IL FUTURO NERAZZURRO SI FA SEMPRE PIU’ ROSEO

Difesa ferrea, centrocampo eclettico, attacco devastante. La ricetta della vittoria nerazzurra al Torneo di Viareggio

InterAlla fine ce l’hanno fatta. Pea ed i suoi ragazzi hanno saputo regalare all’Inter la sesta imposizione viareggina della propria storia, al termine di un Torneo giocato su livelli realmente molto alti. Difesa ferrea, centrocampo eclettico, attacco devastante. Ecco la ricetta della vittoria nerazzurra.

E quando al termine di una competizione ti ritrovi ad avere in rosa il miglior giocatore nonché capocannoniere (per quanto a parimerito con Giuseppe De Luca, trascinatore del Varese dei miracoli di Devis Mangia) ed il miglior portiere della stessa qualcosa – e di piuttosto importante – significa. Al solito sui premi individuali si potrebbe stare a discutere molto. In questa occasione forse meno rispetto a quello riguardante gli estremi difensori, con Bardi che è stato assolutamente maiuscolo, trascinante e decisivo, più rispetto a quello riguardante il migliore giocatore in assoluto, laddove diversi sono stati i ragazzi sicuramente meritevoli.

Inter che torna quindi a vincere un Torneo di Viareggio e lo fa con grandissima autorità. Prendiamo quindi la formazione scesa in campo nella finalissima disputata contro l’ottima Fiorentina di Renato Buso ed analizziamola, per scoprire un pochino meglio i segreti del meccanismo costruito ed oliato da Fulvio Pea. Beneamata schieratasi quindi con il solito 4-3-3 in cui spiccava però subito una presenza per così dire anomala: il giovane Marco Davide Faraoni, terzino destro sino alla scorsa stagione stella delle giovanili laziali, è infatti schierato ibridamente come ala offensiva in fase di possesso e quarto di centrocampo, all’occorrenza, in fase di non possesso. E proprio questa sarà una delle chiavi di volta della partita.

Ma andiamo con ordine. In porta confermatissimo, al solito, uno dei giovani portieri italiani che stanno attualmente meglio cavalcando la cresta dell’onda, quel Francesco Bardi prelevato solo la scorsa estate dal Livorno (guarda a caso la società la cui casa è proprio lo stadio in cui si è disputata la finalissima di quest’ultima Coppa Carnevale) cui ho personalmente già visto parare, nelle poche volte che ho avuto il piacere di vederlo giocare, ben quattro rigori. Il primo risale ad ormai un anno e mezzo fa circa quando il nostro, impegnato con l’under 17 dei classe ’92 al Mondiale nigeriano di categoria, venne chiamato in causa da Pasquale Salerno per sostituire il titolarissimo Mattia Perin, indisponibile in vista della gara da disputarsi contro gli Stati Uniti. Sceso in campo apparentemente senza grandi patemi il giovane Bardi disputerà una partita molto autoritaria, andando a contribuire fattivamente al passaggio del turno Azzurro in particolar modo con il rigore neutralizzato al cospetto di Jack McInerney, stella della formazione a stelle e strisce (ed attualmente in forza ai Philadelphia Union, squadra affiliata all’MLS). Il secondo l’ha invece neutralizzato nel corso dei quarti di finale di questo Viareggio al cospetto di uno dei migliori rigoristi al mondo della sua leva, quel Diego Polenta che, guarda caso, il Mondiale under 17 di cui sopra lo disputò, e da capitano, con la maglia Celeste dell’Uruguay. Il terzo ed il quarto, infine, li ha parati nel corso della semifinale contro l’Atalanta, quando proprio grazie a questi due interventi ha trascinato i suoi in finale. Grandi qualità per questo ragazzo, che proprio nell’opporsi ai calci piazzati dagli undici metri sembra avere una marcia in più.

A difesa dell’ultimo baluardo Nerazzurro, quindi, una linea a quattro ben assortita e, soprattutto, molto compatta. Non deve stupire, infatti, il fatto che questa squadra abbia subito, nel corso dell’intero Torneo, una sola rete. Parliamo del resto di giocatori di qualità che essendo tatticamente molto ben preparati hanno saputo ergere una vera e propria linea Maginot a difesa del fortino. Perno del reparto è stato indubbiamente il figlio d’arte Simone Benedetti: acquistato in comproprietà nel corso dell’ultima estate dal Torino il centrale scuola Granata ha mostrato doti caratteriali, d’eleganza e d’efficacia in marcatura che ne fanno un prospetto realmente interessante, fors’anche in ottica prima squadra. Sempre sicuro in ogni intervento, grande senso dell’anticipo, Simone ha mostrato una tranquillità fuori dal comune ed un carisma notevole. Proprio grazie a questo è stato quindi in grado di guidare al meglio la quasi perfetta retroguardia Nerazzurra.

Molto bene, comunque, hanno fatto anche entrambi i terzini: Felice Natalino e Cristiano Biraghi. Sempre attentissimi in fase difensiva, infatti, non hanno disdegnato nemmeno ad accompagnare i propri compagni in fase di propulsione, mantenendo comunque sempre e costantemente l’attenzione altissima e indirizzata rispetto ai propri compiti difensivi. Proprio il loro apporto è stato quindi fondamentale alla realizzazione di una solidità difensiva quasi perfetta. A livello personale, poi, da sottolineare come alla solita grandissima classe, dovuta ad una tecnica fuori dal comune (quantomeno per un difensore), il lamentino Natalino ha saputo abbinare anche una concentrazione assoluta, aspetto in cui in passato ha più volte difettato. La via intrapresa, insomma, è quella giusta. Un plauso va poi riservato anche al suo alter ego, Biraghi, che è stato perfetto praticamente in ogni chiusura. A completare il reparto difensivo è stato quindi il ceko Marek Kysela, diciottenne centrale difensivo nativo di Rokycany che grazie ai miglioramenti compiuti da dopo il suo sbarco a Milano si è dimostrato essere lo scudiero perfetto per Benedetti.

Il centrocampo, poi, è stato schierato fondamentalmente a tre, con una configurazione che ricorda un po’, per tornare su di un tema toccato in precedenza, quello che approntò Salerno proprio in quei Mondiali giovanili nigeriani del 2009. Esattamente come allora, infatti, Pea sceglie di mettere un regista dai piedi buoni come centrale e due mezz’ali con caratteristiche ben precise. Vediamole. Il mediano davanti alla difesa con compiti di impostazioni è, guarda caso, lo stesso: Lorenzo Crisetig, diciassettenne talento ormai da anni tra i più stimati tra gli addetti ai lavori, considerato, per così dire, il nuovo Pirlo di questa ultima covata Azzurra. Tecnica sopraffina, intelligenza tattica inusuale in un ragazzo così giovane e capacità di dettare i tempi propria dei grandi registi. Davvero un po’ tutto ciò che serve a chi si disimpegna in questo ruolo per ben comportarsi, facendo girare attorno a sé tutta la propria squadra. Le due mezz’ali, invece, sono state Romanò e Jirasek, rispettivamente a destra e a sinistra.

Perché quel paragone con l’under 17 del 2009? Semplice: da una parte un Romanò che per certi versi mi ha ricordato molto il De Vitis di quella nazionale. Mezz’ala tuttofare capace davvero di coprire una porzione di campo enorme garantendo quantità ma anche discreta qualità. Ad un’ottima capacità in fase di possesso, laddove ha aiutato molto i compagni a mantenere il giusto equilibrio di squadra (del resto per subire una sola rete deve esserci una fase difensiva globale impostata al meglio, il merito non può certo essere esclusivamente della retroguardia), ha difatti abbinato una buona continuità in fase propositiva e conclusiva. In più di un’occasione è stato lesto nel farsi trovare a ridosso dell’area di rigore, pronto a dare un’opzione in più al portatore di palla quanto a rifinire per un compagno (come nel caso della prima rete segnata da Dell’Agnello nella finale con la Fiorentina). Sulla sinistra, invece, ha agito Jirasek che ha ricordato un po’, tatticamente, il gioco di quel Fossati grande protagonista con la maglia dell’under 17 Azzurra due anni or sono. La qualità globale dell’ex Sparta Praga non è certo paragonabile a quella della stellina attualmente in forza alla Primavera Rossonera, ma nei movimenti in campo il buon Milan mi ha ricordato proprio il lavoro svolto da Marco Ezio allora.

Davanti, poi, un tridente atipico. Sulla destra, come detto, ha difatti giocato, sempre limitandoci alla finalissima, Marco Davide Faraoni, di professione terzino. Dotato di una buona propulsione offensiva, però, è stato sfruttato da Pea, come precedentemente già successo anche in precedenza, proprio da ala d’attacco. Ed è stata questa una delle chiavi di volta del match: il suo apporto in fase di non possesso è stato infatti superiore a quello che sarebbe potuto derivare dall’utilizzo, ad esempio, di un giocatore come Thiam. In alcuni casi, addirittura, il centrocampo interista si è potuto schierare a quattro, proprio con l’arretramento dell’ex Lazio sulla linea dei centrocampisti e con lo slittamento sulla fascia opposta di Jirasek. Schema camaleontico, potremmo dire, in quanto poi in fase di possesso il buon Marco ha fatto realmente l’ala, producendo per altro anche diversi spunti interessanti con i quali ha confermato le proprie capacità propulsive.

Tridente, quello Nerazzurro, completato da capitan Alibec e bomber Dell’Agnello. Il primo ha agito largo sulla sinistra, mettendo in mostra un atletismo importante ed una tecnica più che discreta. Per buona parte del primo tempo proprio l’abbinamento di queste due importanti caratteristiche l’hanno portato ad essere una vera e propria spina nel fianco della difesa Viola e non è un caso se proprio dalla sua parte è nata l’azione dell’1 a 0. Il secondo, invece, ha stazionato, al solito, al centro dell’attacco, come unico vero e proprio punto di riferimento della propria squadra. Centravanti forte fisicamente, Dell’Agnello, ma dalle caratteristiche tutto sommato atipiche. In diverse occasioni lo si è potuto infatti notare svariare lungo un po’ tutto il fronte dell’attacco, per tenere quanto più possibile impegnata la retroguardia avversaria. In molte movenze, poi, ricorda quel Marco Borriello che, per altro, par essere il giocatore cui si ispira. Non un vero e proprio centravanti boa, insomma. Ma comunque punta che, e lo ha dimostrato ampiamente, sa rendersi molto pericolosa in fase realizzativa.

Davvero una bella squadra, in definitiva, quest’Inter di Pea. E chissà che in un prossimo futuro qualcuno di questi ragazzi non possa tornare utile anche per la prima squadra…

IL RIVER E’ TORNATO

E’ dal Torneo Clausura del 2008 che il River Plate non riesce ad imporsi in campionato. Quest’anno, però, le cose sembra possano cambiare

E’ dal Torneo Clausura del 2008 che il River Plate non riesce ad imporsi in campionato, collezionando anzi prestazioni certo non all’altezza della propria fama. Quest’anno, però, le cose sembra possano cambiare. La squadra allenata da Juan José Lopez pare infatti aver trovato una propria quadratura in grado di permettere loro di competere per la vittoria del campionato sino all’ultima giornata.  Vediamo allora come è costruita la macchina riverplatense, ingranaggio per ingranaggio.

Partiamo dal guardiano dei pali, quindi. Che in queste prime tre uscite del Clausura 2011 è stato il giovane Leandro Chichizola, quasi ventunenne estremo difensore argentino che ha sfruttato l’infortunio dell’ex laziale Carrizo per sorpassare Daniel “El Indio” Vega nelle preferenze del proprio mister guadagnando così la maglia da portiere titolare. Ripagando per altro la fiducia del proprio tecnico: nelle prime tre uscite stagionali, infatti, il buon Chichizola non ha subito alcuna rete.

La difesa, invece, si schiera a tre, in linea. In Argentina, infatti, questo tipo di soluzione tattica è piuttosto apprezzata. Ecco quindi che J.J. Lopez appronta proprio una retroguardia di questo tipo, imperniata sulle prestazioni di giocatori come Jonathan Maidana, Adalberto Roman ed Alexis Ferrero. Difese di questo tipo presuppongono una buona copertura del centrocampo, specialmente sulle fasce. Ecco perché proprio qui vengono schierati ragazzi come Paulo Ferrari e Juan Diaz, ovvero sia, fondamentalmente, dei terzini adattati a fare i fluidificanti tra difesa e centrocampo. Insomma… da questo punto di vista l’approccio difensivo del River Plate ricorda un po’ quello di quell’Udinese di cui vi parlai qualche settimana fa. Ed è una fase difensiva che, ripeto, pare davvero funzionare: gli attacchi di Tigre, Huracan ed Independiente si sono infatti dovuti arrendere all’evidenza dei fatti, non riuscendo a bucare nemmeno una volta l’estremo difensore riverplatense.

La solidità difensiva è comunque garantita anche dagli interni di centrocampo, Acevedo ed Almeyda. Due giocatori che con il loro lavoro oscuro fungono infatti da discreti frangiflutti davanti alla linea a tre di difesa. Il secondo dei due, per altro, immagino lo ricorderete un po’ tutti: vecchia conoscenza del nostro calcio, il buon Matias sta trovando una seconda giovinezza con la maglia dei Millionarios, squadra di cui è per altro il capitano.

L’interesse maggiore relativamente a questa squadra sorge comunque rispetto all’attacco. Anzi, specificatamente rispetto alla trequarti. E’ qui, difatti, che giostrano le due stelline più luminose del firmamento riverplatense: Erik Lamela e Manuel Lanzini. Del primo si è già parlato tantissimo: su di lui piombò infatti il Milan, nel passato, che pareva volerlo acquistare. Classe 92 Lamela è considerato uno dei talenti più puri cresciuti tra le ultime generazioni argentine. Il secondo, invece, è un classe 93 di chiare origini italiane su cui ancora non sembrano essere piombate le grandi d’Europa, che però di certo lo staranno osservando con attenzione. Proprio questi due ragazzini, schierati l’uno al fianco dell’altro a supporto di una sola punta, sono i giocatori deputati a costruire e rifinire il gioco dei Millionarios. Qualora continuassero a mantenere la maglia da titolare sino al termine della stagione ed il River dovesse terminare la stessa in maniera trionfale i due sarebbero già proiettati nell’Olimpo del calcio argentino. Davanti, infine, nell’attesa di tornare a vedere un altro giovanissimo come Funes Mori si sta disimpegnando, come unica punta, l’ex Estudiantes e Betis Siviglia Mariano Pavone.

Davvero interessantissima, nel complesso, questa squadra. E da amante del calcio a tutto tondo mi permetto di darvi un consiglio: quando dovesse capitarvi investite un paio d’ore a guardare il River Plate, perché la sola presenza di due talenti come Lanzini e Lamela renderebbe quel tempo impiegato in maniera proficua.

IL GIORNO DOPO LA RIVOLUZIONE

Caduto il regime di Mubarak, il calcio egiziano cerca di rimettersi in gioco. E intanto il resto del nord Africa continua a bruciare.

Piazza Tahrir si svuota. Torna alla normalità. A un mese dall’inizio della rivolta del Cairo e a una decina di giorni dalle dimissioni rassegnate dal presidente Hosni Mubarak, l’Egitto cerca di tornare sui binari soliti della vita quotidiana. Molti dei giovani coinvolti nelle proteste e negli scontri erano tifosi di calcio: fianco a fianco, uniti dalla volontà di rovesciare il regime trentennale dell’Ultimo Faraone, hanno protestato tifosi dell’al-Ahly e dello Zamalek, squadre cittadine del Cairo la cui rivalità è spesso sfociata in episodi di violenza. Dovranno attendere ancora prima di riversarsi di nuovo negli stadi, visto che probabilmente il resto del campionato verrà disputato a porte chiuse. C’è da chiedersi se, una volta di nuovo sulle gradinate, le due tifoserie continueranno ad essere solidali dopo aver combattuto spalla a spalla contro il regime, o se torneranno ad odiarsi con violenza.

Hassan Shehata è conosciuto come el-Embrator, l’Imperatore. Il suo è un Impero calcistico: nel 2004 ha preso le redini della nazionale di calcio egiziana da Marco Tardelli, portandola alla vittoria in Coppa d’Africa tre volte di seguito, nel 2006, nel 2008 e nel 2010. Un Impero che sembra però avere una data di scadenza, quella del 26 marzo, quando l’Egitto incontrerà al Soccer City di Johannesburg il Sudafrica in una gara decisiva per le qualificazioni alla Coppa d’Africa 2012. Per i Faraoni di Shehata è imperativo vincere: dopo un pareggio con il Niger e una sconfitta con la Costa d’Avorio da questa partita passano le ultime possibilità per staccare un biglietto per il torneo che si terrà tra Guinea Equatoriale e Gabon. La federazione egiziana sta tentando di far rinviare la partita a giugno per permettere al campionato, sospeso il 27 gennaio, di riprendere con regolarità: una decisione simile è già stata presa dalla FIFA con il rinvio, per motivi di ordine pubblico, dell’incontro tra Yemen e Singapore in seguito alle proteste in corso nello stato arabo per rovesciare il regime del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978.

La mancata qualificazione alla Coppa d’Africa potrebbe essere il colpo di grazia per il commissario tecnico, già criticato per il suo bigottismo religioso (“Faccio sempre il possibile per assicurarmi che chi veste la maglia dell’Egitto sia pio e in buoni rapporti con Dio”, dichiarò in un’occasione) e ora sotto accusa per la sua partecipazione alle manifestazioni in sostegno a Mubarak. Shehata si è difeso sostenendo che difendeva la stabilità e la tranquillità dell’Egitto e che non era spinto da sentimenti di odio per il popolo di piazza Tahrir: quello che gli premeva era che il campionato potesse riprendere con regolarità. Non è bastata come giustificazione ai manifestanti, che hanno inserito il commissario tecnico nella lista nera dei nemici della Rivoluzione. Su un commento postato sul quotidiano online Ahmad dall’utente Waleed si legge: “Hai insultato i giovani che ti avevano sostenuto nella conquista delle tre coppe. Ti sei schierato in favore della tirannia e contro la libertà. È tempo che tu ti faccia da parte, mentre noi abbiamo ancora nel cuore i ricordi e l’ammirazione per i traguardi che hai raggiunto. La libertà viene prima dello sport, capitano Hassan”.

Nel frattempo la federazione sta muovendosi per organizzare un’amichevole della nazionale contro la Tunisia. Quella tra Egitto e Tunisia è stata una rivalità che non ha mai mancato di infiammarsi con episodi violenti. In ottobre undici tunisini erano stati arrestati per vandalismo e attacchi ai danni della polizia dopo un incontro tra l’al-Ahly e l’Esperance di Tunisi. Come i tifosi egiziani, anche i supporter tunisini sono stati in prima linea nelle proteste che hanno portato alla fuga del presidente Zine El-Abidine Ben Ali: la partita non ha ancora una data, ma è già stata soprannominata il derby dei rivoluzionari. La partecipazione del popolo del calcio alle rivolte è stata una costante dell’incendio che ha colpito il nord Africa e il medio Oriente. I tifosi sono scesi in piazza, oltre che in Egitto e Tunisia, anche in Algeria, Libia, Sudan, Giordania e Iran. Le autorità di Algeri, Tripoli, Teheran e il Cairo hanno tutte ricorso alla sospensione dei campionati e alla cancellazione degli impegni internazionali delle squadre locali per ragioni di ordine pubblico e per cercare di disinnescare le proteste. In Iran l’allenatore portoghese Carlos Queiroz, pronto a prendere la guida della squadra nazionale, ha fatto un passo indietro per “comprendere meglio il clima politico iraniano”.

Il primo importante passo per la normalizzazione in Egitto è arrivato pochi giorni fa: domenica i club si sono riuniti per formalizzare al Consiglio Supremo delle Forze Armate la richiesta di far riprendere il campionato terminando la stagione a porte chiuse e con le retrocessioni bloccate. Il campionato è fermo dal 27 gennaio e nel frattempo è stata cancellata la Coppa d’Egitto e la FIFA ha posto come condizione per la ripresa dell’attività che fosse ristabilito l’ordine e che l’accordo tra i club fosse unanime. Un segnale di ripresa è stato l’inizio di un’investigazione per corruzione all’interno della EFA (Egyptian Football Association) che coinvolgerebbe anche il presidente federale Samir Zaher e Hassan Shehata, el-Embrator. In marzo la lega dovrebbe riprendere, ma non sarà facile capire come cambieranno i sentimenti della popolazione nei confronti delle squadre. Secondo Piers Edwards della BBC, dopo la Rivoluzione gli egiziani saranno meno propensi ad accettare che alcuni enti governativi investano nei club sportivi, come avviene per le squadre al-Jaish, Harras al-Hadoud e Ittihad al-Shorta, sostenute rispettivamente dalle guardie di frontiera, dall’esercito e dalla polizia.

Come se non bastasse, l’atteggiamento di freddezza mantenuto dal calcio nei confronti del movimento di piazza Tahrir ha sollevato diverse critiche da parte dei manifestanti. Lo Zamalek, per esempio, è considerata una squadra tradizionalmente vicina alle sfere del potere in Egitto, opinione che è stata rafforzata dall’adesione dei dirigenti della squadra Ibrahim e Hossam Hassan e delle stelle Shikabala e Mido alle manifestazioni controrivoluzionarie. Tra le personalità che si sono esposte in supporto alla Rivoluzione invece figurano Nader el-Sayed, ex portiere dello Zamalek con oltre cento presenze in nazionale, coinvolto in prima persona alle dimostrazioni di piazza Tahrir. Parole di sostegno sono arrivate anche dall’allenatore portoghese dell’al-Ahly Manuel José, che ha chiesto pubblicamente scusa per essere tornato in Portogallo e non aver contribuito alla causa donando sangue alle vittime degli scontri. Per riguadagnare l’approvazione dell’opinione pubblica, i club hanno acconsentito a tagliare il 25% degli stipendi dei giocatori per devolverli alle famiglie delle vittime.

La prima partita di calcio dell’Egitto post-rivoluzionario sarà disputata domenica: lo Zamalek affronterà allo stadio dell’Accademia Militare del Cairo i kenyoti dell’Ulinzi Stars, in una gara valida per i preliminari della Champions League africana. Nella gara d’andata gli egiziani avevano espugnato Nakuru portando a casa una vittoria 4-0, per poi trovarsi impossibilitati a disputare il turno di ritorno per via dello scoppio della rivolta. Le autorità militari, dopo diversi tentennamenti, hanno autorizzato lo svolgimento della partita. Una delle opzioni prese in considerazione dalla dirigenza dello Zamalek era stata lo spostamento dell’incontro in campo neutro in Libia. Una proposta poco felice, visto il rapido degenerare degli eventi nell’ex colonia italiana: le rivolte contro il leader libico Muammar al-Gaddafi hanno portato il paese in una situazione di guerra civile aperta. Secondo il sito Mideastsoccer a capeggiare la repressione nella città di Bengasi, roccaforte dei ribelli, sarebbe Sa’adi al-Gaddafi, il figlio del colonnello, personaggio che ha legato il suo nome al calcio in diversi modi: come dirigente della Juventus, come presidente della federcalcio libica e come giocatore con due brevi presenze in serie A, con le maglie di Perugia e Udinese, intervallate da una squalifica per doping. L’ultimo tesseramento italiano di Sa’adi al-Gaddafi è stato stipulato con la Sampdoria del petroliere ERG Riccardo Garrone, ennesimo esempio di una carriera pilotata più dagli interessi nei combustibili fossili che dal talento sportivo. Sarebbe stato proprio l’attaccante ed ex capitano della nazionale libica a disporre i bombardamenti del regime contro i suoi stessi cittadini, in una brutale repressione costata oltre seicento vittime.

IL PERÙ RIVIVE L’INCUBO DELLA SCIAGURA DEL 24 MAGGIO 1964

Crolla una tribuna prefabbricata allo Stadio Monumental di Lima. I peruviani rivedono lo spettro del 24 maggio 1964.

Per l’inaugurazione di un torneo di calcio studentesco, il 18 febbraio allo Stadio Monumental di Lima, di proprietà del Club Universitario de Deportes, è stata realizzata una tribuna di metallo, alta 15 metri e larga 50. La tribuna avrebbe dovuto ospitare qualche migliaio di persone, soprattutto parenti e amici dei giovani giocatori. La struttura, messa in piedi nello spazio di un mattino, non è stata però dotata delle norme di sicurezza, e per fretta, incuria e una buona dose di faciloneria, i dirigenti dell’Universitario de Deportes hanno omesso di avvisare, come avrebbe disposto la normativa locale, le autorità municipali di Lima. A causa del peso degli spettatori, la tribuna fai da te si è afflosciata improvvisamente, e ha lasciato sotto di sé 117 feriti, la maggior parte lievi, e una decina in condizioni serie. Ma se non fosse stato per l’inusitata efficienza dei soccorsi dei vigili del fuoco e delle ambulanze, il bilancio sarebbe potuto diventare molto più grave.

Come immaginabile, i media peruviani hanno dato un grande spazio a questo incidente, e le memorie più fonde sono ritornate al terribile pomeriggio del 24 maggio 1964, quando allo Stadio Nacional di Lima, meglio noto alla gente del posto come El Coloso de José Díaz, si erano affrontate le nazionali under 20 di Perù e Argentina. In palio c’era la qualificazione alle imminenti olimpiadi di Tokyo, e l’Argentina aveva la classifica dalla propria parte; mentre per il Perù era quasi un imperativo vincere, per poi giocarsi la qualificazione nell’ultima partita contro il Brasile.

A Lima si preannunciava una domenica pomeriggio all’insegna dello spettacolo sportivo, visto che nel circuito centralissimo di Campo de Marte, a meno di un chilometro dallo stadio si stava disputando Las Seis Horas Peruanas, una gara automobilistica che sarebbe terminata alle tre del pomeriggio: appena mezz’ora prima dell’inizio della partita. In quella mezz’ora i tifosi erano transumati verso il Nacional; e siccome gli organizzatori avevano incoscientemente abbondato sulla stampa dei biglietti, erano entrate quasi quindicimila persone in più rispetto alle 47mila che poteva contenere ufficialmente lo stadio.

Il primo tempo terminò a reti inviolate, e il pubblico cominciò a innervosirsi. Avrebbe voluto festeggiare la qualificazione per le strade di Lima, ma con un pareggio la strada verso le olimpiadi si sarebbe fatta più accidentata. A rendere l’impresa proibitiva, avrebbe poi provveduto al 15’ il gol dell’argentino Néstor Manfredi. Per i sessantamila presenti era stata come una doccia gelata, e le speranze olimpiche cominciavano a sciogliersi sotto il sole di quel pomeriggio di maggio.

A soli sei minuti dalla fine, però, un tiro angolato dell’attaccante peruviano Victor Lobatón era riuscito a battere il portiere argentino. La torcida del pubblico di Lima si era scatenata. Mancava poco alla fine, era vero, però si poteva ancora sperare. I giocatori in maglia bianca si abbracciarono e proprio mentre stavano per dirigersi verso la propria metà campo, l’arbitro uruguayano, Ángel Eduardo Pazos, alzò il braccio destro e sollevò una gamba mimando un passo dell’oca: gioco pericoloso. Il gol era stato annullato, lasciando sfumare le ultime speranze dei peruviani.

Il pubblico sugli spalti scatenò il finimondo, e un afro peruviano di un quintale di peso e dalle generalità incerte (a seconda delle fonti viene indicato come Víctor Melasio Campos, Melecio Vásquez, o anche Germán Cuenca Arroyo), con il grottesco soprannome di El Negro Bomba, riuscì a scavalcare le recinzioni e ad entrare nel terreno di gioco in direzione dell’arbitro. Appena scorsero la sua sagoma appesantita, i poliziotti di servizio nello stadio lo rincorsero lanciandogli addosso i cani; lo placcarono, lo stesero a terra, estrassero i manganelli, e come loro abitudine, cominciarono a picchiare selvaggiamente. Contemporaneamente, entrò in campo un secondo invasore, che brandendo una bottiglia era arrivato a pochi passi dall’arbitro: un attimo prima di venire acciuffato dalla polizia per subire lo stesso trattamento di El Negro Bomba.

Il pubblico, già invelenito contro l’arbitro, rivolse la propria attenzione all’indirizzo delle forze dell’ordine, e cominciò a inveire, fischiare e bombardare il campo di oggetti di ogni tipo. L’uruguayano Ángel Eduardo Pazos comprendendo che le cose si stavano mettono male, senza perdere altro tempo, fischiò la fine dell’incontro; ed insieme ai giocatori delle due nazionali, si involò verso gli spogliatoi dalla parte della curva meno turbolenta.

Usciti di scena i protagonisti della partita, lo scontro si concentrò tra il centinaio di poliziotti e i sessantamila spettatori inferociti. A quell’epoca la polizia peruviana non conosceva molte varianti alla logica della brutalità. Era la polizia di una nazione che viveva costantemente sotto il tallone di una serie devastante di dittature militari, e che proprio in quell’anno stava vivendo una delle proprie brevissime stagioni di democrazia. L’ufficiale più alto in grado si mise immediatamente in contatto radio con la centrale, e ricevette l’ordine di difendersi con i gas lacrimogeni.

Detto fatto. I gas vennero lanciati in forma di granate verso i settori dello stadio più esagitati, e da quel momento i tifosi furono protagonisti di qualcosa di molto simile a un girone dell’inferno dantesco. Sotto la pressione dei gas asfissianti, cercarono vie di fuga, salendo prima verso la parte più alta delle gradinate. Ma neanche lassù l’aria si era rivelata più respirabile, e la massa in fuga aveva imboccato la via dell’uscita. Davanti a quelli più rapidi era però in agguato un’amara sorpresa: le porte erano sbarrate. Le autorità ne avevano deciso la chiusura, per evitare che altre persone si aggiungessero alla calca infernale che loro stessi avevano provocato, vendendo i biglietti in soprannumero.

I primi arrivati avevano fatto così marcia indietro, ma si erano trovati di fronte la seconda ondata che scappava dalle tribune avvelenate dai gas della polizia. La massa di persone si era infranta, come un blocco unico, contro i cancelli, che sarebbero poi crollati sotto la spinta di quella forza d’urto. In una calca spaventosa morirono in 318, e quasi mille rimasero feriti, soprattutto per asfissia da schiacciamento, in una dinamica che si sarebbe ripetuta, anche se in misura dieci volte minore, nella tragedia dell’Heysel. Ma negli sessanta in America Latina, il quadro sociale era particolarmente disastroso, e le bande di delinquenti si erano avvicinate ai cadaveri per rubare orologi, portafogli, vestiti, e tutto quanto avesse potuto valere più di pochi sol.

I giornalisti in tribuna non avevano compreso immediatamente le dimensioni della catastrofe, e le prime notizie avevano accennato ad alcuni feriti; ma la radio aveva poi fornito aggiornamenti di minuto in minuto, tanto che i parenti delle persone allo stadio, avevano girato disperatamente gli ospedali di Lima alla loro ricerca.

Tanti dei giovani che erano sopravvissuti si erano abbandonati alla guerriglia: tre poliziotti, erano stati catturati e linciati, centinaia di vetture parcheggiate erano state distrutte e la fabbrica della Goodyear era stata saccheggiata, durante una serie di disordini che erano durati tutta la notte. Il mattino dopo il governo, schiacciato dalla pressione dei militari, veri padri padroni del Perù di quell’epoca, sarebbe stato costretto a decretare lo stato d’emergenza e la sospensione delle libertà costituzionali per trenta giorni.

UN AZZURRO … DI QUALITA’

Quali sono le soluzioni tattiche a disposizione di Cesare Prandelli e della sua Nazionale per piedi buoni?

Cesare PrandelliPartiamo da un presupposto: mercoledì sera non ho potuto guardare la partita, avendo altri impegni. Né, nei giorni successivi, ho avuto modo di recuperarla altrove. Il tempo è tiranno! Ovviamente sto parlando del confronto tra Germania ed Italia, con cui la simpatica Federcalcio tedesca pare volesse prendersi una piccola rivincita dopo l’eliminazione nella famosa semifinale Mondiale del 2006. Detto ciò, quindi, non mi soffermerò certo sul match in sé, ma credo che un focus generale sul futuro della nostra nazionale sia d’uopo.

L’idea mi è venuta nell’ascoltare la conferenza pre-partita di Prandelli, che nel rispondere alle varie domande dei giornalisti – in particolare a quelle relative alla prima convocazione dell’oriundo Motta – ha parlato delle sue idee relative alla qualità del gioco che dovrà esprimere la sua squadra.
Qualità che dovrà in special modo essere fornita dal centrocampo, che, nell’idea del mister di Orzinuovi, dovrà essere imperniato su giocatori più capaci di trattare il pallone che non dai polmoni d’acciaio (ma dalle scarse abilità tecniche).

Le uniche vie percorribili, tatticamente parlando, vanno tutte in una sola direzione: squadra stretta, scambi rapidi e penetrazioni centrali. Perché il nostro Commissario Tecnico è stato chiaro, ma del resto non serviva nemmeno il suo intervento in questo senso: il campionato italiano oggi non esprime esterni nostrani di qualità ed è quindi impensabile che la nostra nazionale, per tornare ad alto livello nel breve periodo, possa impostarsi proprio in quest’ottica. Per intenderci, quindi, questa è un po’ una bocciatura a tutti quei moduli, come il 4-4-2 classico per dirne uno, che fanno del gioco e delle sovrapposizioni sulle fasce il proprio punto di forza. Non avendo esterni di valore assoluto, infatti, bisogna trovare delle alternative valide.

Settimana scorsa parlai di come Didier Deschamps si trovi ad un bivio, con il suo OM: l’ex tecnico juventino dovrebbe infatti decidere, per provare a ravvivare le sorti della sua squadra, se continuare con l’uso dell’attuale 4-3-3 o passare ad un 4-3-1-2 diversamente bilanciato. Allo stesso modo oggi Prandelli credo si trovi di fronte ad un bivio molto simile: 4-3-2-1 (leggibile anche come 4-3-3, del resto) o 4-3-1-2? La mancanza di esterni puri consiglia infatti di schierare un centrocampo a tre a supporto di un attacco variamente composto. E qui i discorsi si intrecciano.

Ma prima di parlare di centrocampo ed attacco in senso stretto facciamo una piccola digressione parlando di atteggiamento generale di una squadra. Perché da quando seguo la nazionale (1994, questione puramente anagrafica) raramente ho visto gli Azzurri scendere in campo per imporre il proprio gioco come solitamente fanno Spagna e Brasile, per restare in tema di nazionali, o il super Barcellona di Guardiola, per venire ad un club. Solitamente, infatti, le fortune della nostra rappresentativa maggiore si sono costruite più sull’attendismo, su di una impostazione tattica molto prudente ed atta alla ripartenza, che sull’imposizione del proprio gioco. Il tutto però è stato spesso possibile anche grazie alla presenza di veri e proprio Campioni là davanti, in grado di dare qualità alla manovra o finalizzare con estrema efficacia. Campioni che oggi sembrano scarseggiare abbastanza: i vari Gilardino, Cassano, Pazzini e compagni non sono infatti minimamente all’altezza dei Baggio, Vieri, Del Piero e Totti del passato. In una situazione del genere, quindi, si deve andare a maggior ragione alla ricerca di un gioco di squadra che sia quanto più qualitativo possibile nella sua globalità, proprio per colmare la mancanza di veri e propri trascinatori capaci di nascondere le falle del collettivo nel suo intero. Detto ciò, quindi, in cosa consiste il dilemma che si dovrebbe porre Prandelli?

Il discorso concernente il centrocampo varia relativamente rispetto alla scelta tattica in sé. Perché qualsiasi sia l’intenzione rispetto all’attacco da schierare (due mezze punte ed una punta, una mezza punta dietro ad una seconda punta di fantasia e movimento ed un puntero o un trequartista alle spalle di due punte pure) è abbastanza palese come in mezzo al campo dovranno essere schierati tre giocatori che formino una cerniera capace di cucire il gioco quanto di fare da frangiflutti davanti alla difesa. In questo senso quindi Prandelli dovrà decidere, di volta in volta, se sarà meglio schierare un regista puro centrale (alla Pirlo, per intenderci), con al fianco due mezze ali più o meno dedite alla fase offensiva o difensiva, a seconda della necessità. Oppure se piazzarci un mediano ben strutturato fisicamente (come lo stesso Motta, appunto) ma comunque dai piedi sensibili con due mezze ali ai propri fianchi che, anche qui, possano completare il reparto a seconda delle evenienze. Ciò che è certo è che se davvero Prandelli vorrà dare più qualità al gioco di questa squadra dovrà affidarsi a giocatori tecnicamente capaci. Gattuso, anche ai livelli del 2006, farebbe quindi probabilmente fatica a trovare spazio. Le alternative certo non mancano. Il problema vero è capire se questi giocatori sapranno finalmente raggiungere uno status di giocatori di livello mondiale, cosa che si addice a chi si disimpegna da titolare in una squadra quattro volte campionessa iridata. I vari Pirlo, Motta, Montolivo, De Rossi, Marchisio, Aquilani e compagnia compongono comunque un reparto sulla carta sicuramente interessante e più che discreto tecnicamente. Base interessante da cui partire in un’ottica come quella lasciata intendere dal tecnico di Orzinuovi.

I dubbi maggiori sono quindi legati a chi dovrà giocare dalla cintola in su.
Volendo, infatti, il nostro Commissario Tecnico potrebbe ad esempio decidere di schierare una sola punta di ruolo supportata da due giocatori di fantasia che andrebbero etichettati come seconde punte, rendendo quindi quello Azzurro una sorta di attacco a tre a tutti gli effetti, che potrebbero però anche essere letto come una sorta di albero di Natale con due giocatori in appoggio dell’unica punta. Oppure, come dicevo in precedenza, potrebbe decidere di schierare un centrocampista con doti e propensione da trequartista (come il succitato Aquilani stesso, che potrebbe tranquillamente giocare in quel ruolo) dietro a due attaccanti, per un modulo sulla carta più equilibrato. Anche in attacco, comunque, le alternative non mancano. Il problema principale è che manca, come detto, il Campione vero, in grado di cambiare il match a proprio piacimento. Nel contempo, però, con a disposizione Pazzini, Cassano, Matri, Gilardino, Borriello, Rossi, Balotelli e compagnia le alternative non mancano, e non sono nemmeno di così scarso valore.

I presupposti per fare bene ci sono di certo. Vincere è sempre difficile, ma ben figurare è sicuramente possibile.