era stata formata una commissione con l’incarico di preparare il terreno per una futura gestione. Anche se questa commissione era composta prevalentemente da membri scelti tra i soci della squadra, le era stato affiancato un capitano della Guardia Civil, che riferiva puntualmente l’andamento dei lavori agli organi del governo centrale.

Sotto una simile pressione, in meno di un anno la missione poté definirsi compiuta, e fu possibile reclutare un nuovo presidente e una nuova giunta direttiva, che avrebbero dovuto sradicare l’anima catalana dal Fútbol ClubBarcelona. Il nome del primo presidente del Barça,nominato direttamente da Madrid, per l’esattezza dal Consiglio Nazionale dello Sport, doveva avere innanzitutto delle credenziali di fedeltà assoluta al regime; e a questo fine la scelta era caduta suun capitano dell’esercito di cinquantasette anni in ottimi rapporti con il generale José Moscardó: Enrique Piñeyro Queralt, Marchese de la Mesa de Asta, per il quale il calcio era chiaro come un’equazione differenziale di secondo grado.

Lo zelante marchese de la Mesa de Asta si mise immediatamente in moto per stilare un nuovo statuto del club che cancellasse con un colpo di spugna ogni residua traccia di democrazia e indipendentismo. Riuscì a redarlo in tre mesi, presentandolo al Consiglioil 12 giugno del 1940, e dopo oltre settant’anni di oblio, questo statuto è stato rinvenutolo scorso 11 marzo dalla redazione sportiva del quotidiano catalano La Vanguardia.

Con questo statuto, l’anima del club azulgrana veniva completamente stravolta, a cominciare dall’emblema, dal quale veniva cancellata la senyera, la bandiera catalana, sostituita da due strisce rosse verticali su campo giallo, sullo stile di quella della Spagna. Anche la composizione del consiglio direttivo subiva una trasformazione sostanziale, e non veniva più richiesto che i suoi membri fossero necessariamente soci del club. Ma il vero colpo di scure si abbatteva sulle modalità di elezione del presidente, che venivano abrogate in toto, e sostituite con la nomina diretta da parte della federazione calcistica spagnola, a propria volta poco più che un’appendice del governo.

In un articolo seccessivo si dichiarava che il club poteva anche venire sciolto con una semplice decisione della federazione calcistica, e lo stadio di Les Corts passava di mano, a beneficio dei rivali dell’Espanyol, squadra dal passato (e anche dal nome) decisamente più rassicurante per i nuovi governanti.La ciliegina sulla torta era stato poi il cambio della ragione sociale del club che, eliminando ogni anglicismo, da Fútbol Club Barcelona diventava Club de FútbolBarcelona.

Il mandato del marchese de Asta sarebbe durato tre anni, e dal punto di vista dei risultati fu tutt’altro che deludente: i soci vennero quadruplicati, ritornando a superare quota diecimila, e i giocatori in esilio in Francia vennero amnistiati, potendo ritornare a difendere i colori del Barcellona. Certamente, nelle cerimonie ufficiali la piaggeria nei confronti del regime poteva dirompere in tutta la sua voluttà, come dimostra questo discorso di Enrique Pineyro datato 30 giugno 1942:

“Il Club de FútbolBarcelona dimostrerà fino a che punto il nostro glorioso Caudillo Franco ha ridato vita al cuore della Spagna e di tante migliaia di bravi spagnoli nati in Catalogna, che sentono un così grande amore per i destini immortali della nostra amata patria.”

Ma il marchese ebbe occasione di riscattare la propria dignità in occasione della scandalosa partita di ritorno della semifinale di Copa del Generalissimo del 13 giugno 1943, contro il Real Madrid, quando dopo avere vinto l’incontro di andata per 3-0 in casa, i giocatori del Barça furono oggetto di un autentico linciaggio mediatico e di una sequela di minacce. Complice anche un arbitraggio oltre i limiti della decenza, la squadra catalana capitolò per 11-1 contro i rivali madridisti, e, oltre al danno anche la beffa, dovette anche sopportare una multa di 25mila pesetas,rea di turbamento dell’ordine pubblico.

Il presidente Mesa de Asta protestò contro l’accaduto presso le massime autorità sportive, ma trovandosi sbarrate tutte le porte, due mesi dopo rassegnò le dimissioni, che segnarono anche il suo parziale riscatto di fronte alla storia del club.

C’ERAVAMO TANTO ODIATI

Si va verso un possibile ingresso dei serbi nella Jadranska Liga, dove giocano croati, montenegrini e sloveni.

La vecchia Jugoslavia di Tito è un ricordo ormai sbiadito: quel paese rivive solo nelle menti di chi è cresciuto negli anni Settanta e Ottanta, nelle mappe ingiallite degli atlanti stampati in quel periodo. La vecchia Jugoslavia unita rimase sotto le macerie della guerra che scoppiò nei Balcani venti anni fa, vittima del nazionalismo che fece la sua avanzata nei vari paesi: ognuno va avanti per la propria strada, covando l’odio per i vicini di casa che, fino al giorno prima, erano da considerarsi fratelli. Eppure, venti anni dopo, lo sport sembra riunire di nuovo, idealmente, sotto un’unica bandiera gli stati balcanici.

Risale, infatti, a qualche settimana fa la proposta dei vertici della Federnuoto serba di iscrivere tre delle loro squadre alla Jadranska Liga, la Lega Adriatica. Nato nel 2008-09, è un campionato che comprende squadre di Croazia, Montenegro e Slovenia, istituito con l’intento di dare maggior visibilità alla pallanuoto, grazie alla garanzia di un campionato più incerto e spettacolare e dal maggior tasso tecnico. L’idea di un campionato internazionale nei Balcani l’aveva già partorita Aleksandr Šoštar, oggi presidente del Partizan Belgrado, ai tempi dell’Europeo di Kranj ma venne concretizzata solamente cinque anni più tardi. La nuova proposta incontra immediatamente i favori di dodici diverse squadre, di cui otto dalla Croazia, tre dal Montenegro ed uno dalla Slovenia: la prima, storica squadra vincitrice è lo Jug Dubrovnik e la Lega Adriatica tutto sommato piace. Tanto più che gli incontri tra squadre croate sono ritenuti validi ai fini anche della massima divisione nazionale. E, se la vecchia Jugoslavia fosse ancor oggi un’unica entità, la Jadranska Liga sarebbe il suo campionato (quasi) perfetto. Quasi, perché viene tagliata fuori la Serbia, espressione di una delle principali scuole pallanotistiche dei Balcani, inizialmente inclusa nel progetto assieme a Grecia ed Ungheria.

E Belgrado, assieme ad altri paesi rimasti ai margini della neonata Lega Adriatica, decide di formare un altro campionato sovranazionale: l’Euro Interliga. L’Ungheria, schierando sei squadre, è la nazione più presente: completano il plotone delle partecipanti due serbe – Partizan e Vojvodina -, una rumena – Oradea – ed una slovacca – Hornets Košice. Anche in questo caso alcune partite, nella fattispecie quelle tra squadre ungheresi, hanno un valore anche nel rispettivo campionato nazionale. Lo scontro tra la scuola magiara e quella balcanica rende accattivante l’Euro Interliga, ma in acqua non c’è storia: trionfa il Partizan, vincendo tutte le diciotto partite in calendario. E anche nel campionato serbo il divario tra i grandi squadroni della capitale ed il resto della concorrenza è netto, abissale. Intanto la Jadranska Liga si amplia con l’ingresso dei montenegrini dell’Akadimija Kotor, che a primavera alzeranno la Coppa LEN.

Riparte, poi, una nuova stagione. Quella in corso. In Serbia nessuno riesce a detronizzare il Partizan: i bianconeri colonizzano il campionato già dopo sei giornate, senza mai incappare in una sconfitta o anche soltanto in un pareggio. Dietro provano a tenere (inutilmente) lo stesso passo la Stella Rossa ed il Vojvodina di Novi Sad. Poi il vuoto, con Belgrado e Žak che si contendono il penultimo posto e con il Niš ancorato nei bassifondi della classifica. Gli stimoli sembrerebbero venir meno.

I massimi organi della pallanuoto serba, dunque, decidono di fare uno storico passo in avanti: chiedono alla Jadranska Liga di far partecipare anche Partizan, Stella Rossa e Vojvodina al prossimo campionato. A Zagabria si riuniscono il segretario generale Marko Stefanović, il direttore tecnico Darko Udovičić ed il presidente della commissione internazionale Đorđe Perišić in rappresentanza dei serbi e gli ex campioni Perica Bukić, Milivoje Bebič e Tomislav Paškvalin come delegati della Jadranska Liga. Entrambe le parti fiutano l’affare: con l’ingresso di tre nuove squadre di indiscutibile valore il campionato ne gioverebbe in termini di spettacolo. Con conseguente aumento di pubblico e, possibilmente, di sponsorizzazioni. Non solo: si tratterebbe di una riunificazione – seppur non riconosciuta in ambito politico – di gran parte della vecchia Jugoslavia. E non può non balzare alla mente quanto accadde nel 1991, quando la nazionale maschile vinse i Mondiali di Perth e, qualche mese dopo, agli Europei di Atene dovette rinunciare ai suoi giocatori croati e sloveni: le rispettive federazioni sportive avevano infatti impedito ai loro atleti di gareggiare in qualsiasi competizione sotto la bandiera jugoslava.

Il nodo da sciogliere è quello economico: portare la Lega Adriatica a sedici squadre comporta un aumento delle partite da giocare e, soprattutto, dei costi. Ma a Zagabria non sembrano sussistere motivi per impedire l’apertura della Jadranska anche ai club serbi. La pallanuoto europea può crescere e salire ulteriormente alla ribalta. E, forse, anche ricucire qualche strappo nella rattoppata terra dei Balcani.

QUANDO LO SPORT HA FATTO L’ITALIA

Oggi si festeggiano i 150 anni dell’unità nazionale: un secolo e mezzo di storia in cui lo sport ha scritto pagine importanti.

A 150 anni di distanza dalla data simbolica scelta per celebrare l’unità d’Italia possiamo con certezza affermare che lo sport non è stato un fattore neutrale, ma ha contribuito costantemente nel definire e ridefinire l’identità italiana. Del resto siamo il paese in cui il quotidiano più venduto è la Gazzetta dello Sport e l’inno di Mameli e il tricolore sono suonati e sventolati principalmente in occasione di eventi sportivi.

Quali sono stati nel corso della storia i 10 momenti più significativi per l’identità italiana? Ecco una personalissima classifica tenendo conto delle diverse discipline e delle differenti epoche storiche.

 

10 L’ITALIA VINCE LA COPPA DAVIS IN CILE (1976)

Grazie a una generazione d’oro rappresentata da Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Antonio Zugarelli e Adriano Panatta, il tennis italiano da sport borghese diventa popolare. Panatta, il D’Artagnan fra i moschettieri azzurri, quell’anno vinse anche gli internazionali di Roma e il Rolland Garros.

Fino alla finale, conquistata sconfiggendo la Yugoslavia, la Svezia, il Regno Unito e l’Australia, il cammino degli azzurri è un’apoteosi; il gota del tennis mondiale si deve inchinare agli alfieri azzurri. Il rivale della finale però crea maggiori problemi dal punto di vista politico che non sportivo. Il Cile di Fillol e Cornejo non fa paura ma pone la questione sull’opportunità di giocare in un paese con cui si sono rotte le relazioni diplomatiche e a pochi metri di distanza da uno stadio usato fino a poco tempo prima come campo di concentramento dal regime di Pinochet.

La società civile si mobilita per chiedere il boicottaggio, il Coni e la Fit si muovono nell’ombra per non perdere una vittoria certa, mentre il governo temporeggia difendendosi dietro lo slogan dell’indipendenza dello sport dalla politica. Alla fine gli azzurri vanno in Cile dove vincono facilmente, ma vengono boicottati da parte della stampa tanto che la provocatoria maglietta rossa indossata da Panatta e Bertolucci nella prima parte del doppio non viene neppure citata nei principali quotidiani sportivi. Il trionfo di Santiago 1976 rappresenta allo stesso tempo l’apice del tennis italiano, ma anche uno dei principali momenti in cui le implicazioni politiche veicolate dallo sport hanno provocato la reazione dell’opinione pubblica.

 

9 I DUE ORI DI ALBERTO TOMBA ALLE OLIMPIADI DI CALGARY (1988)

L’anno precedente aveva vinto un bronzo ai mondiali ma alle Olimpiadi di Calgary Alberto Tomba fece un capolavoro conquistando due ori. Il 25 febbraio sfruttando al meglio il pettorale numero 1 vinse lo slalom gigante con un vantaggio abissale su Strolz e Zurbriggen; due giorni dopo conquistò in rimonta anche lo slalom speciale. In quell’occasione l’Italia intera, Festival di Sanremo compreso, si fermò per accompagnare la discesa di Albertone.

Le vittorie di questo ragazzo degli Appennini cancellarono la credenza per cui  solamente gli abitanti delle valli alpine potevano eccellere in questa disciplina. La saga di “Tomba la Bomba”, che smise ben presto di partecipare ai super giganti e alle discese libere perché “la mamma non vuole”, continuò per tutti gli anni Novanta. Arrivarono altre tre medaglie olimpiche e altrettante mondiali, quattro coppe di specialità, sia in gigante sia nello speciale, e soprattutto la coppa del mondo del 1995.

Più ancora dei trionfi di Zeno Colò e Gustav Thöni  furono soprattutto quelli di Tomba che permisero allo sci di uscire dalle Alpi, diventando in tutto e per tutto lo sport per eccellenza delle vacanze natalizie degli italiani.

 

8 IL MONDIALE DI CALCIO IN GERMANIA (2006)

La vittoria del Mondiale di calcio del 2006 è un fulmine a ciel sereno, una saettata d’orgoglio nazionale: inaspettata, intensa e fugace. Sono passati 5 anni e sembra già un’eternità.

L’Italia calcistica si era trovata nel pieno dello scandalo di corruzione ribattezzato Calciopoli; quella politica si appoggiava sul voto dei senatori a vita per poter legiferare. La vittoria è il trionfo dello stereotipo calcistico italiano costruito su una grande difesa e in cui a risultare decisivi non sono i campioni più attesi (Totti, Del Piero, Toni, Gilardino) bensì i gregari e le seconde linee (Grosso e Materazzi).

Dal punto di vista dell’identità nazionale la vittoria del mondiale appare per alcuni mesi una speranza di rinascita, ancor più perché le vittorie decisive giungono contro Francia e Germania, due paesi verso cui il gap economico tende ad allargarsi, ma non è che un’illusione poiché anche il calcio, nel quinquennio successivo seguirà il declino del paese. Senza un’adeguata programmazione e un investimento sui vivai, il futuro dell’Italia (non solo calcistica) difficilmente potrà essere roseo.

 

7 IL TITOLO MONDIALE DI PRIMO CARNERA (1933)

Primo Carnera è l’atleta che prima di ogni altro ha contribuito al successo del pugilato in Italia. Iniziò la carriera come fenomeno da baraccone funzionale alle esigenze della malavita italo-americana. Col tempo però affinò la tecnica e divenne un ottimo pugile. Grazie alle vittorie su Uzkudum e Schaaf (che morì 4 giorni dopo il combattimento per la somma dei pugni subiti da Carnera e Baer) Carnera smise di essere un simbolo solo per gli italo-americani e venne adottato anche dal regime fascista. Nel 1933 raggiunse l’apice della propria carriera quando sfidò Jack Sharkey al Madison Square Garden per il mondiale, mettendo K.O. il pugile americano alla sesta ripresa, conquistando così il titolo.

Carnera mantenne la corona contro Uzducum ma nel 1934, dopo la sconfitta con Baer, iniziò la sua parabola discendente. Per volere del regime fascista, che aveva scelto il pugile per autorappresentarsi, i giornali ne oscurarono il declino fino a farlo cadere nell’oblio.

Il gigante buono e ingenuo, raggirato dai manager e strumentalizzato dal regime, resta però il capostipite di una tradizione pugilistica italiana che ha prodotto campioni come Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e Roberto Cammarelle.

 

6 IL RECORD DEL MONDO DI MENNEA (1979)

Nonostante dei riflessi alla partenza non certo felini e uno stile di corsa giudicata dai puristi brutto, sgraziato e rigido, Pietro Mennea da Barletta, con la sua progressione di corsa inimitabile, è stato il più grande atleta italiano che abbia calpestato le piste d’atletica. Professionista dell’allenamento nel quale si sottoponeva con carichi di lavoro impressionanti, Mennea incarnava la rabbia di un sud Italia povero di infrastrutture ma dalla grande passione sportiva.

Il 12 settembre 1979 alle Universiadi di Città del Messico vinse i 200 metri in 19’’72, un record del mondo che resistette per ben 17 anni quando fu superato da un altro grandissimo della disciplina, Michael Johnson. Mennea certificò quel record aggiudicandosi l’oro alle Olimpiadi di Mosca del 1980.

Il piccolo velocista bianco capace di competere alla pari con i fenomeni americani oltre a tre medaglie olimpiche, due mondiali e 6 europee, non solo è un pluri-laureato, euro-parlamentare e avvocato di successo, ma probabilmente è stato uno dei grandi dirigenti sportivi mancati del nostro paese.

 

5 LE OLIMPIADI DI ROMA (1960)

Dopo le Olimpiadi invernali di Cortina 1956 quelle di Roma del 1960 (assegnate nel 1965) certificano la ritrovata credibilità dell’Italia all’interno della comunità internazionale.

Le Olimpiadi italiane giungono nel pieno del boom economico, mostrano la grandezza architettonica di Pierluigi Nervi e, sfruttando preparati dirigenti e tecnici sportivi (alcuni dei quali nostalgici del regime), portano un bottino di  36 medaglie (13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo). Fra esse brillano quelle di Livio Berruti sui 200 metri, Musso – Benvenuti – de Piccoli nella boxe, del settebello, Delfino nella spada e le sette nel ciclismo.

Anche se le Olimpiadi sono segnate dalla morte del ciclista Enemark Jensen, notizia sostanzialmente taciuta e censurata dalla stampa italiana, l’“Olimpiade dal volto umano” impressiona gli osservatori stranieri per l’efficienza messa in campo da un paese troppo spesso sottovalutato.

 

4 LA TRAGEDIA DEL SUPERGA (1949)

Il 4 maggio del 1949 è una data maledetta. Il trimotore Fiat G 212 di ritorno da Lisbona alle 17.03 si schianta contro il colle che ospita la Basilica di Superga, non ci sono sopravvissuti. Fra le 31 vittime 18 sono calciatori del Torino: Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti e Julius Schubert. Centinaia di migliaia di persone vollero omaggiare quella squadra a cui fu assegnato il 5° scudetto. Un anno più tardi la nazionale di calcio, piuttosto che prendere l’aero, affrontò una lunghissima trasferta in nave.

Dopo la distruzione causata dalla guerra e dall’oppressione del ventennio fascista, dal 1946 a quella luttuosa giornata il “Grande Torino”, con il suo gioco spumeggiante e i suoi successi, aveva incarnato i desideri di rinascita degli italiani.

Lo schianto del 1949 privò il calcio italiano della sua gioventù migliore. Montanelli scrisse: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta»

 

3 LA MARATONA DI DORANDO PIETRI (1908)

Il 24 luglio 1908 si disputa la maratona, gara principale delle Olimpiadi di Londra del 1908; fra i partecipanti c’è un baffuto corridore di Carpi che di mestiere fa il garzone. A dispetto dei pronostici quando entra nel White City Stadium si ritrova con un vantaggio abissale sui rivali e la folla lo accoglie con un’ovazione. Dorando Pietri però non corre più, ciondola accecato dalla stricnina (sostanza allora presa comunemente da tutti i corridori) e prende la direzione sbagliata collassando a terra più volte. Incitato dalla folla e sorretto da un megafonista e da un medico, impiega 10 minuti a compiere gli ultimi metri e dopo aver tagliato la linea del traguardo crolla a terra. L’aiuto ricevuto gli costa la squalifica ma quando l’indomani riprese conoscenza fu ricoperto di elogi, fiori e regali fra cui quello della Regina Alessandra che, poiché non era stato responsabile della propria squalifica, lo omaggiò con una coppa piena di sterline.

La stampa italiana diede per la prima volta grande risalto all’evento e il carpigiano, autore di un’impresa che neppure i giudici poterono cancellare, divenne così la prima leggenda, celebrata tutt’oggi, dello sport italiano.

 

2 IL MONDIALE DI SPAGNA (1982)

Mettiamo da una parte l’immagine di Mussolini che pontifica il successo (con annesso saluto romano) della nazionale italiana ai Mondiali del 1934 (poi ripetuto nel 1938 e alle Olimpiadi del 1936) e dall’altra il presidente della repubblica Sandro Petrini che, dopo aver celebrato il successo azzurro, gioca a scopa con Zoff, Causio e Bearzot; la differenza fra i successi degli anni ‘30 e quello degli anni ‘80 sta tutta qui.

Anche la modalità con cui venne raggiunto questo successo contribuisce ad accrescere il mito del Mondiale dell’82. Dopo un quadriennio di critiche e una qualificazione alla seconda fase ottenuta da tre striminziti pareggi, la squadra italiana fece quadrato, dichiarando il silenzio stampa, e da brutto anatroccolo si trasformò in un cigno. Grazie ai goal di Paolo Rossi e alle serpentine di Bruno Conti l’Italia si laureò per la terza volta campione del mondo, sconfiggendo nell’ordine: Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest. La vittoria calcistica e il triplice “campioni del mondo” urlato dal telecronista Nando Martellini certificarono la fine della crisi degli anni Settanta e l’inizio di una stagione di benessere diffuso, basato sul debito, e incarnato dalla “Milano da bere”.

 

1 GINO BARTALI CHE VINCENDO IL TOUR “SALVA” L’ITALIA DALLA GUERRA CIVILE (1948)

Bartali, come Carnera, è stato uno di quei simboli sportivi che il fascismo aveva fatto propri. Ginettaccio però, vicino all’Azione Cattolica, non sostenne mai, neppure simbolicamente il partito fascista, evitando di posare in camicia nera o di prestarsi al saluto romano. Nel 1938, quando vinse il suo primo Tour de France, venne ampiamente strumentalizzato dal regime fascista.

La guerra privò Bartali dei suoi anni migliori ma portò in Italia la democrazia. Il dopoguerra di Ginettaccio fu segnato dal rifiuto di candidarsi con la DC, dalla rivalità (più nell’immaginario collettivo che non nella realtà) con Fausto Coppi e da un sogno: rivincere il Tour de France a 10 anni di distanza. “È troppo vecchio” dissero in tanti, ma le critiche aprioristiche non fecero altro che caricare la cattiveria agonistica del testardo campione toscano.

Nell’aprile del 1948 si erano tenute le prime elezioni della Repubblica italiana, vinte dalla Democrazia Cristiana ma le tensioni interne e internazionali contribuivano ad accrescere il clima di divisione in seno al paese. Gino partì alla volta del Tour, accordandosi con Binda, suo “direttore sportivo”, per una partenza lenta volta a far credere che Bartali fosse fuori forma. Irritato per la poca considerazione nei suoi confronti e accusato da alcuni ciclisti di essere troppo vecchio, Gino andò a vincere la prima tappa facendo infuriare Binda. Dopo questa “bravata iniziale” Bartali seguì le direttive del suo stratega per far sì che i rivali, Bobet e Robic, si scannassero fra di loro. Dopo aver accumulato nelle prime tappe un ritardo di 20 minuti il campione toscano conquistò due importanti successi a Lourdes e a Tolosa, ma il 13 luglio, complice una foratura, finì vittima di una trappola ordita dai francesi che si allearono “fregandolo come un bischero” e ricacciandolo nuovamente a più di 20 minuti di ritardo.

Il giorno successivo era previsto riposo e, mentre Bartali rimuginava sulla tappa di Cannes, a Roma Antonio Pallante scaricò quattro colpi di rivoltella sul segretario del PCI Palmiro Togliatti, che, tifoso di Bartali, nei giorni precedenti si era personalmente assicurato che l’Unità sostenesse il ciclista toscano al di là dello stereotipo secondo cui la rivalità Coppi/Bartali fosse anche politica. Con Togliatti in fin di vita, le piazze si  riempirono e la Cigl proclamò lo sciopero generale. Non appena la notizia di un pericolo rivoluzionario arrivò a Cannes, i giornalisti italiani lasciarono il Tour e i gregari di Bartali, preoccupati per le loro famiglie, spinsero a fare altrettanto. Il toscanaccio era ormai convinto di aver perso il suo sogno di poter rivincere il Tour quando arrivò una telefonata di Alcide de Gasperi che chiese: «Pensi di poter vincere ancora il Tour? Sai, sarebbe importante. Non soltanto per te». Il giorno successivo Bartali fece l’impresa scalando in modo imperioso l’Izoard e recuperando quasi tutto il distacco su Bobet. Il 16 luglio era nuovamente in maglia gialla che portò orgogliosamente fino a Parigi.

Togliatti, che nel frattempo si era ripreso, dall’ospedale predicò la calma contribuendo in modo decisivo a smorzare il clima di guerra civile, ma chiese anche notizie di Bartali al Tour. La retorica cattolica non poteva certo concedere al proprio rivale politico il merito di aver salvato la democrazia dalla guerra civile; Bartali era un simbolo molto più adatto e per di più era amato, nonostante i niet dogmatici, anche a sinistra. Fu così che man mano che la minaccia rivoluzionaria retrocedeva, il mito di Bartali come salvatore della patria prese forma e si cristallizzò come leggenda nella storia italiana.

Articolo scritto per www.thepostinternazionale.it e pubblicato anche per www.pianeta-sport.net e www.centrostudiconi.it
(Le citazioni su Bartali sono tratte da Turrini, Bartali, L’uomo che salvò l’Italia pedalando, Milano, Mondadori, 2004 e Facchinetti, Bartali e Togliatti, Roma, Campagna Editoriale, 1981)