IL NONNO IN ROSA

La storia di Andrea Noè, il più anziano tra i corridori al Giro d’Italia.

Tra i 207 corridori in gara al Giro d’Italia 2011 attualmente in corso, il più anziano è Andrea Noè, 42 anni compiuti lo scorso 15 gennaio. Alle spalle una carriera onesta, quasi sempre al servizio dei più quotati compagni di squadra, ma con qualche grande soddisfazione che ha contribuito a farlo entrare, ancora di più, nel cuore degli appassionati.

Andrea Noè nasce a Magenta, cittadina alle porte di Milano, all’inizio del 1969. Nel suo caso, sarebbe sbagliato parlare di “una vita a pedali”, come si fa con molti atleti che iniziano a pedalare sin dalla tenera età: infatti, trascorre l’infanzia sui campi di pallavolo, innamorandosi della bicicletta solo da adolescente. E quando dice ai genitori che intende passare al ciclismo, questi, preoccupati, lo portano dal medico. Tutti gli dicono che è troppo magro per poter reggere le fatiche delle due ruote, ma Andrea, sin dalla prima gara disputata a 16 anni e mezzo dove finisce davanti al fratello che correva già da qualche anno, dimostra una costanza e una grinta fuori dal comune. La trafila nelle categorie giovanili è costellata di sudore ma anche di qualche successo, come la vittoria nella Bologna-Raticosa, impegnativa scalata al colle appenninico, che mette in mostra le sue doti di scalatore puro.

Nel 1993, all’età di 24 anni, arriva il debutto tra i professionisti, con la maglia della Eldor dove corre anche Marco Giovannetti, vincitore della Vuelta nel 1990: al servizio dell’esperto corridore toscano, Noè scopre il “suo” ciclismo, la sua vocazione, il suo modo di interpretare le corse. Non attaccare da lontano o fare volate (nelle quali più di una volta ha ammesso di essere assolutamente negato), non staccare i big in salita o tentare azioni da falco in discesa: ma lavorare per gli altri, tirare, faticare, sudare. Proteggere e servire, per usare il gergo poliziesco. E come molti altri “gregari”, termine che racchiude tutta l’umiltà, la leggenda e la professionalità del ruolo, si guadagna presto il soprannome di “Brontolo”, del corridore che, stando spesso in testa o in coda al gruppo principale, si trova a litigare con le telecamere della ripresa televisiva, a volte troppo vicine ai primi corridori. Una stagione dopo l’altra, una tirata dopo l’altra, questo corridore alto, castano e occhialuto si trova in squadra con tutti i più grandi atleti dell’ultimo quindicennio ciclistico: Tony Rominger, Johan Musseuw, Claudio Chiappucci, Michele Bartoli, Paolo Bettini, Mario Cipollini, Stefano Garzelli, Ivan Basso e Vincenzo Nibali. Dei big, perlomeno italiani, gli manca solo aver corso con Marco Pantani, quello che, come ricorda il milanese in una recente intervista, “quando scattava, noi ci giravamo dall’altra parte”, per non vedere il distacco clamoroso che infliggeva al gruppo in pochi metri. Tra una brontolata e una salita presa a tutta per il proprio capitano, la sua carriera ha anche un paio di perle degne dei più grandi campioni.

San Marino, 27 maggio 1998, Giro d’Italia: 173 km di fuga, scatti e controscatti con l’altro attaccante Chepe Gonzales sull’ascesa del Titano, una grinta scatenata a grandi scariche sui pedali per contenere il ritorno dei migliori. Alla fine, le mani al cielo, sette secondi sette e una cinquantina di metri di vantaggio su Marco Pantani, dopo una giornata tutta in testa. La gioia, poca, perché lui è un Brontolo di natura; la soddisfazione, tanta, perché una vittoria così vale una carriera, anche se il capitano Bartoli si arrabbia, perché credeva che quella tappa fosse disegnata apposta per lui. E due giorni dopo, a Schio, proprio quando Bartoli si rifà della delusione vincendo allo sprint su Guerini e Bettini, il milanese indossa la prima maglia rosa della sua vita. Nella frazione successiva, sotto la pioggia battente di Piancavallo, l’avventura da leader di Noè finirà, con un po’ di rammarico ma la consapevolezza di aver dato il massimo, come sempre.

Pur essendo un gregario, in salita è sempre tra gli ultimi a staccarsi, nonostante la fatica del lavoro di squadra: si spiega così il quarto posto nella classifica finale del Giro d’Italia 2000, addirittura davanti al capitano ufficiale della sua Mapei, ovvero il russo Pavel Tonkov. Lo stesso piazzamento nella graduatoria conclusiva viene ripetuto tre anni più tardi, nel secondo Giro vinto da Gilberto Simoni. Oltre a quei due giorni di gloria nel 1998 e a questi importanti risultati, la vita da gregario di Noè gli ha riservato anche il successo nella tappa di Leysin al Giro di Romandia nel 2000. Anno dopo anno, diventa uno dei corridori più esperti del gruppo, e non è raro sentire voci di ritiro sul suo conto. Ma anche da “vecchio”, lui c’è sempre, e a 38 anni inoltrati, nel 2007, indossa per altre due volte il simbolo del primato al Giro d’Italia, diventando così la maglia rosa meno giovane nella storia della nostra corsa nazionale.

Quando la Liquigas lo esclude all’ultimo dal Giro 2009, il quarantenne magentino sembra veramente prossimo ad appendere la bici al chiodo, ma tiene duro ancora un anno: tuttavia, la stagione 2010 in maglia Ceramica Flaminia non gli permette ancora di prendere parte alla corsa rosa, visto che la sua squadra non viene invitata per le vicende di Riccardo Riccò. Mollare? Mai. Si arriva a 42 anni, stagione 2011, e promette nuovamente che sarà l’ultima. Andrea detto “Brontolo” deve finire la propria avventura ciclistica al Giro d’Italia, e oggi, finalmente, è al via della cronosquadre di Venaria, al servizio del campione nazionale Giovanni Visconti. 600.000 chilometri pedalati nei 18 anni da professionista, pari a quattordici giri della Terra. Tutto in quel cognome, Noè, come il vegliardo della Bibbia che campò, si dice, 950 anni. In sella, una vita di fatica e di servizio. In casa, una vita tranquilla, come tutti gli antidivi che si rispettano, con la moglie Simona e la figlia Camilla. Con la cronometro di Milano del 29 maggio la sua epopea ciclistica, proprio nel giorno del compleanno della sua sposa, finirà definitivamente. Ma il mito dell’eterno e fedele Noè aleggerà sempre sul gruppo, come quello dei grandi campioni.

UNA VITA A DUE RUOTE

Dieci anni in gruppo, quasi sempre a tirare per i più blasonati capitani, ma con alcune grandi soddisfazioni personali come la vittoria in una tappa al Giro d’Italia e in un’altra al Tour de France. Tante stagioni in ammiraglia, a dirigere Marco Pantani e Mario Cipollini, giusto per citarne due. E poi il suo inconfondibile accento toscano è diventato un simbolo, una garanzia di qualità per gli appassionati italiani delle due ruote, grazie alle sue telecronache con Andrea Berton, sulle frequenze di Eurosport. Senza dimenticare anche la passione dell’ippica, condivisa con un altro grande ex del ciclismo come Claudio Chiappucci, che lo porta a trottare per gli ippodromi d’Italia. Riccardo Magrini, classe 1954 di Montecatini Terme, è questo e tanto altro.

Riccardo Magrini, una vita legata al ciclismo: cosa ti spinse a salire in bicicletta?

«Ho cominciato la mia avventura casualmente, grazie al cugino di mio padre che aveva una bici da corsa e faceva il cicloamatore. Dopo essere stato promosso, chiesi ai miei un motorino in regalo, ma loro, ritenendolo troppo pericoloso, preferirono darmi una bicicletta da corsa. Così un giorno chiesi a Lauro Monti detto “Canardo”,il mio parente,  di portarmi con gli altri cicloamatori per vedere come fosse questo sport; pur senza forzare, li staccai tutti su una salitella, e proprio lui mi convinse a tentare la strada delle corse».

Com’era il Riccardo Magrini corridore? Qual è la vittoria che ricordi più volentieri?

«In gruppo mi chiamavano Jerry Lewis o Adriano Celentano, ma fondamentalmente per tutti ero il “Magro”, soprannome che mi è rimasto per sempre. Ero un corridore votato alla squadra, il classico gregario. Da dilettante andavo forte, e dopo la partecipazione ai Campionati del Mondo di Montreal nel 1974 sarei dovuto passare tra i professionisti, tuttavia rimasi ancora in quella categoria a causa di un inghippo regolamentare. Forse fu proprio questo episodio a condizionare tutta la mia carriera, ma comunque direi che è andata più che bene. La vittoria più bella? Beh, ho vinto solo tre gare e quindi le ricordo tutte volentieri: il Giro della Provincia di Reggio Calabria nel 1982, la tappa di Montefiascone al Giro d’Italia e quella di Île de Oléron al Tour de France nel 1983».

Poi sei salito in ammiraglia e hai diretto tanti grandi atleti: uno  rimasto nel cuore in particolare?

«Un nome secco: Marco Pantani».

L’esperienza di Eurosport, al fianco di Andrea Berton: come valuti questo lavoro? Dovessi ripartire da capo, rifaresti tutto il tuo percorso professionale?

«È un’esperienza bellissima che ho sempre desiderato di fare, sin da ragazzo. Grazie ad Andrea Berton sto avendo un grande consenso da parte di tanti appassionati che ci seguono assiduamente ed evidentemente apprezzano il nostro modo di raccontare il ciclismo. Se rifarei tutto? Correggendo qualche episodio sì, ma comunque non ho grossi rimpianti».

Quanto è diverso il ciclismo di oggi da quello che hai vissuto come atleta?

«Forse sono cambiati i rapporti umani, ma in fin dei conti, sia che vai in bici per divertimento, sia che lo fai per lavoro, alla base deve esserci sempre una grande passione. Il ciclismo è un bello sport proprio per questo».

Una curiosità: la tua insana passione per Carlos Barredo (corridore spagnolo della Rabobank, ndr) da dove deriva?

«(ride) È tutto nato dal mio modo di accostare, a volte, il cognome di un atleta con quello di altri personaggi. Con Carlos è stato facile, perché da Barredo a Barreto cambia solo una consonante, e quindi per me è diventato “Carlos Marino Barredo jr” giocando sull’assonanza del suo nome con un noto cantante cubano degli anni cinquanta, ovvero Don Marino Barreto jr. Il resto lo ha fatto lui col suo modo di interpretare le corse. Quando ho avuto il piacere di incontrarlo, si è dimostrato veramente molto gentile: da qui è nata l’insana passione, che mi porta a “tifare” per lui durante le varie competizioni».

Qualcuno ti avrà anche detto, nel corso degli anni, di “darti all’ippica”: alla fine hai seguito il consiglio… meglio un cavallo o una bicicletta?

«Entrambe sono due grandi passioni. Il cavallo da corsa è l’atleta, esattamente come il ciclista, quindi avresti dovuto chiedermi di scegliere tra la bici e il Sulky. In quel caso ti avrei risposto così: che tutti e due hanno un sellino e le ruote, la differenza la fa proprio l’atleta, e io stimo sia il corridore, sia il cavallo. Come dico sempre in telecronaca, “Donne, Cavalli e Corridori non c’ha mai capito nulla nessuno!».

ROBERTO LAISEKA, CUORE BASCO

Andiamo alla scoperta di Roberto Laiseka, uno dei principali intepreti del ciclismo basco

Roberto LaisekaDa anni ormai, in ogni grande corsa a tappe del ciclismo mondiale c’è una presenza fissa, una squadra che non cambia né sponsor né maglia: è la Euskaltel-Euskadi, una vera nazionale basca, formata unicamente da corridori e tecnici di questa particolare comunità della Spagna pirenaica. Sin dal 1994 le divise arancioni di questo team sono il simbolo ciclistico dei Paesi Baschi: persino le biciclette usate dagli atleti, di marca Orbea, sono fabbricate in quella regione. Considerando il paesaggio tipicamente montano della zona in questione, non c’è da stupirsi che quasi tutti i ciclisti della Euskaltel siano scalatori puri. Nelle tappe di montagna, infatti, sono sempre tra i protagonisti principali, incitati da migliaia di loro tifosi e corregionali che accorrono sulle principali salite alpine e pirenaiche, colorando di arancione la giornata al grido di “Gora Euskadi”, forza Paesi Baschi. Roberto Laiseka, al pari di Iban Mayo e Haimar Zubeldia, è stato uno dei principali interpreti non solo del ciclismo basco, ma anche del carattere mai domo, fiero ed orgoglioso di quella gente.

Nato a Guernica, la città immortalata in tutto il suo dolore da Pablo Picasso, il 17 giugno 1969, Laiseka cresce negli anni in cui, a breve distanza, si alternano due campionissimi delle due ruote, ovvero Eddy Merckx e Bernard Hinault, stagioni nelle quali il ciclismo spagnolo è comunque brillante con ottimi atleti dal calibro di Luis Ocaña, José Manuel Fuente e Pedro Delgado. Alto e slanciato (184 cm per 63 kg), Roberto ha dunque il “phisique du role” per fare lo scalatore. Dopo la tradizionale gavetta nelle categorie giovanili e dilettantistiche, passa tra i professionisti nel 1994, con la neonata Euskadi. Nelle prime stagioni da professionista non riesce a dare pieno sfogo alle sue grandi capacità, sbagliando spesso i tempi dell’azione in corsa: anno dopo anno tuttavia, l’esperienza accumulata gli permette di guadagnare lucidità e razionalità, doti fondamentali per vincere ad alto livello, perché anche nelle tappe di montagne, notoriamente le più spettacolari, spesso non bastano un gran cuore e due gambe in forma per poter trionfare. Per scoprire la gioia della vittoria, Laiseka deve aspettare i 30 anni: è la diciottesima tappa della Vuelta a España 2000, con traguardo sul temibile Alto de Abantos, salita che l’atleta basco doma sfruttando in maniera perfetta la volontà di Ullrich, Gonzales de Galdeano e Heras, i big della classifica, di controllarsi reciprocamente; in un mare di bandiere arancioni, Roberto transita per primo sul traguardo con una ventina di secondi sul belga Vandenbroucke, straordinario e sfortunato campione. L’anno dopo la stessa corsa gli regala il secondo urrà della carriera: al termine di una lunga fuga a sei, Laiseka scatta ad una manciata di chilometri dall’ambito traguardo di Andorra-Arcalis, facendo letteralmente il vuoto, visto che il secondo classificato, il bravo Carlos Sastre, è a quasi un minuto di distacco. Sfiora il successo anche dieci giorni più tardi, a Ciudad Rodrigo, ma qualche incomprensione di troppo con l’altro fuggitivo García Acosta permette al kazako Vinokourov di rientrare su di loro, beffandoli a 400 metri dall’arrivo, tra lo sconforto generale del pubblico. Per quanto in montagna sia sempre tra i protagonisti, Laiseka perde un’eternità nelle prove a cronometro, come succede sempre agli scalatori più puri, e quindi non può mai essere pienamente competitivo per la vittoria finale di una grande corsa a tappe, dovendosi accontentare solo di qualche piazzamento: infatti, potrà vantare al massimo un sesto posto nella graduatoria generale proprio di quella Vuelta.

L’impresa più bella della sua carriera non arriva sulle strade spagnole, ma su quelle francesi: è la quattordicesima tappa del Tour de France 2001, ultima frazione di montagna di quella Grande Boucle, col traguardo posto a Luz Ardiden, spettacolare località pirenaica. Ullrich, Kivilev e Beloki non hanno né le possibilità né le gambe per attaccare Lance Armstrong, dominatore assoluto, per la seconda delle sue sette volte, di quel Tour, e dunque c’è spazio per i cacciatori di tappe, per gli scalatori puri in cerca di gloria. La lunga fuga partita sin dal mattino si sparpaglia tra l’Aspin e il Tourmalet, e il bergamasco Wladimir Belli, eterno piazzato del grande ciclismo (basti pensare ai 25 piazzamenti tra i primi dieci in tappe del Giro d’Italia, senza la gioia di un successo), culla il sogno dell’impresa, ma non ha fatto i conti con Roberto Laiseka: quel giorno, l’atleta basco non è da solo, perché tutto il suo popolo è sulle strade di quell’ascesa, tra prati e tornanti, in un tripudio di bandiere arancioni e di Gora Euskadi. Ai -10 dal traguardo Laiseka rompe gli indugi, salutando il gruppo dei migliori e piazzandosi all’inseguimento del bergamasco, ormai sfinito, raggiungendolo nel giro di pochi minuti. In testa da solo, gli ultimi chilometri segnano il vero trionfo del ragazzo di Guernica, incitato da due ali di folla che sembrano due pareti umane a fianco della strada: uno spettacolo, quello di un pubblico del genere, che solo il ciclismo sa regalare. Laiseka passa la linea d’arrivo facendosi ripetutamente il segno di croce e fatica, dopo uno sforzo ed un’emozione del genere, a trovare il fiato e le parole giuste per rispondere alle domande degli incombenti cronisti; Belli, che dedica il piazzamento al compianto Casartelli, è secondo a 54’’.

Dopo quel giorno di gloria, il Cuore Basco di Laiseka, sempre più in sintonia con una grande lucidità tattica e un’ottima visione di corsa, brillerà altre due volte: ad Arrate, nella Bicicletta Basca del 2004, e ad Aramón Cerler, stazione sciistica dell’Aragona, nella Vuelta 2005. Appende la bicicletta al chiodo al termine della stagione successiva, a 37 anni suonati solamente a causa di un infortunio al ginocchio: la sua carriera gli ha regalato solo cinque successi, ma di una qualità veramente straordinaria. Le tredici stagioni in sella lo hanno visto indossare unicamente la casacca dell’Euskaltel-Euskadi, contribuendo a renderlo un vero idolo dei tifosi baschi, tra i quali è ancora oggi idolatrato come una delle principali espressioni sportive del coraggio, del temperamento e, appunto, del cuore di quella popolazione.

FABIANO FONTANELLI, VELOCE E FURBO

Fabio FontanelliNelle stagioni d’oro di Marco Pantani, al centro del gruppo c’era sempre una “chiazza gialla”: era il Pirata con i suoi uomini della Mercatone Uno, presenza fissa nel plotone di quegli anni. Fabiano Fontanelli faceva parte di quella squadra, ma sarebbe riduttivo descrivere il corridore nato a Faenza nell’aprile di 46 anni fa come un gregario duro e puro. In quindici anni di onorata carriera il “Fonta” ha infatti portato a casa qualcosa come 37 vittorie, tra le quali spiccano quattro tappe al Giro d’Italia. Negli anni del fortunato sodalizio con Pantani, le sue doti di passista-veloce tornavano molto utili alla causa della Mercatone Uno: nelle stagioni precedenti invece, con le divise di Selca, Italbonifica, Navigare, ZG Mobili ed MG, spesso Fontanelli rivestiva i gradi di capitano e battagliava nelle volate di gruppo con Zabel, Cipollini e gli altri grandi sprinter dell’epoca, non disdegnando qualche coraggioso tentativo nelle grandi classiche del Nord. Sceso di sella a fine 2003, per un paio di stagioni ha diretto dall’ammiraglia la Ceramiche Panaria, la storica squadra guidata da Bruno e Roberto Reverberi, prima di staccare definitivamente la spina col ciclismo professionistico. Abbiamo avuto il piacere di sentirlo e di farci raccontare alcuni aneddoti della sua brillante carriera.

Fabiano Fontanelli, 37 successi in 15 anni di carriera: qual è quello che ricordi con maggior soddisfazione?

Sicuramente il mio primo successo al Giro d’Italia: era l’undicesima tappa dell’edizione 1993, col traguardo a Dozza, nella “mia” Romagna, davanti ai miei tifosi. Vincere praticamente in casa è stata davvero una grande gioia.

E invece, ripercorrendo tutte quelle annate, qual è il rammarico più grande?

Credo di aver fatto una bella carriera, per cui non ho grossi rimpianti: certo, sarebbe stato bello vincere una delle grandi classiche, però quella…è roba da campioni!

È normale che il tuo nome, data la lunga militanza in Mercatone Uno, sia associato a quello di Pantani: che ricordo hai di lui?

Non credo che il mio nome sia sempre e solo associato a quello di Marco, anche se, avendo corso con lui negli ultimi cinque anni di carriera, un po’ ci sta: era proprio un bel personaggio, che aveva la sua forza nella semplicità, e credo fosse questo il motivo per cui piaceva così tanto agli appassionati.

In diverse occasioni ti abbiamo visto lanciato anche negli sprint di gruppo: non bisogna essere un po’ “pazzi” per fare una volata a 70 km/h?

Eh sì, bisogna essere un po’ pazzi, non c’è che dire. Io comunque ho fatto poche volate di gruppo, quasi tutte nei primi anni di carriera: mi rendevo conto di essere veloce, ma non così tanto da mettere in fila duecento corridori. Per questa ragione, ho gradualmente cambiato il mio modo di correre, cercando di portar via una fuga già a parecchi chilometri dal traguardo per regolare i compagni di avventura allo sprint finale, sfruttando la mia rapidità. Veloce sì, ma anche furbo!

Come valuti la tua esperienza da direttore sportivo con la Ceramiche Panaria? Come mai non è proseguita?

E’ stata indubbiamente una bella esperienza, ma alla fine avevo dei problemi di salute ed ero anche stanco di star sempre via da casa: dopo 15 anni in gruppo, non sarei riuscito a farne altrettanti in ammiraglia, era davvero un grande impegno. Oggi seguo dei dilettanti (fa parte della Commissione Tecnica federale dell’Emilia-Romagna, ndr), lavoro un po’ meno impegnativo ma che mi permette anche di stare al contatto con i giovani, e questo è gratificante.

Cosa pensi del problema-doping nel mondo del ciclismo?

È assolutamente fondamentale combattere il doping con la massima serietà, ma a volte ho l’impressione che nel ciclismo ne sia stata fatta quasi una questione “politica”, che preferisco non commentare perché esula dalle mie capacità di comprensione.

PAOLO FORNACIARI, CUORE DI GREGARIO

Dai successi tra i dilettanti al treno di Re Leone: un profilo di Paolo Fornaciari, quindici anni da gregario di lusso

Paolo FornaciariFilastrocca del gregario
corridore proletario,
che ai campioni di mestiere
deve far da cameriere,
e sul piatto, senza gloria,
serve loro la vittoria
.

Ci sono quei corridori che vincono e stravincono, sempre sul podio o a caccia di tappe, di classiche, di grandi giri. E ci sono quei corridori che aiutano a vincere e a stravincere, ad andare sul podio e a caccia di tappe, di classiche, di grandi giri. Il termine che identifica questo genere di atleti è “gregario”, già in uso nell’antica Roma per indicare i soldati semplici privi di gradi. Il grande Gianni Rodari, con la filastrocca riportata sopra, li ha definiti meglio di moltissimi esperti di ciclismo. E in questa definizione rientra appieno Paolo Fornaciari. Il nome sarà forse noto solo a qualche vero appassionato delle due ruote, proprio perché il “lavoro oscuro” è stata la sua forza, come quella di tutti i gregari.

Paolo Fornaciari nasce nella splendida Viareggio il 2 febbraio 1971, figlio di Mario e Graziella. La Toscana è da sempre terra di ciclisti, per le sue colline verdeggianti alternate a interminabili pianure: il ragazzo non fa eccezione, e a 7 anni inizia a gareggiare tra i giovanissimi con la maglia dell’U.C. Stiava, cogliendo qualcosa come 100 vittorie in cinque anni di gare. Il salto di categoria, prima tra gli esordienti e poi tra gli allievi, non gli fa perdere la mentalità vincente, visto che il Fornaciari in divisa U.S. Versilia porta a casa 75 successi spalmati su quattro stagioni. Dal 1988 al 1992 gareggia poi con i colori del G.S. Bottegone, squadra dell’entroterra pistoiese, dove trova un grande feeling con la gente del paese e con il presidente della società Renzo Bardelli. Del resto, Paolo è un toscano a tutti gli effetti: cresciuto col mito di Gino Bartali, ha un carattere schietto e guascone, che non può non renderlo simpatico ai più. I successi diminuiscono di numero ma sono di grande qualità, considerando le difficoltà delle categorie juniores e dilettanti: fa suo un durissimo Giro del Casentino, vince il campionato regionale toscano, fa parte del quartetto che trionfa ai Mondiali Militari in Olanda nel 1990 e sfiora il Mondiale juniores di Mosca 1988, raggiunto ai 3 km dal traguardo dopo un’interminabile fuga con vista sul Cremlino. In quegli anni i suoi duelli con Michele Bartoli e Francesco Casagrande, altre gemme del ciclismo toscano, riempiono le pagine dei quotidiani locali, convinti che queste tre stelle regaleranno grandissime soddisfazioni anche tra i professionisti.

A ventuno anno, Fornaciari firma per la Mercatone Uno diretta da Antonio Salutini e Flavio Miozzo: prima uno stage e poi questa squadra, che dal 1996 cambierà il main sponsor in Saeco, sarà casa sua dal 1993 al 1998. Proprio il team manager Salutini, toscano come lui, gli fa capire che potrà avere una lunga carriera al servizio dei compagni: qui avviene il cambiamento, qui il Fornaciari vincente delle categorie giovanili diventa il Fornaciari “gregario d’oro” che passerà in un lampo dalla testa alla coda del gruppo, dal tirare a ritmi forsennati al recuperare borracce e panini, sorridendo e scherzando, magari discutendo con qualche moto della carovana troppo vicina ai corridori (anche se il ruolo di “Brontolo” ufficiale del gruppo in quegli anni spettava a Fabio Baldato e Roberto Conti). Corre al fianco degli stessi Bartoli e Casagrande, oltre che del veloce Martinello, e fa sempre il suo lavoro con grande professionalità: che ci sia da recuperare sui fuggitivi o da essere il primo ad attaccare, da tirare una volata o da prendere le prime rampe di una salita a tutta, lui c’è, e viene rispettato e stimato da tutti per la sua propensione al sacrificio, oltre che per la sua simpatia. Nel 1994 arriva anche l’unico successo tra i professionisti: una tappa all’Herald Sun Tour, in Australia, sotto un caldo infernale, al termine di una fuga infinita. Valente passista col fisico da corazziere (191 cm x 80 kg, quando la buona cucina non lo tradisce), è al fianco di Ivan Gotti che vince il Giro d’Italia 1998, ed è uno degli immancabili componenti del “treno rosso” che lancia gli sprint del Re Leone Cipollini. Nel 1999 passa alla Mapei di patron Squinzi, dove ritrova Michele Bartoli, Paolo Bettini e Andrea Tafi: l’atleta di Fucecchio si aggiudica la Parigi-Roubaix di quell’anno anche grazie alla straordinaria prova dello stesso Fornaciari, che marca a uomo i suoi rivali e che lo “protegge” sino agli ultimissimi chilometri. Poi, sempre più esperto e sempre più gregario, torna alla Saeco nel 2003: il team, diretto da Giuseppe Martinelli, si fonde con la Lampre nel 2006 e sarà l’ultima squadra di Fornaciari. Gilberto Simoni (Giro d’Italia 2003) e Damiano Cunego, vincitore della corsa rosa l’anno successivo, possono contare sull’immortale “Forna”, pedina preziosissima per i loro successi, soprattutto nelle lunghe tappe di pianura dove occorre far girare le gambe a ritmi forsennati per tenere compatto il plotone. Non è raro vedere il toscano all’attacco in alcune frazioni dei grandi giri, per fare in modo che i suoi compagni possano stare al riparo nella pancia del gruppo principale.

Nel 2008, a 37 anni suonati, Paolo decide che è il momento di appendere la bicicletta al chiodo, dopo sedici stagioni di gioie e sacrifici, con la partecipazione ad undici edizioni del Giro d’Italia, 5 Tour de France, 4 Vuelta, 10 Gand-Wevelgem e 8 Parigi-Roubaix, tanto per fornire qualche numero indicativo.

Nella “su ‘asa” di Buggiano, dove risiede da molti anni a questa parte,, si dedica a smontare e rimontare motorini e a leggere i libri di Ken Follett: a differenza di molti colleghi, non resta nell’ambiente delle due ruote, ma, anche per rimanere vicino alla moglie Maddalena e alle figlie Greta ed Arianna, apre una gelateria in paese, mettendo a frutto le sue ottime abilità culinarie che, a causa della ferrea dieta dei ciclisti, venivano di molto limitate durante le stagioni in bici. Stranamente, la bottega si chiama “Ultimo Kilometro” ed è simboleggiata da un triangolo rosso, proprio come il segnale che contraddistingue gli ultimi mille metri di una corsa ciclistica. Perché corridori si resta sempre, anche quando si è scesi di sella.