IL COMMODORO BAINIMARAMA, GOLPISTA OVALE

Uno scandalo di corruzione e una crisi politica stanno mettendo a rischio la partecipazione alla Coppa del Mondo di rugby di Namibia e Figi.

Si incontreranno il 10 settembre, a Rotorua, in quella che sarà la terza partita della Coppa del Mondo di rugby 2011 in Nuova Zelanda. Si tratta delle nazionali di rugby di Figi e Namibia che, dopo l’incontro di Rotorua, dovranno affrontare nel girone D anche Samoa, Galles e i campioni uscenti del Sudafrica. Figi e Namibia, però, rischiano di vedere la propria partecipazione saltare nei prossimi mesi.

La Namibia, nonostante le difficoltà e la acuìta concorrenza continentale, è riuscita a qualificarsi per la quarta volta consecutiva al Mondiale superando le insidie poste da Tunisia e Costa d’Avorio. La Namibian Rugby Union però, secondo quanto riportano Planet Rugby e Rugby Week, sarebbe accusata di forte corruzione al suo interno e di non pagare i propri giocatori. Accuse che hanno portato in dicembre alla sospensione del dirigente federale Sakkie Mouton e al commissariamento della NRU, ora controllata interamente dall’International Rugby Board e affidata alle cure dell’amministratore sudafricano Steph Nel.

Un terremoto che desta preoccupazioni a pochi mesi dalla RWC 2011. Mark Egan, capo del dipartimento di sviluppo dell’IRB, dopo aver fatto partire un’inchiesta sui debiti della federazione (ammontanti, parrebbe, a oltre mezzo milione di dollari), ha commentato: “è necessario che la NRU sia ben organizzata. Stiamo chiedendo a una piccola federazione con risorse limitate di competere contro le migliori squadre del mondo. Ci sono problemi finanziari e faremo di tutto per monitorare attentamente le risorse. L’IRB potrà dare una mano attraverso finanziamenti aggiuntivi, che però sono limitati. Speriamo quindi che il governo e il settore privato del paese aiutino la squadra nazionale in quest’anno così importante”. Meno allarmato il tono di Johan Diergaart, allenatore del XV africano: “In questo momento siamo in preparazione per la Coppa del Mondo. Alcuni giocatori sentono un po’ di incertezza, ma non penso che la cosa possa influenzarli”.

Non è la prima volta che, in concomitanza di una Coppa del Mondo, la Namibia si trova in gravi difficoltà. Nel 2003 emerse uno scandalo riguardante compensi non pagati ai giocatori e dirottati invece nelle tasche dei dirigenti, mentre quattro anni più tardi alcune irregolarità nella vendita dei biglietti portarono alla rimozione dall’incarico del presidente federale Dirk Conradie e di tutto il suo staff.

Alle Isole Figi il rugby è uno sport nazionale vissuto con una devozione quasi religiosa. Vera potenza mondiale nella variante del Sevens, la nazionale figiana resta una delle poche minnows in grado di sovvertire gli equilibri di potere del rugby internazionale: sia all’edizione inaugurale della Coppa del Mondo nel 1987, sia nell’ultima edizione finora disputata (Francia 2007) i figiani riuscirono ad accedere clamorosamente ai quarti di finale, sgambettando rispettivamente l’Argentina di Hugo Porta e il Galles. In entrambe le occasioni l’arcipelago pacifico era reduce da pochi mesi da un colpo di stato. Il 2011 invece si è aperto per il rugby figiano con quello che, secondo la Fiji Rugby Union, sarebbe un golpe ordito dalla giunta militare (al potere dal 2006) ai danni dei vertici della federazione e con l’apertura di una crisi che potrebbe mettere in pericolo la partecipazione della squadra nazionale ai Mondiali neozelandesi programmati per settembre.

A inizio gennaio la FRU è stata messa sotto inchiesta dalla Commissione per il Commercio figiana per alcune irregolarità concernenti l’organizzazione di una lotteria finalizzata a finanziare la campagna mondiale: per poter vendere più biglietti, la federazione avrebbe scontato il prezzo dei tagliandi, operazione contestata dalla Commissione, che ha chiesto una multa di 125 mila dollari figiani (l’equivalente di 82 mila dollari USA). Un’altra delle accuse mosse ai membri della FRU è quella di aver usato parte dei soldi guadagnati dalla sottoscrizione per assistere ad alcuni tornei di rugby a sette a Hong Kong e in Regno Unito. Piccata la reazione del presidente della federazione Bill Gavoka: “Sono scioccato dalle direttive emesse dalla Commissione, visto che abbiamo rispettato tutti i termini di legge. La licenza con cui è stata permessa la lotteria non ci proibiva di scontare i biglietti, e noi abbiamo solo cercato di massimizzare le vendite per il bene della nazionale”.

La crisi vera e propria è cominciata però l’11 gennaio, con la richiesta da parte del ministro dello sport figiano Filipe Bole di dimissioni da parte dei dirigenti federali, posti sotto la minaccia di veder congelati, in caso di rifiuto, i fondi destinati alla partecipazione della nazionale al Mondiale. In tutta risposta Gavoka ha rinunciato all’incarico di presidente, senza però abbandonare il suo posto nel consiglio federale: “Nessun membro del consiglio può dimettersi o essere sostituito prima del meeting annuale della federazione in aprile”. Una presa di posizione priva di sostegno, vista l’offerta di dimissioni da parte dell’esecutivo e la decisione di deporre Gavoka sostituendolo con il presidente ad interim Rafaele Kasibulu, con la promessa di nuovi finanziamenti governativi per l’entità di tre milioni di dollari figiani (un milione e mezzo in valuta statunitense).

Un golpe sportivo che non ha mancato di allertare l’International Board, preoccupata dall’eccessiva ingerenza del governo militare delle Isole Figi nella vita della federazione al punto da lanciare un ultimatum: “ogni contravvenzione rispetto allo statuto della federazione potrebbe costare alle Figi l’espulsione dall’IRB e l’esclusione dai circuiti del rugby internazionale”, ammonendo la giunta che “alla luce delle circostanze, non c’è motivo perché venga cambiato l’esecutivo della FRU” e minacciando di commissariare la gestione del rugby isolano. Secondo il dirigente IRB Mike Miller, giunto nell’arcipelago il primo di febbraio per negoziare una soluzione alla crisi, “l’IRB nutre preoccupazioni che la situazione corrente possa creare instabilità e avere un impatto negativo sulla gestione della federazione, sui programmi di sviluppo ed eccellenza finanziati dall’IRB e sulla preparazione alla Coppa del Mondo”. L’ultimatum dell’IRB avrebbe incoraggiato i membri del consiglio federale a rifiutare le dimissioni del capo dell’esecutivo della FRU Keni Dakuidreketi.

Secondo la FRU l’obbiettivo della giunta militare sarebbe quello di designare come nuovo presidente federale il commodoro Frank Bainimarama, capo delle forze armate e primo ministro, affiancandogli come vicepresidente il cognato Francis Kean, comandante della Marina con alle spalle una detenzione per omicidio e dirigente della franchigia di Suva, isola principale dell’arcipelago. Bainimarama, grande entusiasta della palla ovale, prese il potere nel 2006, secondo alcune voci ritardando la messa in atto del piano golpista per permettere lo svolgimento dell’annuale partita tra le squadre della polizia e dell’esercito. Da allora non ha mai mantenuto la promessa di indire elezioni democratiche, provocando l’espulsione delle Figi dal Commonwealth e dal Forum Pacifico. Secondo il New Zealand Herald Murray McCully, ministro per la Coppa del Mondo, per le attività sportive e ricreative e per gli affari esteri nel governo neozelandese, avrebbe dichiarato che Bainimarama e Kean, personae non gratae nella terra della Grande Nuvola Bianca, non saranno ammessi in territorio neozelandese durante la manifestazione nemmeno se dovessero presentarsi in quanto membri della FRU.

OM: NECESSARIO UN CAMBIO DI MODULO?

Olympique MarsigliaLo scorso anno si impose al termine di una lunga cavalcata che lo portò a chiudere il campionato con sei punti di vantaggio sul Lione. Quest’anno, invece, la squadra allenata da Didier Deschamps, l’Olympique Marsiglia, ha avuto un inizio piuttosto stentato e si trova ora quarto a sei punti dal Lille primo in classifica. Il tutto grazie alla recentissima vittoria sull’Arles fanalino di coda: la squadra di Michel Estevan, infatti, è stata sinora capace di guadagnarsi otto soli punti in ben ventidue giornate di campionato, ed è già praticamente retrocessa in Ligue 2. Vittoria quindi praticamente scontata quella dell’OM, che serve però a rilanciare le ambizioni di una squadra partita per difendere il titolo guadagnato la scorsa primavera.

Compagine, quella marsigliese, che denota in particolar modo una difficoltà imprevista sotto porta: in ventidue giornate i ragazzi di Didì Deschamps sono difatti stati in grado di realizzare solo trenta reti, contro le quaranta del Lille capolista. Difficoltà, questa, che si è palesata anche contro la peggior difesa della Ligue 1: quella dell’Arles, appunto.  Nei primi 21 match di campionato, infatti, i ragazzi di Estevan si erano fatti bucare ben 42 volte, con una media secca di due reti subite a partita. L’OM, però, è stato capace di trovare la via della rete in una sola occasione, palesando quindi ancora una volta una certa incapacità di pungere. Il tutto nonostante l’ex allenatore juventino schieri una formazione piuttosto offensiva fatta di tre punte tra le più interessanti del campionato ed un centrocampo a tre con un mediano d’interdizione affiancato da due mezz’ali molto tecniche e dal buon piede. Una formazione, insomma, che non dovrebbe incontrare problemi né nel costruire gioco né nel finalizzarlo. Ma analizziamolo meglio questo 4-3-3 marsigliese schierato contro l’Arles.

Tra i pali trova collocazione il capitano della squadra, Mandanda, protetto da una linea a quattro formata dalla coppia centrale Diawara-Mbia con due terzini tendenzialmente bloccati come Fanni ed Heinze. Difesa a sua volta schermata da Charles Kaborè, schierato in mediana, ai cui fianchi agiscono il sempre ottimo Lucho Gonzalez, giocatore che sono convinto farebbe molto bene anche in Italia, e Benoit Cheyrou, mezz’ala mancina molto apprezzata in patria. In attacco, quindi, schierato il trio – sulla carta – delle meraviglie Remy-Brandao-Gignac.

Partita che inizia però subito maluccio per i padroni di casa che mostrano una certa fragilità in fase difensiva laddove i movimenti della linea a quattro non sembrano ben registrati e Kaborè è lasciato dai compagni un poco troppo solo in mediana. In compenso in attacco le cose stentano a decollare: il pallone non scorre fluidamente ed è trasmesso con qualche impiccio da un reparto all’altro, tanto che la prima grande occasione per l’OM è frutto più del caso e della capacità di un singolo, Gignac, che di un convincente gioco di squadra. Ecco quindi come una palla scodellata in mezzo viene alzata a campanile dalla testa di Brandao con l’ex punta del Tolosa che dopo averla fatta rimbalzare s’inventa una splendida rovesciata con cui prende tutti alla sprovvista, venendo però fermato dalla traversa.

Con il passare del tempo i padroni di casa riescono comunque a prendere fiducia nei propri mezzi, guadagnando sempre più campo e creando via via occasioni sempre più importanti. Così dapprima Lucho lancia Remy alle spalle di una difesa spaccata, con Merville costretto all’uscita di piede per anticipare l’ex punta nizzolina. Poi Cheyrou si accentra dalla sinistra e arriva al tiro dopo uno splendido uno-due con Gignac, con Merville ancora bravo ed attento a respingere di piede. In chiusura di primo tempo arriva quindi la seconda traversa marsigliese, con Lucho che calcia una splendida punizione dal limite senza però riuscire a trovare la via di porta.

A dieci minuti dall’apertura di ripresa, quindi, L’OM passa in vantaggio grazie ad una bella azione corale che mette in mostra come, dopotutto, la tecnicità per effettuare certe giocate c’è tutta al Velodrome: Gignac parte da prima della trequarti sinistra scaricando su Lucho per andare poi ad accentrarsi, puntando il centro dell’area. Nel contempo Brandao, schierato centrale nel tridente approntato da Deschamps, effettua il movimento opposto: nel momento in cui Lucho sta venendo in possesso del pallone, infatti, il puntero brasiliano si allarga proprio sulla sinistra, per dettare il passaggio al compagno. Il tutto ottenendo un doppio beneficio: da una parte taglia alle spalle di un avversario andando a portarsi in una zona di campo sguarnita dove potersi impossessare del pallone senza grandi problemi, dall’altra disorienta quello che era il suo diretto marcatore e la difesa tutta, creando un bel buco in mezzo all’area dove s’infilerà, lesto, proprio Gignac.

Una volta arrivato in possesso della palla, quindi, Lucho vedrà subito il movimento del compagno e lo servirà, dando il la ad un’azione che si rivelerà decisiva: una volta portatosi sul fondo, difatti, Brandao centrerà un pallone basso su cui piomberà, puntualissimo, il buon Gignac, che potrà quindi realizzare comodamente la rete della vittoria.  La possibilità di ben comportarsi, insomma, ce l’hanno tutta, a Marsiglia. Del resto quando si può contare su giocatori importanti come Cheyrou, Lucho ed il tridente delle meraviglie è anche scontato averle, queste possibilità.

Il problema vero è che la squadra fatica a creare una propria fisionomia di gioco. Ed in questo uno dei principali colpevoli non può che essere, ovviamente, il buon Didì. Ed è un vero peccato: forti della seconda miglior difesa del campionato (18 reti subite in 22 match, contro le 17 del Rennes) les Olympiens avrebbero davvero tutte le carte in regola per riconfermarsi campioni di Francia.

Ma come si potrebbe rinvigorire una fase offensiva particolarmente deficitaria? In questo senso, è certo, il brutto infortunio occorso a César Azpilicueta, ventunenne terzino spagnolo ex Osasuna, non aiuta di certo. Il suo sostituto, acquistato a dicembre in fretta e furia proprio per poter tamponare al meglio la lunga assenza dell’ex capitano dell’under 20 iberica (che resterà assente sino alla prossima estate a causa di un infortunio ai crociati), non riesce infatti a dare lo stesso apporto in fase offensiva e di costruzione: per quanto sia un giocatore di ottimo livello Rod Fanni è terzino abile in fase difensiva ma che non sa spingere con continuità. L’esatto opposto di un Azpilicueta che, di contro, forse paga qualcosa in fase difensiva ma certo sa spingere con efficacia, risultando spesso un’opzione in più per la propria squadra. Al tempo stesso anche panchinare Taiwo, come successo appunto contro l’Arles, può risultare controproducente. E’ vero che Heinze avendo giocato per anni centrale dovrebbe garantire una miglior copertura ed una maggior robustezza al pacchetto arretrato ma è altrettanto vero che il terzino nigeriano con le sue qualità atletiche tracimanti ed un tiro al fulmicotone sa rendersi indubbiamente molto più pericoloso nella metà campo avversaria, risultando importante tanto in fase propulsiva quanto realizzativa (il venticinquenne di Lagos è infatti il quarto miglior realizzatore ed terzo miglior assistman della squadra in questa stagione).

Lo schierare due terzini prettamente difensivi anziché più portati ad offendere non può comunque spiegare da solo la scarsa vena realizzativa di questa squadra, posto poi che Taiwo ha comunque giocato la maggior parte dei match e che tutto sommato dovrebbe essere ritenuto il titolare di questa squadra (per quanto gli sia stato preferito Heinze come terzino negli ultimi due match). La motivazione principe credo vada quindi ricercata proprio nel modulo adottato dall’ex capitano Bleus. Per proteggere gli investimenti fatti in estate, infatti, Deschamps è quasi costretto a schierare praticamente sempre Gignac e Remy, che stanno mantenendo una media realizzativa piuttosto scarsa: il primo ha sinora disputato venti match realizzando sei sole reti, il secondo ne ha invece giocati ventidue realizzandone sette. Nel complesso, posto che Brandao è riuscito a fare anche di peggio con tre segnature in ventidue partite, ecco che la situazione è realmente piuttosto desolante. E dato che questo tridente sembra non funzionare ecco che bisognerebbe pensare ad una qualche soluzione tattica differente.

In questo senso vedo due vie percorribili: la prima prevederebbe l’utilizzo di questo stesso schema ma con interpreti diversi, la seconda proprio un cambiamento di modulo. Nello specifico: qualora Deschamps voglia a tutti i costi continuare a schierare il suo 4-3-3 dovrebbe pensare a panchinare una volta per tutte Brandao, la cui fisicità può certo venire comoda in alcuni frangenti ma che è assolutamente troppo lontano da una media realizzativa anche solo vagamente accettabile. In questo caso, quindi, potrebbe schierare Gignac fisso nel centro dell’attacco, anziché farlo partire a sinistra come nel derby con l’Arles, con il giovane André Ayew sulla fascia mancina ed il solito Remy su quella destra, andando così a fare molto più affidamento su tecnica ed inventiva che su fisicità e sportellate.

Nel secondo caso, quello del cambio di modulo, si potrebbe invece pensare di passare ad un centrocampo a quattro schierato a mo’ di rombo, magari ispirandosi al Milan di Ancelotti. Per fare questo, però, occorrerebbe avere un regista di centrocampo, ruolo in cui l’OM si ritrova ad essere piuttosto scoperto. Per ovviare alla cosa si potrebbe quindi pensare di spostare Lucho centralmente, dando a lui i compiti di impostazione allor quando l’azione riparte dalla difesa, con Kaborè a ricoprire un ruolo da mastino di centrocampo stile Gattuso e Cheyrou a fare la mezz’ala classica con compiti di sostegno e finalizzazione, un po’ come fatto a suo tempo da Seedorf. Sulla trequarti, poi, potrebbe trovare spazio, una volta ripresosi dall’infortunio, Mathieu Valbuena. Anche se, in alternativa, quel ruolo lo si potrebbe far ricoprire ad Ayew, ragazzo che predilige giocare largo a sinistra ma la cui fantasia potrebbe comunque tornare comoda anche centralmente, a ridosso delle punte. Che, in quel caso, potrebbero essere Gignac e Remy, come prima scelta, con Brandao pronto a subentrare. I tre hanno infatti caratteristiche piuttosto diverse e sono accoppiabili a piacimento: la duttilità di Gignac permetterebbe di fatto tanto di schierarlo con Remy, che potrebbe usarlo come riferimento schierandosi da seconda punta mobile capace di dialogare coi compagni centralmente quanto, alla bisogna, di allargarsi sulla destra per cercare il fondo, quanto di schierarlo con Brandao, andando lui, in quel caso, a giostrare come seconda punta. Così come, del resto, si potrebbe decidere poi di lasciare a riposo l’ex stella del Tolosa, schierando Brandao centravanti boa con l’ex Nizza a supporto.

Gli accorgimenti tecnico-tattici utilizzabili, insomma, sono molteplici. Si tratta solo di trovare la giusta quadratura del cerchio. Al termine del match contro l’Arles il buon Deschamps ha parlato di squadra ancora in convalescenza, che deve ritrovarsi dopo un inizio di stagione sottotono. Personalmente credo che sia il caso, in questo momento, di dare un po’ una scossa ad un gruppo di giocatori che non riesce ad esprimere il proprio enorme potenziale.

Ecco perché personalmente opterei proprio per un cambio di modulo.

GIAPPONE: TRAVOLTO DAGLI SCANDALI, IL SUMO ENTRA NEL TUNNEL

La parabola discendente del Sumo, l’anima profonda di un Giappone globalizzato che guarda sempre più a Calcio e Baseball.

Sumo - 1861“Ai miei tempi gli incontri truccati erano parte integrante del sumo; eppure nessuno di noi si sentiva in colpa per questo.” (Keisuke Itai, lottatore professionista di sumo tra il 1978 e il 1991)

Date le microscopiche dimensioni, lo scandalo delle scommesse clandestine che in Giappone sta travolgendo il sumo, farebbe solo sorridere noi italiani, avvezzi a livelli ben più elevati. Infatti, già lo scorso luglio l’inchiesta dei magistrati giapponesi, aveva scoperto che anche i lottatori di sumo, equiparati a semidei dai più nostalgici tradizionalisti del sol levante, erano coinvolti nel giro delle scommesse illegali su alcuni incontri di baseball, per valori intorno a un paio di migliaia di euro. Dalle ultime intercettazione di alcuni sms di alcuni lottatori, però gli inquirenti sono arrivati a sospettare che anche gli stessi incontri di sumo siano stati in qualche modo truccati.

Dietro queste scommesse sembra che aleggi l’ombra della Yakuza, la storica organizzazione criminale nipponica, ormai quasi del tutto soppiantata dalla ben più rampante mafia cinese. Secondo i giornalisti specializzati, il mondo del sumo vive sotto l’imbarazzante tutela della Yakuza da almeno un secolo, ma il colpo all’immagine di questo sport questa volta è stato devastante. Se già in estate lo scandalo aveva prodotto come effetti a catena: la cancellazione delle gare del Basho di Nagoya, uno dei sei principali tornei annuali di sumo, le dimissioni del presidente della federazione nazionale, e il ritiro di uno sponsor milionario come Fuji Xerox, proprio ieri è partito un altro siluro letale. Anche il Basho di Osaka di questa primavera è stato annullato dal programma, almeno finché l’inchiesta sulle scommesse non chiarirà definitivamente tutti gli aspetti di questa vicenda.

Paragonato ad altri sport di punta, come il calcio o il baseball, il sumo non è altrettanto allettante per i propri atleti. Il reddito annuo di una star del sumo corrisponde a circa 200mila euro annui, poco più di quello di un giocatore della serie B italiana. E in aggiunta, un calciatore può gestirsi la vita privata più o meno a proprio piacimento, mentre ogni sumotori è costretto a vivere come un asceta. Il sumo, in quanto sport antico più di 1.500 anni, mantiene gelosamente intatti i propri riti liturgici di origine scintoista: anima ed origine delle virtù giapponesi. Ai lottatori è imposto di vivere in comune sotto la direzione di un maestro, con programmi quotidiani da caserma ottocentesca, di sottoporsi a una dieta all’ingrasso datata un migliaio di anni fa a base di banane, patate, cavoli, chanko-nabe, uno stufato ipercalorico, salsa di soia, riso e birra, in quantità industriali, di acconciarsi i capelli come una geisha, e di indossare durante le gare un goffissimo perizoma di seta, simile a un maxi pannolone, lungo nove metri e chiamato mawashi.

Inevitabilmente, questa grave carenza di glamour, unita a un rapporto costi benefici poco conveniente, ha allontanato i giovani giapponesi dalla pratica del sumo, tanto che i dirigenti della federazione si sono visti costretti ad aprire le frontiere a lottatori stranieri: cinesi, sudcoreani, mongoli, russi ed europei dell’est. I puristi hanno visto questa apertura come un affronto a una disciplina che, in quanto simbolo del Giappone, non avrebbe mai dovuto ricorrere a modelli d’importazione.

La crisi del sumo oggi è una realtà ineludibile; e stretto tra la morsa della concorrenza degli sport internazionali e le ultime disavventure giudiziarie, sta rischiando di vedersi limitati i propri confini come una riserva indiana. I tempi, in cui era circondato da un’aurea di religioso rispetto (e di impenetrabilità), tanto che anche l’imperatore Hirohito non mancava mai di presenziare ai basho di Tokyo, sono lontani. Le polemiche e gli scandali hanno invece date decisamente più recenti, e in un ipotetico libro nero (ma neanche troppo) del sumo si potrebbero riassumere così gli episodi storici più tormentati:

Gennaio 1932: Provati dalle durissime condizioni di vita dell’epoca, trentadue campioni di sumo, incluso uno yokozuna (il massimo livello per questo sport, considerando che dal 1684 ad oggi, solo 69 lottatori lo hanno raggiunto), entrano in sciopero, reclamando paghe più alte, meno ore di allenamenti e il diritto a una pensione. Le rivendicazioni non vengono accettate, e molti degli atleti scioperanti verranno poi squalificati.

Gennaio 1968: Takamiyama Daigorō, al secolo Jesse James Wailani Kuhaulua, statunitense delle Hawaii, è il primo lottatore non giapponese a diventare Makuuchi, professionista di massima divisione. Questo tabù era stato comunque parzialmente infranto nel 1961 da Taiho, formalmente cittadino giapponese, anche se nato nell’isola di Sakhalin da madre giapponese e padre ucraino. Taiho, trapiantato a Hokkaido, la zona più arretrata del paese, era stato anche il precursore di un trentennio di dominio hokkaidese nel sumo.

Luglio 1985: Ancora un hawaiano, Konishiki Yasokichi, arriva a un gradino più alto del suo predecessore, e diventa sekiwake. Più tardi, confesserà al New York Times: “Se fossi stato un giapponese, mi avrebbero promosso a yokozuna”, accusando di xenofobia i dirigenti nipponici.

Luglio 1992: Un giovanissimo lottatore di quindici anni muore, stroncato da un infarto, durante il torneo di Nagoya. I media giapponesi mettono sotto accusa l’alimentazione forzatamente ipercalorica a cui sono sottoposti gli atleti.

Gennaio 1993: Akebono Tarō, ennesimo hawaiano, conquista il titolo di yokozuna.

Febbraio 2000: Keisuke Itai, ex sumotori, riferisce al settimanale Shūkan Gendai che durante la propria carriera di professionista, tra il 1978 e il 1991, almeno l’80% degli incontri erano truccati. Già nel 1996 la stampa giapponese aveva parlato di intromissioni della Yakuza per alterare le gare di sumo.

Marzo 2000: La governatrice della prefettura di Osaka chiede di potere salire sulla pedana di gara, il dohyo, per la cerimonia di premiazione dei vincitori del basho di primavera. Secondo il rituale di derivazione scintoista, a una donna, in quanto impura, non può essere permesso di violare la sacralità di una pedana di sumo. La sua richiesta, pur suscitando divisioni nel paese, verrà respinta dalla federazione.

2003: Una cinquantina di lottatori stranieri, originari soprattutto dall’Europa dell’est e provenienti in buona parte dalla lotta libera, diventano professionisti, invadendo i circuiti giapponesi di sumo.

Agosto 2007: Il mongolo Asashōryū Akinori, diventato il 68° yokozuna della storia, e già sanzionato per indisciplina, salta un torneo in Giappone e torna dalla famiglia a Ulan Bator, adducendo problemi fisici. Viene però ripreso dalle telecamere mentre gioca una partita di calcio di beneficenza in perfetta forma. Per questo sarà squalificato per due tornei consecutivi e il suo stipendio sarà ridotto del 30%.

Febbraio 2008: Un giovane lottatore muore per le percosse subite dai propri compagni più anziani dietro ordine del maestro. La federazione nasconde le cause della morte, dichiarando in un primo tempo che si era trattato di un attacco cardiaco. I responsabili saranno processati e condannati a pene tra i tre e i sei anni di carcere.

Agosto 2008: Tre sumotori russi vengono trovati positivi alla cannabis: le loro abitazioni sono perquisite dalla polizia (il consumo di cannabis è un reato secondo la legge giapponese), e vengono reperite modeste quantità di marijuana. Lo scandalo è un’occasione per riaccendere le polemiche sull’apertura delle frontiere.

2010/2011 (oggi): Un’inchiesta partita dalla magistratura nipponica sulle scommesse clandestine nel baseball, porta a indizi che gettano ombre pesanti sulla regolarità degli incontri di sumo.

FABIANO FONTANELLI, VELOCE E FURBO

Fabio FontanelliNelle stagioni d’oro di Marco Pantani, al centro del gruppo c’era sempre una “chiazza gialla”: era il Pirata con i suoi uomini della Mercatone Uno, presenza fissa nel plotone di quegli anni. Fabiano Fontanelli faceva parte di quella squadra, ma sarebbe riduttivo descrivere il corridore nato a Faenza nell’aprile di 46 anni fa come un gregario duro e puro. In quindici anni di onorata carriera il “Fonta” ha infatti portato a casa qualcosa come 37 vittorie, tra le quali spiccano quattro tappe al Giro d’Italia. Negli anni del fortunato sodalizio con Pantani, le sue doti di passista-veloce tornavano molto utili alla causa della Mercatone Uno: nelle stagioni precedenti invece, con le divise di Selca, Italbonifica, Navigare, ZG Mobili ed MG, spesso Fontanelli rivestiva i gradi di capitano e battagliava nelle volate di gruppo con Zabel, Cipollini e gli altri grandi sprinter dell’epoca, non disdegnando qualche coraggioso tentativo nelle grandi classiche del Nord. Sceso di sella a fine 2003, per un paio di stagioni ha diretto dall’ammiraglia la Ceramiche Panaria, la storica squadra guidata da Bruno e Roberto Reverberi, prima di staccare definitivamente la spina col ciclismo professionistico. Abbiamo avuto il piacere di sentirlo e di farci raccontare alcuni aneddoti della sua brillante carriera.

Fabiano Fontanelli, 37 successi in 15 anni di carriera: qual è quello che ricordi con maggior soddisfazione?

Sicuramente il mio primo successo al Giro d’Italia: era l’undicesima tappa dell’edizione 1993, col traguardo a Dozza, nella “mia” Romagna, davanti ai miei tifosi. Vincere praticamente in casa è stata davvero una grande gioia.

E invece, ripercorrendo tutte quelle annate, qual è il rammarico più grande?

Credo di aver fatto una bella carriera, per cui non ho grossi rimpianti: certo, sarebbe stato bello vincere una delle grandi classiche, però quella…è roba da campioni!

È normale che il tuo nome, data la lunga militanza in Mercatone Uno, sia associato a quello di Pantani: che ricordo hai di lui?

Non credo che il mio nome sia sempre e solo associato a quello di Marco, anche se, avendo corso con lui negli ultimi cinque anni di carriera, un po’ ci sta: era proprio un bel personaggio, che aveva la sua forza nella semplicità, e credo fosse questo il motivo per cui piaceva così tanto agli appassionati.

In diverse occasioni ti abbiamo visto lanciato anche negli sprint di gruppo: non bisogna essere un po’ “pazzi” per fare una volata a 70 km/h?

Eh sì, bisogna essere un po’ pazzi, non c’è che dire. Io comunque ho fatto poche volate di gruppo, quasi tutte nei primi anni di carriera: mi rendevo conto di essere veloce, ma non così tanto da mettere in fila duecento corridori. Per questa ragione, ho gradualmente cambiato il mio modo di correre, cercando di portar via una fuga già a parecchi chilometri dal traguardo per regolare i compagni di avventura allo sprint finale, sfruttando la mia rapidità. Veloce sì, ma anche furbo!

Come valuti la tua esperienza da direttore sportivo con la Ceramiche Panaria? Come mai non è proseguita?

E’ stata indubbiamente una bella esperienza, ma alla fine avevo dei problemi di salute ed ero anche stanco di star sempre via da casa: dopo 15 anni in gruppo, non sarei riuscito a farne altrettanti in ammiraglia, era davvero un grande impegno. Oggi seguo dei dilettanti (fa parte della Commissione Tecnica federale dell’Emilia-Romagna, ndr), lavoro un po’ meno impegnativo ma che mi permette anche di stare al contatto con i giovani, e questo è gratificante.

Cosa pensi del problema-doping nel mondo del ciclismo?

È assolutamente fondamentale combattere il doping con la massima serietà, ma a volte ho l’impressione che nel ciclismo ne sia stata fatta quasi una questione “politica”, che preferisco non commentare perché esula dalle mie capacità di comprensione.

PASSARETTI: “CREDO ANCORA NELLA NAZIONALE”

Il wicket-keeper della PGS Lux si racconta, tra i ricordi di inizio carriera ed il sogno azzurro non ancora accantonato.

Gabriele Passaretti, romano, 29 anni, è senza dubbio il miglior wicket-keeper di scuola italiana emerso negli ultimi quindici anni. Dopo essere stato premiato nel 2004 come miglior giocatore del torneo, in occasione dei Campionati Europei division II, non ha però più vestito la maglia azzurra in partite ufficiali, chiuso dall’italo-sudafricano Nicholas Northcote. Oggi gioca nel campionato italiano di serie A nella PGS Lux e non accantona del tutto il sogno della Nazionale.

Gabriele, com’è che un romano si avvicina al cricket?

“Fino a 14 anni giocavo a calcio nelle giovanili della Lodigiani (oggi Atletico Roma, ndr). Poi, dopo un infortunio al menisco, ho cominciato a giocare meno e a stufarmi dell’ambiente. È stato Ivan Sarnelli, amico di famiglia e attuale compagno di squadra, ad avvicinarmi a questo bellissimo sport. Un’estate in Inghilterra sono finito quasi per caso in campo, senza capirci un granché: l’anno dopo ero già ad allenarmi nelle giovanili della Lazio”.

Parlaci un po’ dei tuoi primi anni nella Lazio.

“Gli allenatori erano Manlio De Amicis e  Punya “Kary” Kariwasam, due persone che hanno contribuito moltissimo alla mia crescita. Ricordo che fin dai primissimi giorni Kary  mi disse “Mettiti i guanti che tu devi fare il wicket-keeper”: nel cricket il wicket-keeper è il giocatore che, mentre la sua squadra lancia, sta alle spalle del battitore avversario, una sorta di ricevitore. Le soddisfazioni arrivarono subito e l’anno successivo, ancora ragazzetto, entrai in punta di piedi in prima squadra come ultimo battitore. Da undicesimo ho poi cominciato a risalire l’ordine di battuta, continuando a migliorare il mio gioco, anche perché ero in squadra con degli autentici fuoriclasse”.

Non c’è stata solo la Lazio, però, nella tua carriera?

“No, infatti, dopo gli anni alla Lazio ho passato un biennio alla Roma come capitano, seguito da due anni al Pianoro dove ho vinto lo scudetto e la coppa Italia. Dopo la parentesi Bolognese però sono tornato a Roma con il Gallicano e, a seguito del fallimento della società, sono approdato alla Pgs Lux”.

L’esperienza più bella?

“Senza dubbio l’Australia: nel 2002 andai per tre mesi in Tasmania, a Hobart. Ho fatto davvero un importante salto di qualità. La sveglia era alle 7: piscina palestra e dopo la pausa, ben cinque ore di allenamento”.

L’azzurro arrivò di conseguenza?

“No, avevo già fatto tante manifestazioni internazionali, anche come capitano, con le nazionali juniores e da due anni partecipavo ad alcune di quelle della nazionale maggiore. Era bellissimo perché ci permetteva di viaggiare in tutta la Gran Bretagna e in tutta Europa, anche se molte volte finivamo in zone davvero disperse. Tra l’altro anche Manlio con la Lazio organizzò molte volte dei tour inglesi in cui soggiornavamo in una Club House accanto ai nonni di Ivan e Dylan Sarinelli. In nazionale maggiore arrivai quando era ancora allenata dal grande Doug Ferguson: pur giocando alle spalle di un mostro sacro come Kamal Kariwasam, fratello di Kary, riuscivo comunque a ritagliarmi lo spazio in qualche partita”.

Arriviamo al 2004, il tuo anno magico.

“Mi convocarono per l’Europeo in Belgio come wicket-keeper titolare: giocai tutte le partite, vincemmo, fummo promossi e fui eletto miglior giocatore del torneo, riuscendo a fare dei record importanti per l’Italia e per un giocatore italiano. Tuttavi,a la bellezza del ricordo contrasta con l’amarezza di aver perso la maglia azzurra. L’arrivo degli oriundi mi ha chiuso le porte, però io alla nazionale ci credo e ci voglio credere. Purtroppo, migliorare il proprio gioco in Italia è molto difficile”.

Come concili la vita privata e il cricket?

“Non è sempre facile, c’è anche il lavoro in albergo e l’università, dove studio architettura. Poi, oltre agli allenamenti, mi dedico anche i giovani. Sostanzialmente è la passione che mi fa andare avanti, anche se il livello del campionato italiano di cricket non è così elevato. Poiché le partite in stagione sono poche, cerchiamo di organizzare anche altri incontri. Giocare a cricket è bellissimo però senza nazionale è un po’ più difficile trovare sempre gli stimoli”.

Passiamo al campionato. Come valuti la stagione della Pgs Lux?

“Essendo neopromossi e al primo anno in serie A, l’obiettivo era quello di non arrivare ultimi. Ce l’abbiamo fatta, la quota che ci eravamo prefissati era 100 punti e abbiamo chiuso con uno in più. Diciamo che in generale siamo soddisfatti”.

Nel 2010 chi sono i giocatori che ti hanno maggiormente impressionato?

“Dylan Sarnelli ha dimostrato di essere un buon lanciatore. Ha solo 19 anni e come fast bowler è forse il lanciatore di scuola italiana più forte in circolazione, anche se come tecnica ed esperienza c’è sempre uno come Edoardo Gallo che, pur allenandosi pochissimo, riesce comunque a esprimersi ad altissimi livelli”.

E fra gli avversari?

“Non lo so, non c’è un giocatore che gioca in Italia che ammiro particolarmente. I più forti sono sempre i soliti Hemanta Jayasena, Aklak Qureshi  o Crawley che è venuto quest’anno in Italia per poter giocare in nazionale”.