OM: NECESSARIO UN CAMBIO DI MODULO?

Olympique MarsigliaLo scorso anno si impose al termine di una lunga cavalcata che lo portò a chiudere il campionato con sei punti di vantaggio sul Lione. Quest’anno, invece, la squadra allenata da Didier Deschamps, l’Olympique Marsiglia, ha avuto un inizio piuttosto stentato e si trova ora quarto a sei punti dal Lille primo in classifica. Il tutto grazie alla recentissima vittoria sull’Arles fanalino di coda: la squadra di Michel Estevan, infatti, è stata sinora capace di guadagnarsi otto soli punti in ben ventidue giornate di campionato, ed è già praticamente retrocessa in Ligue 2. Vittoria quindi praticamente scontata quella dell’OM, che serve però a rilanciare le ambizioni di una squadra partita per difendere il titolo guadagnato la scorsa primavera.

Compagine, quella marsigliese, che denota in particolar modo una difficoltà imprevista sotto porta: in ventidue giornate i ragazzi di Didì Deschamps sono difatti stati in grado di realizzare solo trenta reti, contro le quaranta del Lille capolista. Difficoltà, questa, che si è palesata anche contro la peggior difesa della Ligue 1: quella dell’Arles, appunto.  Nei primi 21 match di campionato, infatti, i ragazzi di Estevan si erano fatti bucare ben 42 volte, con una media secca di due reti subite a partita. L’OM, però, è stato capace di trovare la via della rete in una sola occasione, palesando quindi ancora una volta una certa incapacità di pungere. Il tutto nonostante l’ex allenatore juventino schieri una formazione piuttosto offensiva fatta di tre punte tra le più interessanti del campionato ed un centrocampo a tre con un mediano d’interdizione affiancato da due mezz’ali molto tecniche e dal buon piede. Una formazione, insomma, che non dovrebbe incontrare problemi né nel costruire gioco né nel finalizzarlo. Ma analizziamolo meglio questo 4-3-3 marsigliese schierato contro l’Arles.

Tra i pali trova collocazione il capitano della squadra, Mandanda, protetto da una linea a quattro formata dalla coppia centrale Diawara-Mbia con due terzini tendenzialmente bloccati come Fanni ed Heinze. Difesa a sua volta schermata da Charles Kaborè, schierato in mediana, ai cui fianchi agiscono il sempre ottimo Lucho Gonzalez, giocatore che sono convinto farebbe molto bene anche in Italia, e Benoit Cheyrou, mezz’ala mancina molto apprezzata in patria. In attacco, quindi, schierato il trio – sulla carta – delle meraviglie Remy-Brandao-Gignac.

Partita che inizia però subito maluccio per i padroni di casa che mostrano una certa fragilità in fase difensiva laddove i movimenti della linea a quattro non sembrano ben registrati e Kaborè è lasciato dai compagni un poco troppo solo in mediana. In compenso in attacco le cose stentano a decollare: il pallone non scorre fluidamente ed è trasmesso con qualche impiccio da un reparto all’altro, tanto che la prima grande occasione per l’OM è frutto più del caso e della capacità di un singolo, Gignac, che di un convincente gioco di squadra. Ecco quindi come una palla scodellata in mezzo viene alzata a campanile dalla testa di Brandao con l’ex punta del Tolosa che dopo averla fatta rimbalzare s’inventa una splendida rovesciata con cui prende tutti alla sprovvista, venendo però fermato dalla traversa.

Con il passare del tempo i padroni di casa riescono comunque a prendere fiducia nei propri mezzi, guadagnando sempre più campo e creando via via occasioni sempre più importanti. Così dapprima Lucho lancia Remy alle spalle di una difesa spaccata, con Merville costretto all’uscita di piede per anticipare l’ex punta nizzolina. Poi Cheyrou si accentra dalla sinistra e arriva al tiro dopo uno splendido uno-due con Gignac, con Merville ancora bravo ed attento a respingere di piede. In chiusura di primo tempo arriva quindi la seconda traversa marsigliese, con Lucho che calcia una splendida punizione dal limite senza però riuscire a trovare la via di porta.

A dieci minuti dall’apertura di ripresa, quindi, L’OM passa in vantaggio grazie ad una bella azione corale che mette in mostra come, dopotutto, la tecnicità per effettuare certe giocate c’è tutta al Velodrome: Gignac parte da prima della trequarti sinistra scaricando su Lucho per andare poi ad accentrarsi, puntando il centro dell’area. Nel contempo Brandao, schierato centrale nel tridente approntato da Deschamps, effettua il movimento opposto: nel momento in cui Lucho sta venendo in possesso del pallone, infatti, il puntero brasiliano si allarga proprio sulla sinistra, per dettare il passaggio al compagno. Il tutto ottenendo un doppio beneficio: da una parte taglia alle spalle di un avversario andando a portarsi in una zona di campo sguarnita dove potersi impossessare del pallone senza grandi problemi, dall’altra disorienta quello che era il suo diretto marcatore e la difesa tutta, creando un bel buco in mezzo all’area dove s’infilerà, lesto, proprio Gignac.

Una volta arrivato in possesso della palla, quindi, Lucho vedrà subito il movimento del compagno e lo servirà, dando il la ad un’azione che si rivelerà decisiva: una volta portatosi sul fondo, difatti, Brandao centrerà un pallone basso su cui piomberà, puntualissimo, il buon Gignac, che potrà quindi realizzare comodamente la rete della vittoria.  La possibilità di ben comportarsi, insomma, ce l’hanno tutta, a Marsiglia. Del resto quando si può contare su giocatori importanti come Cheyrou, Lucho ed il tridente delle meraviglie è anche scontato averle, queste possibilità.

Il problema vero è che la squadra fatica a creare una propria fisionomia di gioco. Ed in questo uno dei principali colpevoli non può che essere, ovviamente, il buon Didì. Ed è un vero peccato: forti della seconda miglior difesa del campionato (18 reti subite in 22 match, contro le 17 del Rennes) les Olympiens avrebbero davvero tutte le carte in regola per riconfermarsi campioni di Francia.

Ma come si potrebbe rinvigorire una fase offensiva particolarmente deficitaria? In questo senso, è certo, il brutto infortunio occorso a César Azpilicueta, ventunenne terzino spagnolo ex Osasuna, non aiuta di certo. Il suo sostituto, acquistato a dicembre in fretta e furia proprio per poter tamponare al meglio la lunga assenza dell’ex capitano dell’under 20 iberica (che resterà assente sino alla prossima estate a causa di un infortunio ai crociati), non riesce infatti a dare lo stesso apporto in fase offensiva e di costruzione: per quanto sia un giocatore di ottimo livello Rod Fanni è terzino abile in fase difensiva ma che non sa spingere con continuità. L’esatto opposto di un Azpilicueta che, di contro, forse paga qualcosa in fase difensiva ma certo sa spingere con efficacia, risultando spesso un’opzione in più per la propria squadra. Al tempo stesso anche panchinare Taiwo, come successo appunto contro l’Arles, può risultare controproducente. E’ vero che Heinze avendo giocato per anni centrale dovrebbe garantire una miglior copertura ed una maggior robustezza al pacchetto arretrato ma è altrettanto vero che il terzino nigeriano con le sue qualità atletiche tracimanti ed un tiro al fulmicotone sa rendersi indubbiamente molto più pericoloso nella metà campo avversaria, risultando importante tanto in fase propulsiva quanto realizzativa (il venticinquenne di Lagos è infatti il quarto miglior realizzatore ed terzo miglior assistman della squadra in questa stagione).

Lo schierare due terzini prettamente difensivi anziché più portati ad offendere non può comunque spiegare da solo la scarsa vena realizzativa di questa squadra, posto poi che Taiwo ha comunque giocato la maggior parte dei match e che tutto sommato dovrebbe essere ritenuto il titolare di questa squadra (per quanto gli sia stato preferito Heinze come terzino negli ultimi due match). La motivazione principe credo vada quindi ricercata proprio nel modulo adottato dall’ex capitano Bleus. Per proteggere gli investimenti fatti in estate, infatti, Deschamps è quasi costretto a schierare praticamente sempre Gignac e Remy, che stanno mantenendo una media realizzativa piuttosto scarsa: il primo ha sinora disputato venti match realizzando sei sole reti, il secondo ne ha invece giocati ventidue realizzandone sette. Nel complesso, posto che Brandao è riuscito a fare anche di peggio con tre segnature in ventidue partite, ecco che la situazione è realmente piuttosto desolante. E dato che questo tridente sembra non funzionare ecco che bisognerebbe pensare ad una qualche soluzione tattica differente.

In questo senso vedo due vie percorribili: la prima prevederebbe l’utilizzo di questo stesso schema ma con interpreti diversi, la seconda proprio un cambiamento di modulo. Nello specifico: qualora Deschamps voglia a tutti i costi continuare a schierare il suo 4-3-3 dovrebbe pensare a panchinare una volta per tutte Brandao, la cui fisicità può certo venire comoda in alcuni frangenti ma che è assolutamente troppo lontano da una media realizzativa anche solo vagamente accettabile. In questo caso, quindi, potrebbe schierare Gignac fisso nel centro dell’attacco, anziché farlo partire a sinistra come nel derby con l’Arles, con il giovane André Ayew sulla fascia mancina ed il solito Remy su quella destra, andando così a fare molto più affidamento su tecnica ed inventiva che su fisicità e sportellate.

Nel secondo caso, quello del cambio di modulo, si potrebbe invece pensare di passare ad un centrocampo a quattro schierato a mo’ di rombo, magari ispirandosi al Milan di Ancelotti. Per fare questo, però, occorrerebbe avere un regista di centrocampo, ruolo in cui l’OM si ritrova ad essere piuttosto scoperto. Per ovviare alla cosa si potrebbe quindi pensare di spostare Lucho centralmente, dando a lui i compiti di impostazione allor quando l’azione riparte dalla difesa, con Kaborè a ricoprire un ruolo da mastino di centrocampo stile Gattuso e Cheyrou a fare la mezz’ala classica con compiti di sostegno e finalizzazione, un po’ come fatto a suo tempo da Seedorf. Sulla trequarti, poi, potrebbe trovare spazio, una volta ripresosi dall’infortunio, Mathieu Valbuena. Anche se, in alternativa, quel ruolo lo si potrebbe far ricoprire ad Ayew, ragazzo che predilige giocare largo a sinistra ma la cui fantasia potrebbe comunque tornare comoda anche centralmente, a ridosso delle punte. Che, in quel caso, potrebbero essere Gignac e Remy, come prima scelta, con Brandao pronto a subentrare. I tre hanno infatti caratteristiche piuttosto diverse e sono accoppiabili a piacimento: la duttilità di Gignac permetterebbe di fatto tanto di schierarlo con Remy, che potrebbe usarlo come riferimento schierandosi da seconda punta mobile capace di dialogare coi compagni centralmente quanto, alla bisogna, di allargarsi sulla destra per cercare il fondo, quanto di schierarlo con Brandao, andando lui, in quel caso, a giostrare come seconda punta. Così come, del resto, si potrebbe decidere poi di lasciare a riposo l’ex stella del Tolosa, schierando Brandao centravanti boa con l’ex Nizza a supporto.

Gli accorgimenti tecnico-tattici utilizzabili, insomma, sono molteplici. Si tratta solo di trovare la giusta quadratura del cerchio. Al termine del match contro l’Arles il buon Deschamps ha parlato di squadra ancora in convalescenza, che deve ritrovarsi dopo un inizio di stagione sottotono. Personalmente credo che sia il caso, in questo momento, di dare un po’ una scossa ad un gruppo di giocatori che non riesce ad esprimere il proprio enorme potenziale.

Ecco perché personalmente opterei proprio per un cambio di modulo.

LA SUPERCOPPA ITALIANA VA IN CINA

La Supercoppa Italiana ritorna in Cina come già avvenne nel 2009. E’ necessario espatriare per attirare l’interesse degli sponsor?

Supercoppa TIMLa Supercoppa Italiana del 2011 si disputerà in Cina, la notizia risale allo scorso 26 gennaio. Il presidente della Lega Nazionale Professionisti Serie A Berretta, dopo aver siglato un accordo da 10 milioni di euro con la United Vansen International, ha dichiarato entusiasta: «Saremo presenti in Cina per tre volte nei prossimi quattro anni, a partire da quest’anno a Pechino, portando il meglio del calcio italiano ad esibirsi su un palcoscenico tanto prestigioso, a testimonianza che le nostre squadre sono in grado di attrarre l’interesse del pubblico e degli sponsor». Ma perché il trofeo che viene messo in palio tra la squadra vincitrice dello Scudetto e la vincente della Coppa Italia si disputerà in Cina? Il sospetto è che sia necessario espatriare proprio perché non siamo più in grado di attrarre l’interesse del pubblico e degli sponsor.

Da parte cinese, oltre al guadagno legato all’organizzazione, l’obiettivo dichiarato è quello di cercare di far crescere il livello del proprio campionato e soprattutto della propria nazionale, dopo la modesta figura in Coppa d’Asia e gli scandali di corruzione del campionato che hanno azzerato i vertici federali.

Per la neonata Lega Nazionale Professionisti Serie A si tratta sicuramente di un successo notevole in quanto oltre al rientro economico immediato, potrebbe portare a un buon ritorno d’immagine in un paese popoloso e affamato di calcio come la Cina.

Non si tratta nemmeno della prima volta che la Supercoppa Italiana si disputa all’estero. Ideata nel 1988, già nel 1993, alla vigilia dei Mondiali americani, sbarcò a Washington dove il Robert F. Kennedy Memorial Stadium riempito a metà ospitò la vittoria del Milan sul Torino. Già da allora l’interesse del calcio-business firmato Matarrese (all’epoca presidente della lega calcio) e Berlusconi (presidente del Milan non ancora “sceso in campo” politicamente) era volto totalmente alla vendita dei diritti televisivi tralasciando totalmente gli interessi degli spettatori dal vivo. Negli anni Novanta quella trasferta americana, vissuta dalle squadre più come un peso che non un’opportunità, rimase un’eccezione. Nel nuovo millennio invece queste trasferte divennero più frequenti. Nel 2002 sulla scia degli investimenti di Gheddafi in Italia la Supercoppa italiana sbarcò in Libia allo stadio 11 Giugno. L’incontro fu vinto dalla Juventus, della quale il presidente libico aveva delle quote, sul Parma. L’anno successivo si ritornò negli Stati Uniti, questa volta al Giant Stadium di New York, nell’edizione vinta dalla Juve sul Milan ai rigori. Infine nel 2009 la Lazio sconfisse l’Inter nello Stadio di Pechino che aveva ospitato le Olimpiadi, il celebre Bird’s Nest. In generale non si può certo dire che queste trasferte abbiano elevato il prestigio della coppa.

La location esotica rafforzava piuttosto l’impressione di giocare una partita amichevole dal ricco cachet.  Sicuramente questa scelta ha risvegliato l’appetito dei grandi club. Alcuni giorni fa Adriano Galliani ha dichiarato “Noi in Cina vogliamo esserci” in un’intervista in cui l’enfasi sui vantaggi economici della trasferta cinese era tale da sembrare persino più importante della vittoria dello Scudetto o della Coppa Italia. Nel lungo periodo però la via cinese non è detto che si riveli vincente. La Lega Nazionale Professionisti Serie A ha offerto il proprio prodotto al miglior offerente senza – almeno per il momento – cercare di fare un investimento sul futuro di quella che appare tutt’oggi come una “tradizione sportiva inventata” assai debole. Più che degli Yuan cinesi la Supercoppa italiana avrebbe forse avuto un maggior bisogno di simboli identitari come uno stadio nazionale dove giocare una partita secca come in Inghilterra o di far disputare il trofeo in una partita d’andata e una di ritorno, come avviene in Spagna.

Difficilmente nei prossimi tre anni di Supercoppa italo-cinese il prestigio della competizione sarà cresciuto. Il timore è che Berretta stia cercando di rilanciare il calcio italiano all’estero senza però aver prima risolto i problemi interni. Non ha senso cercare di costruire un prodotto spendibile globalmente a discapito delle esigenze degli spettatori e dei tifosi italiani. Il nostro campionato era il più bello del mondo non solo perché vi giocavano i migliori giocatori ma anche perché gli stadi erano pieni, gli spalti erano colorati e gli striscioni irriverenti ma geniali. Oggi gli stadi sono semivuoti e il colore e le coreografie sempre più rare.

In un mondo dominato dalle televisioni, il pubblico degli stadi continuerà ad essere fondamentale; senza gli spalti pieni anche il “prodotto-calcio” rimarrà vuoto e un Milan-Inter o un Roma-Napoli giocato a Pechino non avrà mai lo stesso appeal del medesimo incontro giocato all’Olimpico, al Meazza o al San Paolo.

ALLA SCOPERTA DELL’UDINESE AMMAZZAGRANDI

Nel giro di una settimana ha sconfitto Juventus ed Inter. Nel corso del campionato aveva già sconfitto il Napoli (oggi secondo) e pareggiato a San Siro col Milan capolista per 4 a 4. Parliamo dell’Udinese.

Totò Di NataleNel giro di una settimana ha sconfitto Juventus ed Inter. Nel corso del campionato aveva già sconfitto il Napoli (oggi secondo) e pareggiato a San Siro col Milan capolista per 4 a 4. Stiamo parlando dell’Udinese, squadra che dopo l’importantissima vittoria di Torino si trova ora in sesta posizione, a due soli punti da una zona Champions che non è poi così un miraggio.

Parliamone, allora, di questa macchina costruita da Guidolin. Perché l’undici di base è ben definito e i meccanismi piuttosto chiari. Riuscendo a raccogliere risultati così importanti, poi, vale proprio la pena analizzare un po’ come stiano le cose in quel di Udine.

In Friuli il mister di Castelfranco Veneto sta impostando un 3-5-2 piuttosto quadrato capace di mettere in difficoltà un po’ tutti gli avversari grazie ad un mix di grinta, rapidità e talento davvero importante. Partiamo dalla difesa, quindi. Dove possiamo trovare tre uomini schierati a protezione del solito Handanovic, ormai alla quarta stagione da titolare in Friuli: Benatia, Zapata e Domizzi, schierati con il colombiano come centrale posto un paio di metri dietro ai due compagni. E proprio il ragazzo di Padilla è colui che con la sua esperienza, a fronte dell’ancor pur giovane età, è deputato a guidare l’intero reparto.

Detto del reparto arretrato passiamo quindi in mediana. Al centro del campo si schierano infatti tre giocatori deputati ad effettuare tre lavori specificatamente diversi: se Inler è il motorino di un centrocampo che gira grazie al suo dinamismo ma, soprattutto, attorno alle sue giocate e seguendo il tempo che proprio da lui è dettato, Pinzi è invece il soldatino infaticabile che effettua un importantissimo doppio lavoro, andando tanto a pressare alto le fonti di gioco avversarie quanto a tamponare le incursioni sulla propria trequarti campo. Chiude il lotto quel Kwadwo Asamoah che è invece un po’ il tuttofare del reparto: abbinando qualità e quantità, infatti, l’ex Liberty Professional contribuisce a dare nerbo al proprio centrocampo addizionando anche un lavoro importante in fase offensiva, dove sa spesso rendersi anche pericoloso grazie ad una discreta castagna e a tempi d’inserimento piuttosto buoni.

I giocatori chiave di questa Udinese guidoliniana non sono però quelli sin qui citati, che pur importanti non rivestono il ruolo centrale dei tre che vado a presentare ora: Armero, Isla e Sanchez.

Se i primi due contribuiscono, con il loro lavoro instancabile, a cucire i tre reparti infoltendo la linea di retroguardia quanto dando un’opzione in più in fase di possesso il terzo è il giocatore capace di sparigliare le carte in tavola, inventandosi la giocata risolutiva quanto piazzando l’accelerazione decisiva al momento giusto. Ma vediamo le cose più nel concreto: Armero ed Isla, due giocatori che in altri contesti potrebbero forse apparire solo onesti mestieranti del pallone, ricoprono in quest’intelaiatura un’importanza centrale. Dotati di un atletismo realmente importante, infatti, sanno coprire tutta la fascia senza colpo ferire, andando quindi tanto ad infoltire la retroguardia in fase di non possesso, allor quando schiacciandosi in linea con Domizzi, Zapata e Benatia possono trasformare la difesa in una linea a cinque, quanto a risultare determinanti in fase di possesso, sapendo scendere come treni per mettere in mezzo palloni importanti. Un po’ come quello del definitivo due a uno sulla Juventus di domenica sera. Ma non solo: sempre restando alla partita di Torino va detto che i due possono risultare importanti anche quando cercano di giocare quanto più larghi che mai, finanche proprio a ridosso della linea laterale, per provare ad aprire il più possibile la squadra avversaria, con i terzini altrui costretti a loro volta ad allargarsi per cercare di controllarli, andando quindi spesso a creare falle centrali importanti. Fondamentale anche il gioco di Sanchez, che abbinando una rapidità superlativa ad una creatività rara sa essere quell’uomo capace di andare tanto a giocare tra le linee quanto a svariare sulla fascia per trovare il varco giusto.

Chiude quest’undici che sta tornando a far sognare il pubblico del Friuli capitan Totò Di Natale, che dopo aver rifiutato in estate il passaggio proprio alla Juventus sta disputando un ennesimo campionato su livelli stratosferici. Prima punta atipica, Di Natale abbina rapidità, esperienza e fiuto del goal in un mix unico e letale che si è tradotto nelle quindici reti realizzate sino ad oggi dal bomber di Napoli.

Fin dove possa arrivare, questa squadra, non è dato saperlo. Di certo finché le cose gireranno come sta accadendo ultimamente nessun traguardo sarà impossibile. Certo non quel quarto posto che sembra oggi realmente a portata di mano e che sarà sicuramente raggiungibile se l’undici di Guidolin continuerà a marciare sulla strada sino ad oggi intrapresa.

LE PALLOTTOLE DI LURGAN

Calcio nordirlandese, Old Firm e settarismo: un capitolo ancora aperto dopo le intimidazioni a Neil Lennon, Paddy McCourt e Niall McGinn.

Per i ragazzi della Loyalist Volunteer Force di Lurgan, lui è solo “un taig dell’altra parte della città”. Uno sporco cattolico, uno di quelli là. Lurgan, contea di Armagh, è (parole di Susan McKay del Guardian) “una cittadina amara, uno di quei paesi nordirlandesi con una linea invisibile a dividerla a metà: negozi cattolici da una parte, protestanti dall’altra”. Con i vicini paesi di Portadown e Craigavon, Lurgan è uno dei vertici del cosiddetto triangolo degli omicidi e uno dei centri dove i cosiddetti repubblicani dissidenti, critici verso la linea istituzionale e sistemica del Sinn Féin, godono del maggior supporto. Il taig in questione invece è Neil Lennon, centrocampista che ha legato la sua carriera al Celtic di Glasgow, la squadra cattolica e repubblicana della città scozzese. Sette anni da giocatore, due dei quali da capitano, prima di chiudere la carriera in Inghilterra e tornare al Celtic Park, a marzo 2010, in veste di allenatore. Celtic vuol dire Old Firm, lo storico derby glasvegiano in cui i Bhoys bianco-verdi affrontano i Rangers, di estrazione protestante e lealista. Una trasposizione calcistica della questione nordirlandese sull’altra sponda del Canale del Nord che rende gli spalti dell’Ibrox Stadium e del Celtic Park altoparlanti dell’odio settario, come racconta Franklin Foer nel suo How Football Explains the World: “A piena gola, cantano lodi al nostro massacro: we’re up to our knees in Fenian blood, siamo ricoperti fino alle ginocchia di sangue feniano”. Secondo Foer tra il 1996 e il 2003 otto morti e centinaia di assalti accaduti a Glasgow sono direttamente riconducibili all’Old Firm.

Sotto la guida di Lennon, ora squalificato per sei incontri in seguito ad alcune dichiarazioni polemiche contro gli arbitri, il Celtic sta disputando un’ottima stagione, guidando la classifica di Scottish Premier League con cinque punti in più dei Rangers che, però, hanno disputato due gare in meno. Nel 2011 i Bhoys hanno raccolto 10 punti su 12 a disposizione. Nelle ultime tre gare il protagonista è stato il ventunenne irlandese Anthony Stokes: il giovane dublinese è stato l’autore della rete decisiva nella vittoria 1-0 sull’Aberdeen, ha messo a segno una doppietta nel 3-0 sugli Hibernians e ha siglato il rigore del pareggio a tempo scaduto contro l’Hamilton alla fine di una gara tesissima (“a drama-filled clash”, Stevie Miller, BBC) segnata dai tre cartellini rossi estratti dall’arbitro Willie Collum. Soprattutto, però, l’anno si è aperto il 2 gennaio all’Ibrox Stadium con la vittoria 2-0 sui Rangers, propiziata da una doppietta del greco Georgios Samaras.

Una sconfitta che evidentemente non è stata ben digerita dai tifosi dei Blues: tra il 9 e l’11 gennaio è stata resa nota la notizia di tre buste contenenti proiettili intercettate dalla Royal Mail e indirizzate a Lennon e ai due giocatori nordirlandesi della squadra, Paddy McCourt e Niall McGinn. Le buste dirette a Lennon e McGinn sono state intercettate all’ufficio di smistamento di Mallusk (nella contea nordirlandese di Antrim), mentre quella diretta a McCourt, scoperta un paio di giorni dopo, è stata fermata in un sorting office già a Glasgow. Tutte e tre le missive erano state spedite dall’Irlanda del Nord. Paddy McCourt, soprannominato “il Pelé di Derry”, è alla terza stagione con il Celtic e ha vestito quattro volte la maglia della nazionale. Niall McGinn, ventitreenne, è approdato al Celtic nel 2009, un anno dopo aver debuttato in nazionale contro l’Ungheria, primo giocatore del Derry City a vestire la maglia dell’Irlanda del Nord da 19 anni. Pupillo del commissario tecnico Nigel Worthington, ha già collezionato dieci presenze internazionali. Nessuno dei due giocatori aveva mai ricevuto intimidazioni prima d’ora, a differenza di quanto successo a Lennon. L’allenatore ha voluto parlare con entrambi i giocatori e consigliarli, memore della sua storia e della sua esperienza. “Nessuno meglio di Neil può aiutare i giocatori ad attraversare questi avvenimenti”, ha dichiarato il vice di Lennon Johann Mjällby. Non solo nel 2008 Lennon era finito in ospedale dopo esser stato aggredito a Glasgow da parte di alcuni tifosi del Rangers, ma l’odio settario è stata anche la causa della fine prematura della sua carriera internazionale.

Neil Lennon ha vestito quaranta volte la maglia della nazionale nordirlandese, esordendo contro il Messico nel 1994. Cattolico, nel 2000 approdò a Glasgow – sponda Celtic – ricevendo in cambio i fischi e gli insulti del Windsor Park di Belfast in occasione di diverse partite della nazionale, al punto che il giocatore minacciò il ritiro nel febbraio 2001 dopo una partita contro la Norvegia. Un ritiro rinviato di poco più di un anno: il 21 agosto 2002 Lennon avrebbe dovuto guidare la propria nazionale in un’amichevole contro Cipro proprio al Windsor Park, diventando così il primo capitano cattolico nella storia della green and white army. Quella sera Lennon non giocò. Non avrebbe mai più rappresentato la propria nazionale, annunciando il ritiro pochi giorni dopo. Motivo della decisione le minacce di morte ricevute dal giocatore: poche ore prima del match, con una telefonata alla sede di Ormeau Road della BBC, la Loyalist Volunteer Force aveva annunciato che avrebbe ucciso Lennon se questi avesse messo piede in campo. Una telefonata controversa, visto che non conteneva nessuna delle parole d’ordine segrete con cui i gruppi paramilitari nordirlandesi autenticano le proprie minacce e rivendicazioni per evitare che qualsiasi impostore, qualsiasi eejit from the street, possa chiamare e parlare a nome loro. In seguito la LVF avrebbe declinato qualsiasi responsabilità riguardo all’accaduto, affermando sarcasticamente che “sta a Lennon decidere se giocare o meno, non siamo certo noi a fare la formazione”. Era possibile, come suggerì Neil Mackay dalle colonne del Sunday Herald, che si trattasse solo di un eejit, un “idiota” che voleva terrorizzare il giocatore. Certo è che l’odio settario non poteva in ogni caso essere ignorato dalla federazione nordirlandese, dalle forze dell’ordine e da Lennon stesso. La LVF aveva rotto l’accordo di cessate il fuoco meno di un anno prima, assassinando il giornalista investigativo Martin O’Hagan, concittadino di Lennon e responsabile di aver portato alla luce storie di racket e traffico di droga in collegamento all’organizzazione paramilitare. Pochi giorni prima del match – ironicamente sponsorizzato dall’associazione di promozione della convivenza Community Relations Council e inserito nella campagna Kick Sectarianism Out of Football – qualcuno aveva graffitato, nei pressi della casa dei genitori di Lennon, la scritta NEIL LENNON RIP e la silhouette di un impiccato. Padre di una bambina di dodici anni, il giocatore dichiarò: “Non posso far passare la mia famiglia attraverso questi problemi ogni volta. È un peccato che debba finire così, ma ci ho pensato a lungo e ho deciso che non tornerò a giocare per l’Irlanda del Nord. Sono molto deluso dal fatto che il mio desiderio di giocare per la mia nazione, in occasione della mia prima opportunità di capitanare la mia squadra, sia stato portato via”.

I SAMURAI FANNO SUL SERIO

Partiti come grandi favoriti della Coppa d’Asia, i Samurai Blu hanno terminato il loro girone in prima posizione per poi battere i padroni di casa del Qatar nei quarti di finale, al termine di una gara molto tirata e spettacolare.

GiapponePartiti come grandi favoriti della Coppa d’Asia, i Samurai Blu hanno terminato il loro girone in prima posizione per poi battere i padroni di casa del Qatar nei quarti di finale, al termine di una gara molto tirata e spettacolare. Parliamo quindi proprio dell’approccio tattico delle due squadre, focalizzandoci in particolare sulla nazionale del Sol Levante, e vediamo com’è andata la partita e chi ne è stato il grande protagonista.

Padroni di casa schieratisi con un classico 4-4-2 con Burhan a difesa dei pali protetto da una linea a quattro composta, da destra a sinistra, da Al-Hamad, Mohammed, Al Ghanim ed Abdulmaged. Ismail ed El Sayed le ali di centrocampo, Rizki e Quaye i mediani. Davanti, infine, Ahmed e Soria l’uno al fianco dell’altro. Di contro i giapponesi rispondono con un 4-2-3-1 con Kawashima in porta, Inoha e Nagatomo terzini e Yoshida-Uchida centrali. Endo e Hasebe i centrocampisti con licenza di rompere il gioco altrui per fare ripartire l’azione, ed un trio di trequartisti composto da Kagawa, Honda ed un Okazaki con licenza di scambiarsi di posizione con l’unica punta, Maeda.

Subito una buona partenza da parte dei padroni di casa che applicando un gran pressing sul centrocampo avversario impediscono alle due fonti di gioco nipponiche di poter impostare l’azione con efficacia. Per amplificare l’operato dei mediani, quindi, anche l’accoppiata Soria-Ahmed si mette a fare pressing alto, dando non pochi problemi al duo Uchida-Yoshida. Pressing, quello qatarese, abbinato ad una linea di difesa molto alta atta a tenere quanto più corta possibile la squadra. Aspetto, questo, riscontrabile anche da parte nipponica. Presto detto quale ne è stato il risultato: congestione massima a centrocampo.

E’ comunque bene, trattandosi di una rubrica di tattica calcistica, soffermarci un pochino di più sulla difesa giapponese. Perché come tutti credo ricorderete il buon Zaccheroni divenne famoso per l’adozione di un modulo poi non molto usato, ovvero sia un 3-4-3 che prevedeva una linea difensiva composta da tre soli uomini, contro i quattro di questo Giappone. Andando bene a vedere, però, la linea difensiva nipponica sa mutare di forma e sostanza un po’ con la stessa facilità con cui un camaleonte cambia il colore della propria pelle. Spesso e volentieri, infatti, uno dei terzini va a stringersi avvicinandosi ai centrali dando via libera all’altro, più libero di avanzare. Questo, che con la formazione base del match in esame vedeva spesso Inoha accentrarsi ed il cesenate Nagatomo sganciarsi, permette quindi alla retroguardia della nazionale del Sol Levante di passare da quattro a tre uomini, mutando quindi anche l’approccio difensivo della squadra intera.

Finezze tattiche a parte va comunque detto che ad inizio match ciò che si fa sentire di più è il fattore campo, che carica a molla i padroni di casa. Spronati dalla voglia di ben figurare davanti al proprio pubblico, infatti, i ragazzi allenati da Bruno Metsu partono subito a spron battuto cercando di imporsi fin dai primi attimi. Non risulta quindi essere un caso se Kawashima sarà chiamato a compiere due interventi importanti già nei primi nove minuti di gioco. Il tutto anche perché la difesa alta di cui abbiamo parlato risulta in realtà rivelarsi un’arma a doppio taglio per i Samurai Blu: se da una parte permetterà loro di tenere corta la squadra dall’altra darà modo agli avversari di poter colpire in velocità, quantomeno quando la trappola del fuorigioco non è in grado di scattare. Un po’ come al dodicesimo minuto di gioco, insomma, quando l’uruguaiano Soria, naturalizzato qatariota proprio per questioni calcistiche, s’infila sulla sinistra della retroguardia nipponica per poi, una volta entrato in area, battere Yoshida nell’uno contro uno andando ad infilare l’estremo difensore avversario con un tiro sul primo palo che, in realtà, sarebbe stato parabilissimo.

Parlando di tasso tecnico, però, il divario è ampio. E questa differenza si fa sentire in special modo quando i nipponici decidono di far girare palla. Come al ventottesimo minuto, quando imbastiscono una bella azione che viene finalizzata da Kagawa, stellina di quel Borussia dei miracoli di cui vi parlai settimana scorsa. Il tutto, e non è un caso, nasce sulla sinistra: come abbiamo detto, infatti, Nagatomo ha licenza di spingere e proprio la sua pressione costante risulta essere un aiuto non indifferente alla squadra. Interessante, nell’occasione, vedere il movimento della star di Dortmund, che dopo aver ricevuto ai venticinque metri dalla porta scaricherà il pallone centralmente per Honda, puntando poi proprio la porta qatariota. Movimento importante, questo: il trequartista del CSKA, infatti, servirà di prima intenzione Okazaki che partito sul filo del fuorigioco si presenterà a tu per tu con l’estremo difensore avversario, provando a batterlo con un pallonetto che si rivelerà però un po’ corto. Non troppo corto, tuttavia, per Kagawa, che scattato alle spalle di tutti i difensori potrà andare a raccogliere il pallone per infilarlo comodamente in rete prima che la retroguardia di casa possa intervenire e sventare la minaccia.

Ad inizio ripresa Metsu, grande giramondo del calcio mondiale, aggiusta la sua squadra arretrando e decentrando Ahmed sulla trequarti destra, per cercare di contrattaccare Nagatomo impedendogli così di affondare con continuità sulla fascia ed inserendo l’ex napoletano Montezine in luogo di El Sayed per avere più qualità a centrocampo. Il match però cambia intorno all’ora di gioco, quando Yoshida viene ingiustamente espulso per doppia ammonizione (la sua entrata su Ahmed è sul pallone, cartellino giallo fuori luogo) e sulla punizione che ne segue Kawashima commette un errore piuttosto grossolano sulla conclusione di Montezine, favorendo il secondo vantaggio della squadra di casa.  A quel punto il nostro Zaccheroni si trova di fronte ad un problema non da poco: c’è in fatti da dare un nuovo equilibrio ad una squadra che va a trovarsi in inferiorità numerica. Per provare a sistemare le cose, quindi, il tecnico di Meldola inserisce un centrale difensivo, Iwamasa, al posto dell’unica punta, Maeda, passando quindi ad un 4-2-3 in cui sarà Honda a dover rivestire il duplice ruolo di trequartista centrale e, all’occorrenza, punta.

I padroni di casa, però, non sapranno sfruttare l’uomo in più: lasceranno infatti assolutamente troppo campo agli avversari che anche grazie ad una maggiore tecnicità riusciranno ad improntare l’ultimo terzo di gara su di un possesso palla spiccatamente in loro favore, con il duo Endo-Hasebe che prenderà in pieno possesso del centrocampo. A fare la differenza, quindi, sarà il maggior tasso tecnico della squadra dell’estremo oriente, così come il loro maggior coraggio e la presenza di un Kagawa assolutamente ispirato: dopo aver realizzato il primo pareggio, infatti, la stellina del Borussia andrà a siglare anche il secondo al termine di un’azione molto manovrata che darà bene l’idea dello schiacciamento verso la propria area dei padroni di casa, la cui fragilità difensiva resterà però praticamente invariata e permetterà al numero 10 nipponico di riequilibrare il risultato.  Non contento, poi, il piccolo trequartista di Hyogo propizierà anche la rete del definitivo 3 a 2 raccogliendo al limite dell’area un suggerimento di capitan Hasebe ed infilandosi all’interno della stessa per poi servire Inoha che potrà quindi realizzare indisturbato la rete della definitiva vittoria dei Samurai Blu.

Soluzioni tattiche interessanti, quelle approntate da Zaccheroni in questa sua esperienza asiatica. E chissà che proprio le scelte del mister di Meldola non risultino alla fine decisive verso una vittoria che tutti quanti attendono, nel paese del Sol Levante.