ALGERIA: CALCIO E DISORDINI DAL 1988 A OGGI

La Federazione algerina ha sospeso il Campionato per un mese per circoscrivere la protesta che infuria.

“La musica e il calcio non hanno frontiere. Siccome trasmettono un’idea di festa, sono osteggiate da quelli che vogliono toglierci la libertà.” (Cheb Mami, cantante Raï algerino).

La decisione della Federcalcio algerina è di lunedì 10 gennaio: il campionato di calcio sarà sospeso per un mese, e non riprenderà prima del 10 febbraio. È la contromisura per i disordini scoppiati nei primi giorni dell’anno, in seguito ai rincari dei generi alimentari: olio e zucchero in particolare. Eppure le recenti sommosse non sono scoppiate all’interno degli stadi, ma nelle piazze e nelle vie delle più grandi città algerine: Orano, Constantine, Sétif, e soprattutto ad Algeri, dove si sono concentrate nel quartiere di Bab-el-Oued, l’epicentro della drammatica rivolta del cous cous dell’ottobre 1988.

Ma gli stadi di calcio rappresentano uno degli incubi peggiori del governo algerino. Diversamente che nei luoghi di lavoro, nei negozi, nei bar, sui mezzi pubblici e per le strade, dove la popolazione mantiene un atteggiamento estremamente guardingo, e pesa accuratamente le parole che dice, lo stadio è una zona franca. E come accadeva qualche decennio fa anche nei defunti regimi realsocialisti, sulle gradinate la libertà di espressione è garantita. Qui non solo è lecito ingiuriare il tifoso avversario o il proprio giocatore che svirgola il pallone, ma si può anche scaricare la frustrazione della vita quotidiana, magari infarcendo un’imprecazione con un insulto al governo, e ricevendo in cambio gli applausi convinti dei vicini di tribuna. Per questo motivo il regime algerino ha paura della potenzialità eversiva che può dirompere da uno stadio di calcio, e per circoscrivere la protesta ha deciso di mettere sotto chiave il campionato, almeno fino al ritorno della normalizzazione sperata. Dalla rivolta del 1988, che costò 162 morti e migliaia di feriti secondo le fonti ufficiali, ma che fornì anche le basi per l’avvio di un effimero processo di democratizzazione, degenerato quasi sul nascere in una lunga guerra civile strisciante tra la casta burocratico-militare al potere e gli estremisti islamici, il calcio ha giocato un ruolo di primo piano, al di là del significato sportivo intrinseco.

Ma ripercorriamo gli episodi di cronaca più drammaticamente significativi:

14 ottobre 1989 – Durante la partita tra la squadra locale del Mouludia Olimpique di Constantine e l’Entente Sportive di Sétif, un gruppo di ultras del Mouludia, armati di coltelli e spranghe, invade il campo, aggredendo i giocatori ospiti, e ferendone gravemente due, sotto gli occhi di sessantamila spettatori. In seguito a questo episodio e ad altri precedenti quasi altrettanto gravi, la Federcalcio algerina decide di sospendere il campionato per una giornata.

5 ottobre 1994 – Alì Tahanuti, presidente della Jeunesse Sportive di Bordj Menaiel, una squadra di prima divisione, viene assassinato da un commando armato di terroristi islamici. Il movente dell’attentato viene individuato nella calcio-fobia degli integralisti. Anche in quest’occasione le partite di campionato vengono sospese per un turno.

21 gennaio 1995 – Questa volta tocca a Rachid Haraigue, presidente della Federcalcio e uomo vicinissimo alla giunta militare al potere, soccombere sotto i colpi di un altro commando di terroristi. Dalla seconda metà degli anni novanta il calcio ritorna comunque a riempire gli stadi dell’Algeria, sia grazie alla diminuzione d’intensità della guerra civile, che come riflusso al progressivo disinteresse generale nei confronti della politica.

6 ottobre 2001 – La super-amichevole tra Francia e Algeria, organizzata allo Stade de France di Parigi a suggello della rappacificazione tra i due paesi un tempo nemici, viene interrotta pochi minuti prima del termine da un’invasione di campo dei giovanissimi tifosi franco algerini. Intervengono le brigate antisommossa francesi per riportare l’ordine sia nel campo che sugli spalti.

22 giugno 2002 – L’ennesimo commando armato del GIA (Gruppo Islamico Armato) irrompe in un campo di calcio, dove stanno giocando due squadre di ragazzini, provocando 6 vittime tra i giovanissimi calciatori.

26 maggio 2008 – Al termine del campionato, che vede il Meloudia di Orano retrocedere in seconda divisione, i tifosi inferociti mettono a soqquadro alcuni sobborghi della seconda città dell’Algeria. La polizia risponde con centinaia di arresti. Secondo gli organi d’informazione indipendenti, il calcio sta ormai diventando il pretesto per lo sfogo della frustrazione da parte della giovanissima popolazione algerina (il 75% degli algerini ha infatti meno di trent’anni).

18 novembre 2009 – Il rocambolesco spareggio di Khartoum, in Sudan, tra le nazionali dell’Egitto e dell’Algeria, finisce con la vittoria di quest’ultima, e la conseguente conquista della qualificazione ai mondiali 2010 in Sudafrica. Scoppiano incidenti tra le tifoserie contrapposte, che danno origine anche ad una crisi diplomatica. I festeggiamenti per la vittoria nella capitale algerina, diventano l’occasione per una caccia all’uomo nei confronti dei cittadini egiziani. Il bilancio di queste manifestazioni di giubilo si rivela pesantissimo: 14 morti e 250 feriti. È la pietra tombale sul vecchio ideale nasseriano della fratellanza araba.

CALCIO E NAZIONALISMO: LO STELLA ROSSA VA ALLA GUERRA

Dopo i disordini che hanno portato al rinvio di Italia – Serbia al Marassi di Genova, vi riproponiamo l’articolo comparso sul Numero 0 sul nazionalismo dello Stella Rossa.

La dedica di una statua che sorge dinanzi allo Stadio Maksimir di Zagabria, rappresentante un gruppo di soldati, recita: “Ai tifosi della Dinamo Zagabria, che iniziarono la guerra con la Serbia su questo campo il 13 maggio 1990”. La partita che prese luogo nella capitale croata tra i padroni di casa della Dinamo e i Serbi dello Stella Rossa di Belgrado fu l’avvisaglia di quanto sarebbe successo un anno dopo, l’inevitabile crollo della Federazione Jugoslava, termine di una frana innescatasi all’indomani della morte del maresciallo Tito nel maggio 1980. L’ex-partigiano croato era stato il collante di una nazione nata dall’unione di popoli che, fino alla Seconda Guerra Mondiale, si erano massacrati a vicenda. Nelle parole del comunista albanese Mahmet Bekalli: “Non avevamo idea che, insieme a lui, stavamo seppellendo la Jugoslavia”. La spaccatura fu evidente soprattutto tra Croazia e Serbia, dove due burocrati dell’epoca del comunismo titoista presero il potere dopo aver dato una netta svolta nazionalista alla propria politica: Franjo Tuđman e Slobodan Milošević. Tuđman, presidente della squadra filo-jugoslava del Partizan Belgrado ai tempi di Tito, per la sua Hrvatska Demokratska Zajednica (Unione Democratica Croata) prese in prestito l’iconografia degli ustaše, i fascisti croati che nella Seconda Guerra Mondiale collaborarono con i nazisti, massacrando i Serbi. Oltre a prendere in prestito la šahovnica, la bandiera a scacchi rossi e bianchi degli ustaše, cominciò a farsi chiamare poglavnik, duce, in un chiaro riferimento al loro sanguinario leader Ante Pavelić. Tuđman veicolò il proprio nazionalismo anche attraverso il calcio quando divenne presidente della Dinamo Zagabria, che poi avrebbe ribattezzato Croatia Zagreb, alienando gran parte del seguito della squadra.

Nel giugno 1989 Slobodan Milošević, appena divenuto presidente della Serbia, tenne un discorso che avrebbe cambiato la storia a Kosovo Polje, la “piana dei Merli” a nord della capitale kosovara Priština, teatro di una storica battaglia tra la Serbia e l’Impero Ottomano avvenuta seicento anni prima. Milošević denunciò “il genocidio strisciante di cui sono vittime i Serbi nel Kosovo, culla della loro cultura” e affermò, in quella che fu la sua frase di maggior successo, che “nessuno deve permettersi di picchiare il nostro popolo”. Cavalcando l’onda del nazionalismo, il presidente serbo si rendeva conto di quanto questa potesse ritorcersi contro di lui, e fece in modo di avere un controllo forte su quello che era considerato il calderone più esplosivo: la tifoseria dello Stella Rossa di Belgrado, squadra politicizzata, anti-titoista e fortemente nazionalista, i cui ultrà si stavano distinguendo per la violenza delle proprie azioni. L’uomo che prese il controllo dei tifosi dello Stella Rossa, unendo tutti i gruppi rivali in una sola unità disciplinata e determinata, fu Željko Ražnatović, gangster di stampo mafioso e maestro dell’evasione, richiamato in Serbia dal governo per fare il “lavoro sporco”, come ad esempio eliminare fisicamente i dissidenti che erano fuggiti all’estero. L’uomo che, qualche anno più tardi, sarebbe salito all’onore delle cronache internazionali come l’efferato criminale di guerra Arkan. Arkan vietò agli hooligans dello Stella Rossa l’alcool e bandì piccole violenze e vandalismi. In cambio li addestrò e cambiò il loro nome da “zingari” a Delije, “eroi”, rendendoli una vera e propria formazione paramilitare, capace di creare seri disordini nelle partite contro il Partizan e la Dinamo Zagabria.

Il momento in cui le tensioni nazionalistiche eruppero sul campo fu proprio il fatale 13 maggio 1990, al Maksimir di Zagabria, una settimana dopo la celebrazione del decennale della morte di Tito: i Bad Blue Boys della Dinamo e i Delije si fronteggiarono in una battaglia i cui connotati e la cui organizzazione fanno pensare più a una guerriglia premeditata da entrambe le fazioni che a uno scontro tra tifosi. Per proteggere un giovane tifoso dalle manganellate della Milicija, la Polizia Federale Jugoslavia, il capitano dei croati Zvonimir Boban sferrò un calcio a un poliziotto, diventando istantaneamente un eroe nazionale. Il bilancio degli scontri fu di 138 feriti e 147 arresti. Boban rischiò un fermo da parte della polizia e perse l’occasione di essere convocato con la Jugoslavia a disputare il Mondiale di Italia ’90. Gli scontri tra i Delije e i Bad Blue Boys furono solo un preludio di quanto sarebbe avvenuto durante la primavera dell’anno seguente: quando il 29 maggio 1991 lo Stella Rossa vinse la Coppa dei Campioni, battendo ai rigori l’Olympique Marsiglia, Slovenia e Croazia avevano già dichiarato la propria indipendenza, portando la Jugoslavia alla guerra civile che l’avrebbe distrutta. Solo alcuni mesi dopo i Delije si arruolarono in massa nell’unità paramilitare comandata da Arkan, la Srpska Dobrovolijačka Garda (Guardia Volontaria Serba), più nota con il nome di Tigrovi, tigri. Le Tigri di Arkan presero parte alle guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo e divennero tristemente famose per gli efferati crimini di guerra commessi. Anche dall’altra parte avvenne un fenomeno simile, con gran parte dei Bad Blue Boys partiti per il fronte della guerra serbo-croata, spesso indossando il simbolo della Dinamo sulle proprie uniformi. Dal Maksimir di Zagabria e dal Marakana di Belgrado i combattimenti si erano riversati su tutta la Federazione Jugoslava.

Quando i croati ripresero il controllo di Vukovar, assediata per 87 giorni dalla Jugoslavenska Narodna Armija, l’Armata Popolare Jugoslava, la rappresaglia colpì la popolazione serba della città, tra cui la famiglia di Siniša Mihajlović, centrocampista dello Stella Rossa, poi a Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Nella sua casa, distrutta, oltre a un poster della nazionale jugoslava con un foro di proiettile sul cuore di Mihajlovic, furono ritrovate sue foto cui i soldati croati avevano ritagliato gli occhi: un rimando alle crudeltà di Ante Pavelić, che chiedeva ogni mattina ai suoi ustaše di consegnargli un cesto pieno di occhi a riprova che i massacri continuavano allo stesso ritmo.

Il regno mafioso di Arkan in Serbia prosperò durante il conflitto, e Ražnatović cercò di acquistare lo Stella Rossa, per farne un monumento alla sua persona. La dirigenza rifiutò di cedere, al che la Tigre, dopo un rifiuto dai kosovari dell’FK Priština, acquistò l’Obilić di Belgrado, squadra che porta il nome di un eroe serbo della battaglia di Kosovo Polje. A suon di intimidazioni a giocatori e dirigenti avversari, l’Obilić venne promosso in prima divisione nel 1997 e l’anno dopo fu campione di Jugoslavia (ormai composta solo da Serbia e Montenegro) nel 1998. Il 18 agosto 1999 le nazionali di Jugoslavia e Croazia si incontrarono per la prima volta a Belgrado in un incontro, finito 0-0, valido per le qualificazioni all’Europeo. Il tifo di Belgrado salutò l’inno croato Lijepa Naša Domovino con l’ostensione di cinquantamila diti medi alzati, e la curva insultò i giocatori della nazionale avversaria, chiamandoli ustaše nei propri cori. L’ostilità dell’atmosfera raggiunse il culmine quando, al quinto del secondo tempo, le luci dello stadio si spensero. “Si vedevano solo i raggi infrarossi dei fucili dei cecchini”, ricordò Slaven Bilić, nazionale croato presente allo stadio nonostante un infortunio. Il Marakana eruppe in un “Criminali rossi! Criminali rossi!” rivolto a Milošević e al suo regime, che iniziava a scricchiolare dopo la guerra in Kosovo. Mentre la leggenda di Arkan, assassinato cinque mesi più tardi da un commando di fronte all’Intercontinental Hotel di Belgrado, sopravvisse alla Tigre, la popolarità del presidente serbo era crollata. Proprio il Marakana, lo stadio dove Milošević aveva arruolato tramite Arkan una parte importante del suo esercito, segnò la fine della sua dittatura: la curva gli si ritorse contro e cominciò a intonare alle partite gli slogan Slobo odlazi, “Slobodan vattene”, e Slobo spasi Srbiju i ubi se, “Slobodan, salva la Serbia e ammazzati”. Dopo esser stato sconfitto alle elezioni da Vojislav Koštunica, Milošević si rifiutò di riconoscere il risultato delle urne. Il 5 ottobre 2000 a Belgrado, nelle dimostrazioni della Bager Revolucija, la “Rivoluzione dei Bulldozer” che fece infine crollare il regime, in prima linea nei combattimenti c’erano di nuovo le maglie dello Stella Rossa.

Damiano Benzoni