DUE PROPOSTE PER LA JUVE DEL FUTURO

JuventusCon cinque sole giornate al termine del campionato la classifica finale va ormai delineandosi, in particolar modo per certe squadre. Tra queste vi è sicuramente la Juventus di Gigi Delneri, che reduce dal pareggio di Firenze si vede ormai tagliata del tutto fuori dalla corsa al quarto posto. Le contemporanee vittorie di Udinese e Lazio, difatti, inguaiano non poco la società di Corso Galileo Ferraris, che non potrà presentarsi ai blocchi di partenza della principale competizione europea per club nemmeno nel corso del prossimo anno.  E’ già quindi tempo di programmare il mercato estivo. Nel dopo Calciopoli, difatti, troppi errori sono stati commessi in questo senso sulla sponda Bianconera di Torino e Marotta sa bene di non poter più sbagliare se vuole riportare la squadra che fu di Sivori, Platini, Baggio e Zidane nell’Olimpo del calcio italiano e non. Proprio in questo senso facciamo viaggiare un po’ la fantasia e proviamo, basandoci ovviamente sui più recenti rumors di mercato, ad immaginarci un paio di alternative tattiche per la Juventus che verrà.

Partiamo da un presupposto, quindi. Qualora restasse Delneri, la cui permanenza è però a tutt’oggi in dubbio, la soluzione più probabile sarebbe quella che vorrebbe la squadra nuovamente impostata con un classico 4-4-2. Cambiando allenatore – o qualora il tecnico di Aquileia decidesse di affidarsi continuativamente al 4-3-3 di queste ultimissime uscite – ecco che si potrebbe pensare ad un modulo differente.

Ma iniziamo, innanzitutto, con il sistemare la difesa. Perché entrambe le ipotesi che qui formulerò vertono su di una difesa a quattro uomini schierati in linea. Una volta risolta la grana Storari-Buffon, quindi, ecco che tendenzialmente si potrà decidere di confermare la coppia Bonucci-Chiellini. Va detto che i due nel corso di questa stagione non hanno mai fornito prestazioni esaltanti ma va altresì sottolineato come sicuramente abbiano patito l’influsso negativo derivante dall’atteggiamento di una squadra che all’alba dei primi di maggio si ritrova ancora senza una quadratura ben definita. Sulle fasce, però, qualcosa andrà fatto. Sulla destra, difatti, Sorensen si è disimpegnato discretamente, soprattutto alla luce del fatto che si tratta di un ragazzo di soli diciotto anni che nasce per altro centrale. Sulla sinistra, invece, infortunatosi De Ceglie, che comunque non garantiva sicurezza assoluta, né Grosso né tantomeno Traorè si sono rivelati all’altezza della situazione. Il ruolo del terzino non è comunque assolutamente da snobbare. Avere giocatori capaci di interpretare adeguatamente entrambe le fasi di gioco può infatti risultare determinante. Ecco quindi che per la prossima stagione pare potrebbe sbarcare a Torino quel Gregory van der Wiel che è ritenuto uno dei migliori prodotti sfornati negli ultimi anni dalla cantera dell’Ajax. Sulla sinistra si inizia invece a paventare il possibile ritorno di Domenico Criscito, che proprio nella Juventus terminò il suo processo di crescita calcistica prima di darsi al professionismo.

Sistemata la difesa, quindi, veniamo alle due possibili ipotesi di gioco, partendo con un classico: quel 4-4-2 che è ormai a tutti gli effetti parte integrante della storia del calcio. In questo senso partiamo col dire che c’è un solo innesto da fare forzatamente: quello di un esterno sinistro di valore. Perché, tutto sommato, riscattando Aquilani il centrocampo, almeno per ciò che riguarda i titolari, sarebbe sistemato. Comprando un giocatore alla Bastos, quindi, si potrebbe imperniare il proprio gioco sull’esuberanza di due esterni rapidi e dal buon drlibbing come il brasiliano ed il suo omologo Krasic schierando poi centralmente un Melo tuttofare cui affiancare la qualità di un Aquilani che dopo un anno di riadattamento al calcio italiano sarebbe chiamato al salto di qualità.

Questa è però solo un’ipotesi di centrocampo, ma se ne possono ipotizzare un altro paio. Nella prima il posto di Aquilani verrebbe rilevato da Andrea Pirlo, ancora oggi tra i migliori registi in circolazione, la cui dinamicità non è però mai arrivata a livelli assoluti e che come interno di un centrocampo a quattro potrebbe faticare molto. Nella seconda il posto dell’ex Reds sarebbe invece preso da Mascherano che darebbe così vita, assieme al solito Melo, ad una diga centrale difficilmente superabile per chiunque. E proprio l’accoppiata in questione potrebbe aiutare notevolmente a ritrovarsi sia Bonucci che Chiellini, troppo spesso in balia degli avversari nel corso di quest’anno. Quest’ultima ipotesi, comunque, impoverirebbe notevolmente la fase di possesso, laddove né Melo né Mascherano hanno le caratteristiche adeguate per impostare l’azione. Ecco quindi che a quel punto si dovrebbe fare grandissimo affidamento sui due esterni (più eventualmente le sovrapposizioni dei terzini) oltre che su di una coppia di attaccanti mobili, dinamici e capaci di apportare valore aggiunto alla manovra. In una squadra del genere, infatti, schierare come centravanti Trezeguet rischierebbe di essere controproducente. Il franco-algerino, come tutti ricorderete, è giocatore letale negli ultimi venti metri ma che poco aiuta i compagni nella costruzione della manovra. Ai due mediani, quindi, si aggiungerebbe un terzo giocatore che pur giocando oltre la cintola della squadra non contribuirebbe molto alla fase di possesso, limitandosi a finalizzare.

Riscattare un giocatore come Matri, cui magari affiancare un Giuseppe Rossi (o un Alexis Sanchez, che però quasi sicuramente non finirà a Torino), vorrebbe invece dire dare alla squadra più soluzioni, in questo senso. L’ex Rossonero è infatti centravanti atipico, di manovra. Giocatore che non si limita a stazionare nei pressi dell’area avversaria ma che, di contro, fa moltissimo movimento, svariando su tutto il fronte d’attacco e contribuendo notevolmente alla fase di possesso palla. Per non parlare poi di Rossi, che qualora sbarcasse a Torino potrebbe affiancare l’ex cagliaritano giocando da seconda punta dando più rapidità e brillantezza alla manovra ed andando, eventualmente, a scalare tra le linee, finendo col creare indubbiamente notevoli fastidi alle retroguardie avversarie.

Tutte ipotesi plausibili, comunque, posto che a fare la differenza sarà sempre poi l’amalgama che verrà creato in seno alla squadra. Il buon lavoro compiuto in sede di allenamento si rifletterebbe infatti sul campo, dando alla squadra quel quid in più, qualsiasi sia la soluzione scelta.

Per quello che mi riguarda, comunque, sono molto stuzzicato da quest’ultima ipotesi. Giocare con due mediani poco dediti alla costruzione del gioco rischia sicuramente di poter finire con l’essere un’arma a doppio taglio, ma instillando nella squadra i giusti meccanismi ecco che ci si potrebbe trovare di fronte ad una squadra molto quadrata ed ostica per tutti la cui prerogativa non sarebbe certo il calcio samba brasiliano ma che qualche soddisfazione potrebbe togliersela (e che sulla carta a mio avviso potrebbe lottare davvero per un posto Champions).

Qualora si decidesse invece di abbandonare il 4-4-2 personalmente propenderei per una sorta di 4-3-3 mascherato. Fonderei insomma questo modulo con un più coperto 4-5-1, il tutto sempre grazie agli esterni: confermerei infatti la coppia Krasic-Bastos cui chiederei di spendersi come ali pure in fase offensiva in appoggio dell’unica punta (nel caso andrebbe benissimo Matri) per ripiegare poi in linea coi tre mediani in fase di non possesso. Mediani non per nulla. Personalmente mi piacerebbe infatti costruire questo centrocampo con un centromediano metodista di costruzione come Pirlo, che a differenza che nel 4-4-2 sarebbe qui coperto dalla coppia Mascherano-Melo. Questa idea mi stuzzica davvero molto, e permetterebbe per altro di richiudersi al meglio in fase difensiva. Unica controindicazione: nessuno dei centrali di centrocampo avrebbe grandi doti di percussionista. La fase offensiva sarebbe quindi esclusivo terreno di caccia della punta e dei due esterni, più, saltuariamente, dei terzini. E’ altresì vero, però, che di tanto in tanto si potrebbe inserire Marchisio al posto di uno dei due corridori. Marchisio che ha indubbiamente doti importanti in quanto a inserimenti offensivi. Aspetto, questo, che potrebbe sviluppare ulteriormente proprio in un sistema di gioco come quello proposto.

Quale sarà il futuro della Juventus non lo so di certo. E, quasi sicuramente, le cose andranno ben diversamente rispetto a quelle ipotizzate.

Ma giocare non costa nulla, del resto. E farlo di tanto in tanto risulta anche stimolante.

BRASILE E ARGENTINA: ANATOMIA DI DUE FALLIMENTI

Una chiave di lettura sull’eliminazione delle due sudamericane favorite per il titolo

Foto: EPA

Un Mondiale pubblicizzato come sudamericano ha perso le due regine ai quarti, con il solo Uruguay a vincere una partita persa. I motivi della disfatta di Brasile e Argentina sono di facile decrittazione. Contro l’Olanda è accaduto quello che sospettavamo: un Brasile senza nessun ricambio valido (tranne Dani Alves) che desse lo spunto decisivo per uscire da un gioco molto lineare è stato messo fuori dall’irruenza di Felipe Melo e dalla costanza dell’Olanda, capace di giocare allo stesso ritmo e con fraseggi molto simili per l’intero incontro (deve stare molto attenta all’Uruguay, capace di difendere forte e cambiare passo meglio del Brasile, anche se mancando Suárez, miglior attaccante del Mondiale insieme a Villa, perde tantissimo). Adesso la squadra deve rifondarsi e vincere in casa. Per questo motivo chi prenderà il posto di Dunga avrà all’inizio i benefici dell’effetto Prandelli (o post-Lippi, Dunga in questo caso), ma poi dovrà sobbarcarsi un lavoro psicologico tremendo. Brasile 2014 deve dare la sesta stella, c’è poco da stare lì a riflettere. Con quale Brasile, ad oggi, si arriverebbe ad un evento così importante? In difesa ci sono dei ricambi validi, primo fra tutti Thiago Silva, anche se Maicon, Lúcio e Juan non nascono ogni quattro anni. Il portiere potrebbe rimanere, anche se il vivaio è prolifico e qualche altro giovanissimo sulle fasce in Brasile nasce sempre. I veri problemi sono centrocampo e attacco.

La volontà di Dunga di giocarsela con chi gli ha fatto vincere Coppa America e Confederations Cup, convocando giocatori inutili (Júlio Baptista, Josué, Gilberto Melo, Grafite) lo ha lippizzato e ha creato lo stesso sconquasso generazionale in cui si trova l’Italia. Una generazione in Brasile è totalmente saltata e dei nati nella prima metà degli anni ’80 c’è il solo Robinho che può arrivare, da grande vecchio, all’appuntamento brasiliano. C’è da puntare quindi sui giovanissimi: qui sorge un altro problema che è invece tipico del paese sudamericano (a differenza dell’Argentina). Una marea di calciatori giovani lasciano prestissimo i loro club di appartenenza, come è sempre successo. Ma invece di arrivare in Italia, Spagna, Germania o Inghilterra, i dollaroni di Russia, Giappone, Grecia e addirittura Ucraina fanno più gola. Della squadra vicecampione mondiale under 20, Dunga non ha convocato nessuno. E, tra quelli che giocavano in quella squadra, Douglas Costa e Alex Texeira sono allo Šachtar Donec’k, Rafael Tolói è vicino ad una delle grandi di Mosca, Renan è allo Xerez in prestito dal Valencia, Diogo all’Olimpiakos, Alan Kardec al Benfica e Souza al Porto. Della squadra titolare della finale contro il Ghana nessun elemento gioca in una grande squadra europea, molti vincitori di quel match (solo ai rigori e in modo immeritato) giocano in squadre di seconda fascia europea, ma almeno sono stati convocati e hanno giocato già il loro primo Mondiale. Con una squadra completamente da rifare, giovani che non hanno nessuna grande esperienza internazionale e senza convocazioni in Nazionale, il Brasile è un cantiere in cui è tutto ancora da decidere.

Per l’Argentina invece, il discorso è molto diverso. Il più grande errore di Maradona è stato credere che Messi fosse lui. Un errore che ha creato le premesse per la figuraccia tattica di ieri. Ieri l’Argentina era una squadra da dopolavoro. Tutti fermi ad aspettare le accelerazioni di Lionel. Come accadeva nel 1986, secondo un calcio di mille anni fa. L’idea di Maradona era fotocopiare il 1986 e riproporlo grazie alla Pulce. Una difesa bloccatissima (Brown, Cuciuffo e Ruggeri erano tre centrali e Olarticoechea non garantiva una grandissima spinta), centrocampo di lotta con un mediano compassato che moderava i ritmi e faceva muovere a cadenza bassissime la squadra (e qui nasce il primo grande problema: Batista nel 1986 poteva giocare al calcio perché bastava fraseggiare a velocità da dopolavoro nella propria metà campo, mentre con il pressing di oggi Verón è improponibile e Maradona sapeva di non poterlo schierare dopo che lo aveva testato nella prima gara con la Nigeria), un attacco con un centravanti goleador e una seconda punta che svariava.

Il nodo e lo snodo è il numero 10. Lì c’era Maradona, che saltava gli uomini e riusciva a non imbottigliarsi mai (anche per la mancanza di pressing). In questo modo apriva spazio per gli altri due attaccanti che trovavano sempre la strada spalancata. Messi invece saltava i primi due e andava ad imbottigliarsi in mezzo a tre avversari che gli negavano tutti gli spazi di passaggio. In questo modo continuava a dribblare, perdendo palla o tirando in porta sbilanciato. Messi non è Maradona perché doveva capire di anticipare il tempo di passaggio, così da coinvolgere gli altri nel gioco e destabilizzare la difesa avversaria. Non è Maradona perché se vicino non gli metti Xavi e Iniesta che portano la palla pulita fino ai 25 metri, Messi non è capace di far muovere la squadra, costretta a stare appresso alle sue briciole. Nel Barcelona può aspettare a sinistra lo svolgimento del gioco e poi accendersi quando la difesa avversaria deve già prendere in carico l’intero fronte del gioco, mentre nell’Argentina, non avendo mediani di costruzione, parte dal centro e va a fare confusione sia a destra che a sinistra, bloccando qualsiasi gioco in fascia. Con un Verón, e non con Cambiasso e Zanetti che non avrebbero portato nessuna variante in questo sistema di gioco, questo gioco si poteva attuare, ma la Brujita era da pensione. Sciocco anche il richiamo a Milito, che sa giocare soprattutto in profondità con una batteria di mezze punte che portavano palla senza darla mai nello spazio. Maradona per me ha fatto il massimo con una squadra facilmente disinnescabile.

L’OLANDA E MELO SORPRENDONO DUNGA

Olanda
EPA/Robert Ghement

Come già successo altre sei volte (nel 2006, 1986, 1982, 1978, 1974 e 1954), i quarti di finale si confermano come un’autentica macumba per il Brasile. E questa volta, a salire sull’altare in veste di gran sacerdote del rito sacrificale, è stata chiamata l’Olanda del selezionatore Bert van Marwijk.

Che non era l’Olanda di Cruijff, Neeskens e Rep, ma nemmeno quella di van Basten, Gullit e Rijkaard, lo si era già visto nelle fasi di qualificazione. E anche quella che si è vista questo pomeriggio a Porth Elizabeth si è confermata come una squadra senza individualità di particolare spessore, fatta eccezione per l’ala destra mancina (scusate l’ossimoro) Arjen Robben, che senza concedere troppo allo spettacolo, espone un collettivo solido, con un gioco fatto di schemi elementari, ma pericolosissimo in contropiede e negli spazi larghi.

Il Brasile, senza la punta Elano, ancora indisponibile dopo le legnate dei ruvidi difensori della Costa d’Avorio, era partito in grande spolvero, andando in gol dopo appena 10 minuti al termine di una rapida azione conclusa da un tocco di destro di Robinho. E la squadra verdeoro ha dominato per tutto il primo tempo, nonostante il fardello di un evanescente Kakà: più un turista che un protagonista a questi mondiali sudafricani.

Anche il secondo tempo era sembrato cominciare con la stessa musica; ma la samba dei brasiliani è stata interrotta improvvisamente da un tiro cross di Sneijder, deviato di testa nella propria rete da Felipe Melo. Questo gol inaspettato ha frastornato il Brasile e disunito la coralità delle sue azioni. Di contro l’Olanda ha ripreso coraggio, e sugli sviluppi di un calcio d’angolo da destra, ancora Sneijder ha trovato il colpo di testa del 2-1.

Per i brasiliani arrivano momenti di confusione totale. La squadra si sbilancia all’attacco e subisce i rapidi contropiedi olandesi, finché Felipe Melo, colto più da un raptus che dalla frustrazione, pesta con i tacchetti le caviglie di Robben disteso a terra. Il cartellino rosso è inevitabile, e il Brasile in dieci contro undici parte all’assedio della porta di Stekelenburg più con la forza della disperazione che con le magie del futebol bailado.

Già, il futebol bailado: il suo ricordo è sempre più lontano.

Venerdì 2 luglio 2010
OLANDA – BRASILE 2-1 (0-1)
Nelson Mandela Bay, Port Elizabeth (RSA)

OLANDA: Stekelenburg, van der Wiel, Heitinga, Ooijer, van Bronckhorst , van Bommel, de Jong, Robben, Sneijder, Kuyt, van Persie (85′ Huntelaar).

BRASILE: Júlio César, Maicon, Lúcio , Juan, Bastos (62′ Gilberto), Dani Alves, Felipe Melo, G.Silva, Kaká, Luís Fabiano (77′ Nilmar), Robinho.

ARBITRO: Yuichi Nishimura (JPN)

GOL: 10′ Robinho (BRA), 53′ aut. Felipe Melo (BRA), 68′ Sneijder (NED)

NOTE: ammoniti van der Wiel, Heitinga, de Jong, Ooijer (NED), Bastos (BRA). Espulso al 73′ Felipe Melo (BRA) per gioco violento.

Giuseppe Ottomano