IL NONNO IN ROSA

La storia di Andrea Noè, il più anziano tra i corridori al Giro d’Italia.

Tra i 207 corridori in gara al Giro d’Italia 2011 attualmente in corso, il più anziano è Andrea Noè, 42 anni compiuti lo scorso 15 gennaio. Alle spalle una carriera onesta, quasi sempre al servizio dei più quotati compagni di squadra, ma con qualche grande soddisfazione che ha contribuito a farlo entrare, ancora di più, nel cuore degli appassionati.

Andrea Noè nasce a Magenta, cittadina alle porte di Milano, all’inizio del 1969. Nel suo caso, sarebbe sbagliato parlare di “una vita a pedali”, come si fa con molti atleti che iniziano a pedalare sin dalla tenera età: infatti, trascorre l’infanzia sui campi di pallavolo, innamorandosi della bicicletta solo da adolescente. E quando dice ai genitori che intende passare al ciclismo, questi, preoccupati, lo portano dal medico. Tutti gli dicono che è troppo magro per poter reggere le fatiche delle due ruote, ma Andrea, sin dalla prima gara disputata a 16 anni e mezzo dove finisce davanti al fratello che correva già da qualche anno, dimostra una costanza e una grinta fuori dal comune. La trafila nelle categorie giovanili è costellata di sudore ma anche di qualche successo, come la vittoria nella Bologna-Raticosa, impegnativa scalata al colle appenninico, che mette in mostra le sue doti di scalatore puro.

Nel 1993, all’età di 24 anni, arriva il debutto tra i professionisti, con la maglia della Eldor dove corre anche Marco Giovannetti, vincitore della Vuelta nel 1990: al servizio dell’esperto corridore toscano, Noè scopre il “suo” ciclismo, la sua vocazione, il suo modo di interpretare le corse. Non attaccare da lontano o fare volate (nelle quali più di una volta ha ammesso di essere assolutamente negato), non staccare i big in salita o tentare azioni da falco in discesa: ma lavorare per gli altri, tirare, faticare, sudare. Proteggere e servire, per usare il gergo poliziesco. E come molti altri “gregari”, termine che racchiude tutta l’umiltà, la leggenda e la professionalità del ruolo, si guadagna presto il soprannome di “Brontolo”, del corridore che, stando spesso in testa o in coda al gruppo principale, si trova a litigare con le telecamere della ripresa televisiva, a volte troppo vicine ai primi corridori. Una stagione dopo l’altra, una tirata dopo l’altra, questo corridore alto, castano e occhialuto si trova in squadra con tutti i più grandi atleti dell’ultimo quindicennio ciclistico: Tony Rominger, Johan Musseuw, Claudio Chiappucci, Michele Bartoli, Paolo Bettini, Mario Cipollini, Stefano Garzelli, Ivan Basso e Vincenzo Nibali. Dei big, perlomeno italiani, gli manca solo aver corso con Marco Pantani, quello che, come ricorda il milanese in una recente intervista, “quando scattava, noi ci giravamo dall’altra parte”, per non vedere il distacco clamoroso che infliggeva al gruppo in pochi metri. Tra una brontolata e una salita presa a tutta per il proprio capitano, la sua carriera ha anche un paio di perle degne dei più grandi campioni.

San Marino, 27 maggio 1998, Giro d’Italia: 173 km di fuga, scatti e controscatti con l’altro attaccante Chepe Gonzales sull’ascesa del Titano, una grinta scatenata a grandi scariche sui pedali per contenere il ritorno dei migliori. Alla fine, le mani al cielo, sette secondi sette e una cinquantina di metri di vantaggio su Marco Pantani, dopo una giornata tutta in testa. La gioia, poca, perché lui è un Brontolo di natura; la soddisfazione, tanta, perché una vittoria così vale una carriera, anche se il capitano Bartoli si arrabbia, perché credeva che quella tappa fosse disegnata apposta per lui. E due giorni dopo, a Schio, proprio quando Bartoli si rifà della delusione vincendo allo sprint su Guerini e Bettini, il milanese indossa la prima maglia rosa della sua vita. Nella frazione successiva, sotto la pioggia battente di Piancavallo, l’avventura da leader di Noè finirà, con un po’ di rammarico ma la consapevolezza di aver dato il massimo, come sempre.

Pur essendo un gregario, in salita è sempre tra gli ultimi a staccarsi, nonostante la fatica del lavoro di squadra: si spiega così il quarto posto nella classifica finale del Giro d’Italia 2000, addirittura davanti al capitano ufficiale della sua Mapei, ovvero il russo Pavel Tonkov. Lo stesso piazzamento nella graduatoria conclusiva viene ripetuto tre anni più tardi, nel secondo Giro vinto da Gilberto Simoni. Oltre a quei due giorni di gloria nel 1998 e a questi importanti risultati, la vita da gregario di Noè gli ha riservato anche il successo nella tappa di Leysin al Giro di Romandia nel 2000. Anno dopo anno, diventa uno dei corridori più esperti del gruppo, e non è raro sentire voci di ritiro sul suo conto. Ma anche da “vecchio”, lui c’è sempre, e a 38 anni inoltrati, nel 2007, indossa per altre due volte il simbolo del primato al Giro d’Italia, diventando così la maglia rosa meno giovane nella storia della nostra corsa nazionale.

Quando la Liquigas lo esclude all’ultimo dal Giro 2009, il quarantenne magentino sembra veramente prossimo ad appendere la bici al chiodo, ma tiene duro ancora un anno: tuttavia, la stagione 2010 in maglia Ceramica Flaminia non gli permette ancora di prendere parte alla corsa rosa, visto che la sua squadra non viene invitata per le vicende di Riccardo Riccò. Mollare? Mai. Si arriva a 42 anni, stagione 2011, e promette nuovamente che sarà l’ultima. Andrea detto “Brontolo” deve finire la propria avventura ciclistica al Giro d’Italia, e oggi, finalmente, è al via della cronosquadre di Venaria, al servizio del campione nazionale Giovanni Visconti. 600.000 chilometri pedalati nei 18 anni da professionista, pari a quattordici giri della Terra. Tutto in quel cognome, Noè, come il vegliardo della Bibbia che campò, si dice, 950 anni. In sella, una vita di fatica e di servizio. In casa, una vita tranquilla, come tutti gli antidivi che si rispettano, con la moglie Simona e la figlia Camilla. Con la cronometro di Milano del 29 maggio la sua epopea ciclistica, proprio nel giorno del compleanno della sua sposa, finirà definitivamente. Ma il mito dell’eterno e fedele Noè aleggerà sempre sul gruppo, come quello dei grandi campioni.

DOLCE MONTENEGRO

Alla scoperta del Budva, abbordabile avversario della Pro Recco in semifinale di Eurolega.

La fortuna, si sa, aiuta gli audaci. E la Pro Recco non poteva chiedere di meglio per la semifinale della Final Four di Eurolega, in programma il 3 e 4 giugno prossimi alla piscina del Foro Italico a Roma: i campioni italiani e continentali hanno pescato il Budva, la meno accreditata tra le formazioni montenegrine, già affrontata – e battuta –  sia all’andata che al ritorno nella fase eliminatoria a gironi. Occhio, però, a non abbassare troppo la guardia.

Fondato nel 1947 nell’omonima cittadina, uno dei centri del turismo balneare in Montenegro, il Vaterpolo Klub Budva è la meno blasonata delle grandi squadre della pallanuoto del minuscolo stato balcanico: in bacheca figurano solamente uno scudetto, risalente addirittura ai tempi dell’ex Jugoslavia (1994), ed una Coppa del Montenegro conquistata tre anni fa. In ambito europeo, il massimo risultato raggiunto dal Budva sono le semifinali dell’ormai defunta Coppa delle Coppe nel 1996 e, per due stagioni consecutive (2007 e 2008), della Coppa LEN.

Indipendentemente da quello che sarà l’esito della Final Four capitolina, si può dire che il Budva la sua coppa l’ha già vinta: delle quattro finaliste è, infatti, l’unica ad aver iniziato il cammino dal primo turno di qualificazione, anziché direttamente dai gironi eliminatori. Una squadra abituata a lottare ed a soffrire, quella guidata da Boris Krivokapić – per la prossima stagione ha già ricevuto il benservito, visti i pessimi risultati in patria -: in quattro occasioni ha vinto con appena un gol di scarto. Decisivo, ai fini della storica qualificazione, il 9-7 inflitto allo Jug Dubrovnik nei quarti di finale.

Sebbene, nella gerarchia della pallanuoto montenegrina, sia la terza squadra per ordine d’importanza dopo Primorac e Jadran, il Budva ha validissimi giocatori. Per la precisione, buona parte della nazionale che vinse gli Europei di Málaga nel 2008, come il mancino Damjan Danilović, i centroboa Vjekoslav Pašković e Nikola Vukčević (migliori marcatori della squadra in Eurolega con 17 e 15 reti a testa) ed i mastini Milan Tičić e Predrag Jokić, che in Italia ha indossato le calottine di Sori, Savona ed anche Recco, che ritroverà dunque da avversario in semifinale.  Assoluta garanzia tra i pali, dove si accomoderà Denis Šefik, serbo poi naturalizzato montenegrino. Da tenere d’occhio il ventunenne Justin Boyd, astro nascente della pallanuoto canadese, così come il difensore con licenza di segnare Ivan Žanetić (ben 12 gol nella cavalcata verso la finale) e l’arzillo vecchietto – 38 anni – Petar Trbojević. Curiosità: uno è croato, l’altro è serbo. Come dire: bando alle tensioni tra i vari popoli, quando c’è da vincere ci si può unire sotto la stessa bandiera.

LA TERRA TREMA, IL CALCIO SI FERMA

Annullate in Giappone per tutto il mese di marzo le partite della J.League a seguito del terribile terremoto.

Ventidue ragazzi corrono dietro ad un pallone da calcio, in Giappone, su un campo dalla morfologia bizzarra, quasi fosse una collina. La loro partita viene trasmessa in diretta tv nazionale, con un appassionato telecronista a raccontare le loro gesta. Una squadra, proveniente dalla città di Fujisawa, schiera i due più grandi talenti del calcio nipponico: il primo, Genzo Wakabayashi, è un portiere dalle doti straordinarie, pressoché imbattibile nei tiri dalla distanza; il secondo, Tsubasa Ozora, è un attaccante eclettico dalle maniere gentili e dal carisma innato. Il calcio è, prima di tutto, un gioco, un divertimento. E, sovente, ripete a compagni di squadra ed avversari: “Il pallone è tuo amico”.

Ma la realtà odierna del Giappone non è il quadro idilliaco e gioioso che Yoichi Takasahi aveva disegnato nel suo popolarissimo manga, poi divenuto un cartone animato di successo sbarcato in Italia con il nome di “Holly e Benji”. Il pallone è amico dei bambini, eppure ha smesso di rotolare dopo la tragedia che venerdì 11 marzo ha colpito il paese del Sol Levante. Due minuti e una scossa di terremoto di 9 gradi della scala Richter – cui fa seguito un terrificante tsunami – devasta un’intera nazione: oltre 10mila le vittime (stimate) del movimento tellurico, il quarto più forte di sempre nella storia dell’umanità. Un dramma che non risparmia nemmeno il calcio, la cui stagione è ripartita da appena una settimana.

Tutto inizia alle 14.56 di venerdì (in Italia sono solamente le 6.56): nell’Oceano Pacifico, 130 km a largo di Sendai, città che ospitò il ritiro della nazionale italiana di calcio ai Mondiali nippocoreani, la terra trema. Eccome se trema: 9 gradi della scala Richter. Due minuti di scosse, un’infinità per quanti vedono i mobili cadere improvvisamente al suolo e le pareti degli edifici oscillare. Ma l’apocalisse è appena iniziata. Segue una sessantina di scosse di assestamento a Tōkyō e nelle prefetture bagnate dal Pacifico. E, soprattutto, il terremoto genera uno tsunami da film catastrofista: le onde raggiungono ben presto la mostruosa altezza di dieci metri, sbriciolando gli edifici di alcune città della costa nord-orientale. I danni maggiori si registrano a Sendai, dove l’aeroporto viene invaso dalle acque e dove centinaia di cadaveri vengono ritrovati sulla spiaggia. La capitale, invece, va in black-out: i treni metropolitani si bloccano, l’energia elettrica inizia a scarseggiare, la rete telefonica isola la popolazione. E poi c’è la prefettura di Fukushima, dove crolla una diga e dove si verifica un’esplosione alla centrale nucleare dell’omonima città: qualcuno paventa il rischio di pioggia radioattiva. Di pioggia sporca, come il titolo del film che Ridley Scott girò – guarda caso – ad Ōsaka, in un Giappone ormai invaso dal consumismo di massa dell’America degli yuppies. Ma c’è anche chi cerca di sgombrare il campo dai falsi allarmismi e di tranquillizzare l’opinione pubblica, perché la situazione, in fondo, è sotto controllo.

Anche il mondo dello sport rimane bruscamente coinvolto e con un breve comunicato la JFA, la Federcalcio nipponica, dirama la notizia che tutte le partite della J. League della seconda giornata, in programma nel fine-settimana, sono annullate. E non è un semplice atto doveroso verso il proprio paese che piange la morte dei suoi figli: alcune squadre sono diventate vere e proprie vittime del terremoto. Come il Vegalta Sendai, squadra del massimo campionato in cui gioca l’ex sampdoriano e messinese Atsushi Yanagisawa: il presidente Shirahata Yoichi comunica a Kazumi Ohigashi, numero della Federcalcio, che lo stadio e le strutture per gli allenamenti sono andati distrutti. I giocatori stranieri – i brasiliani Marquinhos e Max ed i sudcoreani Cho Byung-Kuk e Park Joo-Sung – tornano a casa, i giapponesi provenienti da altre regioni li seguono e raggiungono i rispettivi familiari. Nessuno vuol restare a Sendai.

Passano tre giorni: i morti non accennano a diminuire. Tutt’altro. È una strage. La JFA annuncia un’altra notizia: tutte le partite in programma nell’intero mese di marzo sono cancellate e rinviate a data da destinarsi. Probabilmente a luglio, quando la nazionale di Alberto Zaccheroni – pure lui rientrato in Italia dopo aver toccato con mano i danni del terremoto nel suo appartamento di Tōkyō – sarà impegnata nella Coppa America. Anche la AFC, il massimo organo calcistico continentale, annulla tutte le partite della Champions League asiatica previste sul suolo giapponese: tra queste c’è anche l’attesa sfida tra il Kashima Antlers, la più titolata tra le squadre della J.League, e gli australiani del Sydney FC. Kashima è una città medio-piccola inglobata nella Grande area della capitale: al pari di molte altre, non è rimasta estranea ai movimenti della crosta terrestre nell’Oceano Pacifico. Anche il primo turno della Yamazaki Nabisco Cup, la coppa nazionale, viene rinviato: il calcio d’inizio era previsto per domani. E adesso sono in forte dubbio anche le già pianificate amichevoli di fine mese contro Montenegro e Nuova Zelanda, in programma a Shizuoka e a Tōkyō.

Ma non è solo il calcio a bloccarsi: nella giornata di venerdì, a Yokohama, viene sospesa al settimo inning la sfida di baseball tra Bay Stars e Yakult Swallows. Daisuke Miura, stella della squadra di casa, ed alcuni compagni di squadra non riescono a rientrare a casa, tanto è il traffico che ingorga le strade della Grande area di Tōkyō: trascorrono la notte allo stadio. A Yokohama, poi, identica sorte tocca ad una competizione di golf riservata alle donne: la Tire PRGR Ladies Cup, iniziata il giorno dell’apocalisse, si ferma subito. La prefettura di Fukushima, quella dove si è verificata l’esplosione nella centrale nucleare, avrebbe dovuto ospitare le finali scudetto dell’Asia League di hockey su ghiaccio: non se ne fa di niente. Saltano anche boxe, corse automobilistiche, pallacanestro, persino la maratona internazionale femminile di Nagoya: l’ultimo precedente risale al gennaio 1995, quando la terra si aprì a Kōbe e inghiottì oltre 6mila vittime. All’epoca la J.League, nata solamente due anni prima, non si fermò: il Vissel, squadra della città colpita dal terremoto, disputò qualche mese più tardi un’amichevole a scopo benefico a Seattle – prima squadra nipponica a giocare in territorio americano – e a Tōkyō andò in scena un’altra partita, tra due selezioni miste, per ricordare le vittime di Kōbe. C’è, tuttavia, un’inquietante analogia: nell’autunno del 1923 il campionato nazionale di calcio, riservato a scuole ed università e giunto appena alla sua terza stagione, viene annullato e rinviato al febbraio successivo. Alla base della decisione il grande terremoto del Kantō che il 1° settembre fece crollare il suolo nella capitale e nelle prefetture di Chiba, Kanagawa e Shizuoka: le vittime stimate furono 142mila. La scossa più devastante nella storia del Giappone. Fino allo scorso venerdì.

IL COMMODORO BAINIMARAMA, GOLPISTA OVALE

Uno scandalo di corruzione e una crisi politica stanno mettendo a rischio la partecipazione alla Coppa del Mondo di rugby di Namibia e Figi.

Si incontreranno il 10 settembre, a Rotorua, in quella che sarà la terza partita della Coppa del Mondo di rugby 2011 in Nuova Zelanda. Si tratta delle nazionali di rugby di Figi e Namibia che, dopo l’incontro di Rotorua, dovranno affrontare nel girone D anche Samoa, Galles e i campioni uscenti del Sudafrica. Figi e Namibia, però, rischiano di vedere la propria partecipazione saltare nei prossimi mesi.

La Namibia, nonostante le difficoltà e la acuìta concorrenza continentale, è riuscita a qualificarsi per la quarta volta consecutiva al Mondiale superando le insidie poste da Tunisia e Costa d’Avorio. La Namibian Rugby Union però, secondo quanto riportano Planet Rugby e Rugby Week, sarebbe accusata di forte corruzione al suo interno e di non pagare i propri giocatori. Accuse che hanno portato in dicembre alla sospensione del dirigente federale Sakkie Mouton e al commissariamento della NRU, ora controllata interamente dall’International Rugby Board e affidata alle cure dell’amministratore sudafricano Steph Nel.

Un terremoto che desta preoccupazioni a pochi mesi dalla RWC 2011. Mark Egan, capo del dipartimento di sviluppo dell’IRB, dopo aver fatto partire un’inchiesta sui debiti della federazione (ammontanti, parrebbe, a oltre mezzo milione di dollari), ha commentato: “è necessario che la NRU sia ben organizzata. Stiamo chiedendo a una piccola federazione con risorse limitate di competere contro le migliori squadre del mondo. Ci sono problemi finanziari e faremo di tutto per monitorare attentamente le risorse. L’IRB potrà dare una mano attraverso finanziamenti aggiuntivi, che però sono limitati. Speriamo quindi che il governo e il settore privato del paese aiutino la squadra nazionale in quest’anno così importante”. Meno allarmato il tono di Johan Diergaart, allenatore del XV africano: “In questo momento siamo in preparazione per la Coppa del Mondo. Alcuni giocatori sentono un po’ di incertezza, ma non penso che la cosa possa influenzarli”.

Non è la prima volta che, in concomitanza di una Coppa del Mondo, la Namibia si trova in gravi difficoltà. Nel 2003 emerse uno scandalo riguardante compensi non pagati ai giocatori e dirottati invece nelle tasche dei dirigenti, mentre quattro anni più tardi alcune irregolarità nella vendita dei biglietti portarono alla rimozione dall’incarico del presidente federale Dirk Conradie e di tutto il suo staff.

Alle Isole Figi il rugby è uno sport nazionale vissuto con una devozione quasi religiosa. Vera potenza mondiale nella variante del Sevens, la nazionale figiana resta una delle poche minnows in grado di sovvertire gli equilibri di potere del rugby internazionale: sia all’edizione inaugurale della Coppa del Mondo nel 1987, sia nell’ultima edizione finora disputata (Francia 2007) i figiani riuscirono ad accedere clamorosamente ai quarti di finale, sgambettando rispettivamente l’Argentina di Hugo Porta e il Galles. In entrambe le occasioni l’arcipelago pacifico era reduce da pochi mesi da un colpo di stato. Il 2011 invece si è aperto per il rugby figiano con quello che, secondo la Fiji Rugby Union, sarebbe un golpe ordito dalla giunta militare (al potere dal 2006) ai danni dei vertici della federazione e con l’apertura di una crisi che potrebbe mettere in pericolo la partecipazione della squadra nazionale ai Mondiali neozelandesi programmati per settembre.

A inizio gennaio la FRU è stata messa sotto inchiesta dalla Commissione per il Commercio figiana per alcune irregolarità concernenti l’organizzazione di una lotteria finalizzata a finanziare la campagna mondiale: per poter vendere più biglietti, la federazione avrebbe scontato il prezzo dei tagliandi, operazione contestata dalla Commissione, che ha chiesto una multa di 125 mila dollari figiani (l’equivalente di 82 mila dollari USA). Un’altra delle accuse mosse ai membri della FRU è quella di aver usato parte dei soldi guadagnati dalla sottoscrizione per assistere ad alcuni tornei di rugby a sette a Hong Kong e in Regno Unito. Piccata la reazione del presidente della federazione Bill Gavoka: “Sono scioccato dalle direttive emesse dalla Commissione, visto che abbiamo rispettato tutti i termini di legge. La licenza con cui è stata permessa la lotteria non ci proibiva di scontare i biglietti, e noi abbiamo solo cercato di massimizzare le vendite per il bene della nazionale”.

La crisi vera e propria è cominciata però l’11 gennaio, con la richiesta da parte del ministro dello sport figiano Filipe Bole di dimissioni da parte dei dirigenti federali, posti sotto la minaccia di veder congelati, in caso di rifiuto, i fondi destinati alla partecipazione della nazionale al Mondiale. In tutta risposta Gavoka ha rinunciato all’incarico di presidente, senza però abbandonare il suo posto nel consiglio federale: “Nessun membro del consiglio può dimettersi o essere sostituito prima del meeting annuale della federazione in aprile”. Una presa di posizione priva di sostegno, vista l’offerta di dimissioni da parte dell’esecutivo e la decisione di deporre Gavoka sostituendolo con il presidente ad interim Rafaele Kasibulu, con la promessa di nuovi finanziamenti governativi per l’entità di tre milioni di dollari figiani (un milione e mezzo in valuta statunitense).

Un golpe sportivo che non ha mancato di allertare l’International Board, preoccupata dall’eccessiva ingerenza del governo militare delle Isole Figi nella vita della federazione al punto da lanciare un ultimatum: “ogni contravvenzione rispetto allo statuto della federazione potrebbe costare alle Figi l’espulsione dall’IRB e l’esclusione dai circuiti del rugby internazionale”, ammonendo la giunta che “alla luce delle circostanze, non c’è motivo perché venga cambiato l’esecutivo della FRU” e minacciando di commissariare la gestione del rugby isolano. Secondo il dirigente IRB Mike Miller, giunto nell’arcipelago il primo di febbraio per negoziare una soluzione alla crisi, “l’IRB nutre preoccupazioni che la situazione corrente possa creare instabilità e avere un impatto negativo sulla gestione della federazione, sui programmi di sviluppo ed eccellenza finanziati dall’IRB e sulla preparazione alla Coppa del Mondo”. L’ultimatum dell’IRB avrebbe incoraggiato i membri del consiglio federale a rifiutare le dimissioni del capo dell’esecutivo della FRU Keni Dakuidreketi.

Secondo la FRU l’obbiettivo della giunta militare sarebbe quello di designare come nuovo presidente federale il commodoro Frank Bainimarama, capo delle forze armate e primo ministro, affiancandogli come vicepresidente il cognato Francis Kean, comandante della Marina con alle spalle una detenzione per omicidio e dirigente della franchigia di Suva, isola principale dell’arcipelago. Bainimarama, grande entusiasta della palla ovale, prese il potere nel 2006, secondo alcune voci ritardando la messa in atto del piano golpista per permettere lo svolgimento dell’annuale partita tra le squadre della polizia e dell’esercito. Da allora non ha mai mantenuto la promessa di indire elezioni democratiche, provocando l’espulsione delle Figi dal Commonwealth e dal Forum Pacifico. Secondo il New Zealand Herald Murray McCully, ministro per la Coppa del Mondo, per le attività sportive e ricreative e per gli affari esteri nel governo neozelandese, avrebbe dichiarato che Bainimarama e Kean, personae non gratae nella terra della Grande Nuvola Bianca, non saranno ammessi in territorio neozelandese durante la manifestazione nemmeno se dovessero presentarsi in quanto membri della FRU.

AL VIA IL TRI NATIONS, CONVOCAZIONI A CONFRONTO – SECONDA PARTE: MEDIANA E TREQUARTI

Continua l’analisi comparativa per reparti delle squadre del Tri Nations: sotto esame i trequarti

Continua il nostro viaggio nelle convocazioni del Tri Nations che comincerà domani pomeriggio all’Eden Park di Auckland con la sfida tra gli All Blacks padroni di casa e il Sudafrica, campione uscente, campione del Mondo e grande favorita di quest’edizione. Mentre Wayne Smith, assistente CT della Nuova Zelanda, ha dichiarato che, dopo le tre sconfitte patite contro gli Springboks nella passata edizione, gli All Blacks non possono più considerarsi in vetta, Peter de Villiers ha sostenuto che il passato non gli importa, e che appoggiarsi sugli allori passati sarebbe un grosso rischio per il Sudafrica.

Le formazioni riflettono tutto quel che ci si attendeva: nessuna delle due squadre si risparmia, mettendo in campo la propria migliore formazione per imporre il proprio predominio fin dalla prima partita. Un confronto interessantissimo: se Donnelly e Thord dovranno faticare per arginare la seconda linea sudafricana con Matfield e Botha e la promessa della prima linea All Black Owen Franks dovrà tenere alta la testa contro una macchina da demolizione come Steenkamp, gli All Blacks hanno dalla loro un estremo come Muliaina contro Kirchner che ancora non ha dato risposte all’interrogativo sudafricano sulla maglia numero 15. Alle ali entrambe le squadre hanno corridori straordinari come Habana, de Villiers e Rokocoko, mentre nella cerniera dei centri neozelandesi torna Nonu, bloccato due mesi da un infortunio.

La vera sfida, però, è al cuore del gioco: terze linee e mediani. Januarie contro Cowan si prospetta un testa a testa rovente, fatto di tensione, provocazioni e nervosismo. A aggiungere scintille sarà poi il valore dei due reparti di terza linea: l’aggressività brada di Burger e il gioco al limite del regolamento di McCaw potrebbero essere gli ingredienti di un incontro esplosivo, mentre Kaino e Louw avranno l’incombenza di mettere la maggior pressione possibile per spegnere rispettivamente Morné Steyn e Dan Carter, due macchine di punti e gioco che, una volta avviate, è difficile arginare.

MEDIANA

SUDAFRICA NUOVA ZELANDA AUSTRALIA
Ricky Januarie (Stormers) Jimmy Cowan (Highlanders) Luke Burgess (Waratahs)
Ruan Pienaar (Sharks) Piri Weepu (Hurricanes) Will Genia (Reds)
Butch James (Bath – ENG) Dan Carter (Crusaders) Berrick Barnes (Waratahs)
Morné Steyn (Bulls) Aaron Cruden (Hurricanes) Quade Cooper (Reds)

Al Sudafrica mancherà tantissimo: Fourie du Preez è probabilmente il miglior mediano di mischia degli ultimi tre anni, ma salterà il torneo per infortunio. A sostituirlo Peter de Villiers ha chiamato quello che il francese Parra ha definito “un pitbull”: Ricky Januarie degli Stormers, pur non riuscendo a dare il ritmo impartito da du Preez, è un ottimo strumento per il gioco di pressione sudafricano. Dietro di lui, all’apertura, c’è Morné Steyn, macchina da punti e mete che sembra chiudere qualsiasi prospettiva di utilizzo in mediana per Butch James. Per contro, James rappresenta una buona opzione anche come primo centro, in veste di secondo playmaker della squadra. La scelta migliore per la maglia numero nove è probabilmente quella degli All Blacks, che possono utilizzare senza problemi Cowan e Weepu, giocatori dotati entrambi di buona esperienza internazionale, sebbene il primo soffra eccessivamente la pressione. Dan Carter è considerato una delle migliori aperture al mondo, anche se probabilmente anche un bambino potrebbe giocare con la sua confidenza e sapienza potendo contare sul sostegno e sulla protezione di un pacchetto di mischia come quello neozelandese. Gli australiani invece, oltre a Genia, hanno la possibilità di far crescere due aperture giovani e promettenti, su cui dovranno tentare di imperniare la propria squadra per la Coppa del Mondo del prossimo anno: Quade Cooper è l’uomo del momento, ma ci si aspetta un buon utilizzo anche per Berrick Barnes. Entrambi però non godono del supporto necessario e dovranno farsi strada attraverso la pressione delle terze linee più aggressive del pianeta.

CENTRI

SUDAFRICA NUOVA ZELANDA AUSTRALIA
Juan de Jongh (Stormers) Richard Kahui (Chiefs) Anthony Faingaa (Reds)
Jaque Fourie (Stormers) Ma’a Nonu (Hurricanes) Matt Giteau (Brumbies)
Wynand Olivier (Bulls) Conrad Smith (Hurricanes) Rob Horne (Waratahs)
Benson Stanley (Blues)

Quattro convocati per la Nuova Zelanda, che può fare affidamento sull’esperienza di Ma’a Nonu e Conrad Smith per far crescere nel frattempo Kahui e Stanley. Il Sudafrica sembra invece focalizzato sulla coppa formata da Wynand Olivier al 12 e Jaque Fourie al 13, ma può contare su più opzioni rispetto agli All Blacks: oltre all’emergente de Jongh, infatti, ci sono Butch James, convocato come apertura, ma utilizzabile col numero 12 come secondo playmaker, e Jean de Villiers che, utilizzato fuori ruolo all’ala, è un secondo centro dal passo devastante. L’Australia può contare sull’esperienza di un solo uomo: Matt Giteau, l’utility back per eccellenza del rugby attuale. Mediano di mischia, apertura, primo centro, eventualmente estremo: Giteau può giocare dappertutto e dovrà reggere da solo il peso della cerniera di centri australiana, aiutando gli inesperti Faingaa e Horne.

TRIANGOLO ARRETRATO

SUDAFRICA NUOVA ZELANDA AUSTRALIA
Gio Aplon (Stormers) Cory Jane (Hurricanes) Adam Ashley-Cooper (Brumbies)
Jean de Villiers (Munster – IRL) Rene Ranger (Blues) Peter Hynes (Reds)
Bryan Habana (Stormers) Joe Rokocoko (Blues) Digby Ioane (Reds)
François Hougaard (Bulls) Israel Dagg (Highlanders) Kurtley Beale (Waratahs)
Zane Kirchner (Bulls) Mils Muliaina (Chiefs) James O’Connor (Western Force)

Quanta corsa: il Sudafrica si affida alle sue frecce più veloci per il triangolo arretrato, convocando Bryan Habana, esempio perfetto dell’ala moderna e completa, Jean de Villiers e Gio Aplon, da alcuni considerato l’erede di Habana. Le due ali, insomma, non sono una preoccupazione per gli Springboks: il vero buco della formazione verde-oro è rappresentato dall’estremo. Zane Kirchner è l’uomo designato al 15, ma ancora non sta convincendo, e l’esperimento Aplon non sembra destinato ad avere seguito. In questa situazione, l’esclusione di François Steyn e le polemiche in atto tra lui e il CT Peter de Villiers pesano tantissimo sui sudafricani: riusciranno gli Springboks a recuperare re Frans entro la Coppa del Mondo? I più solidi, in quella posizione, sono i neozelandesi: Malili Mils Muliaina è il miglior estremo tra le tre squadre. Al suo fianco verranno utilizzati come prima scelta Joe Rokocoko e Cory Jane, mentre Dagg e Ranger tenteranno di fare esperienza il più possibile. Con Adam Ashley-Cooper e James O’Connor, l’Australia può fare veramente male a largo: una qualità, quella degli Wallabies, che però rischia di venire soffocata dalla difficoltà di ottenere palloni puliti da utilizzare. Se solo la trequarti australiana potesse contare su un pacchetto di mischia all’altezza della situazione, potrebbe creare seri problemi alle altre contendenti.

Damiano Benzoni