La Supercoppa Italiana del 2011 si disputerà in Cina, la notizia risale allo scorso 26 gennaio. Il presidente della Lega Nazionale Professionisti Serie A Berretta, dopo aver siglato un accordo da 10 milioni di euro con la United Vansen International, ha dichiarato entusiasta: «Saremo presenti in Cina per tre volte nei prossimi quattro anni, a partire da quest’anno a Pechino, portando il meglio del calcio italiano ad esibirsi su un palcoscenico tanto prestigioso, a testimonianza che le nostre squadre sono in grado di attrarre l’interesse del pubblico e degli sponsor». Ma perché il trofeo che viene messo in palio tra la squadra vincitrice dello Scudetto e la vincente della Coppa Italia si disputerà in Cina? Il sospetto è che sia necessario espatriare proprio perché non siamo più in grado di attrarre l’interesse del pubblico e degli sponsor.
Da parte cinese, oltre al guadagno legato all’organizzazione, l’obiettivo dichiarato è quello di cercare di far crescere il livello del proprio campionato e soprattutto della propria nazionale, dopo la modesta figura in Coppa d’Asia e gli scandali di corruzione del campionato che hanno azzerato i vertici federali.
Per la neonata Lega Nazionale Professionisti Serie A si tratta sicuramente di un successo notevole in quanto oltre al rientro economico immediato, potrebbe portare a un buon ritorno d’immagine in un paese popoloso e affamato di calcio come la Cina.
Non si tratta nemmeno della prima volta che la Supercoppa Italiana si disputa all’estero. Ideata nel 1988, già nel 1993, alla vigilia dei Mondiali americani, sbarcò a Washington dove il Robert F. Kennedy Memorial Stadium riempito a metà ospitò la vittoria del Milan sul Torino. Già da allora l’interesse del calcio-business firmato Matarrese (all’epoca presidente della lega calcio) e Berlusconi (presidente del Milan non ancora “sceso in campo” politicamente) era volto totalmente alla vendita dei diritti televisivi tralasciando totalmente gli interessi degli spettatori dal vivo. Negli anni Novanta quella trasferta americana, vissuta dalle squadre più come un peso che non un’opportunità, rimase un’eccezione. Nel nuovo millennio invece queste trasferte divennero più frequenti. Nel 2002 sulla scia degli investimenti di Gheddafi in Italia la Supercoppa italiana sbarcò in Libia allo stadio 11 Giugno. L’incontro fu vinto dalla Juventus, della quale il presidente libico aveva delle quote, sul Parma. L’anno successivo si ritornò negli Stati Uniti, questa volta al Giant Stadium di New York, nell’edizione vinta dalla Juve sul Milan ai rigori. Infine nel 2009 la Lazio sconfisse l’Inter nello Stadio di Pechino che aveva ospitato le Olimpiadi, il celebre Bird’s Nest. In generale non si può certo dire che queste trasferte abbiano elevato il prestigio della coppa.
La location esotica rafforzava piuttosto l’impressione di giocare una partita amichevole dal ricco cachet. Sicuramente questa scelta ha risvegliato l’appetito dei grandi club. Alcuni giorni fa Adriano Galliani ha dichiarato “Noi in Cina vogliamo esserci” in un’intervista in cui l’enfasi sui vantaggi economici della trasferta cinese era tale da sembrare persino più importante della vittoria dello Scudetto o della Coppa Italia. Nel lungo periodo però la via cinese non è detto che si riveli vincente. La Lega Nazionale Professionisti Serie A ha offerto il proprio prodotto al miglior offerente senza – almeno per il momento – cercare di fare un investimento sul futuro di quella che appare tutt’oggi come una “tradizione sportiva inventata” assai debole. Più che degli Yuan cinesi la Supercoppa italiana avrebbe forse avuto un maggior bisogno di simboli identitari come uno stadio nazionale dove giocare una partita secca come in Inghilterra o di far disputare il trofeo in una partita d’andata e una di ritorno, come avviene in Spagna.
Difficilmente nei prossimi tre anni di Supercoppa italo-cinese il prestigio della competizione sarà cresciuto. Il timore è che Berretta stia cercando di rilanciare il calcio italiano all’estero senza però aver prima risolto i problemi interni. Non ha senso cercare di costruire un prodotto spendibile globalmente a discapito delle esigenze degli spettatori e dei tifosi italiani. Il nostro campionato era il più bello del mondo non solo perché vi giocavano i migliori giocatori ma anche perché gli stadi erano pieni, gli spalti erano colorati e gli striscioni irriverenti ma geniali. Oggi gli stadi sono semivuoti e il colore e le coreografie sempre più rare.
In un mondo dominato dalle televisioni, il pubblico degli stadi continuerà ad essere fondamentale; senza gli spalti pieni anche il “prodotto-calcio” rimarrà vuoto e un Milan-Inter o un Roma-Napoli giocato a Pechino non avrà mai lo stesso appeal del medesimo incontro giocato all’Olimpico, al Meazza o al San Paolo.