SPURS-HAMMERS: E’ DERBY PER LO STADIO OLIMPICO

Il futuro dello Stadio Olimpico di Londra è in bilico: West Ham e Tottenham sono in corsa.

Olympic StadiumLo stadio olimpico è, da sempre, il luogo simbolico ed iconico di ogni edizione delle Olimpiadi estive: si pensi al Bird’s Nest di Pechino che per milioni di persone è diventato l’immagine dei Giochi del 2008 superando un gioiello architetturale e tecnologico come il Water Cube. Tutte le città che preparano la loro candidatura per ospitare l’evento a Cinque Cerchi dedicano una particolare attenzione al progetto e alla presentazione dell’impianto destinato ad ospitare la Cerimonia di Apertura, il braciere olimpico e, spesso, le prove di Atletica. Da parte sua, il Comitato Olimpico Internazionale esercita notevoli pressioni perchè proprio questo impianto sia destinato a rimanere negli anni a perenne memoria dell’evento olimpico senza correre il rischio di trasformarsi in un cimitero degli elefanti ma come centro vitale dell’Olympic Legacy, l’eredità che i Giochi dovrebbero lasciare (oltre ai debiti) nelle città che li ospitano.

Per i progettisti di Londra 2012 l’impresa era ardua; nella capitale inglese non mancano i templi dello sport, dallo stadio di Wembley ricostruito completamente nel 2007 a Twickenham che è uscito lo scorso anno da un lifting completo, e difficilmente il nuovo Stadio Olimpico avrebbe in qualche modo potuto fare concorrenza a questi leggendari impianti. La via scelta è stata quella di passare alla storia con il primo esempio di sviluppo sostenibile di un complesso olimpico: si tratterà di un impianto modulare costituito da un primo anello permanente e interrato da circa 22.000 spettatori sormontato da una struttura temporanea in ferro e cemento da 55.000 spettatori costruita in modo da consentirne il riutilizzo in altri impianti al punto che, quando ancora erano in discussione le candidature per le Olimpiadi del 2016, si pensò addirittura di poter trasportare l’anello superiore per il suo montaggio nello Stadio Olimpico di Chicago. Pure con queste premesse, e un probabile futuro di casa dell’Atletica britannica, difficilmente l’uso del nuovo impianto sarebbe stato in grado di consentire la copertura dei costi. E’ per tale ragione che nel corso del 2010, la OPLC, l’organizzazione creata con la missione di massimizzare il ritorno post-Olimpiadi dei nuovi impianti, ha aperto una gara per raccogliere manifestazioni di interesse all’acquisto dello Stadio Olimpico.

David Gold e David Sullivan, nuovi proprietari del West Ham United, sono stati i primi ad esprimere un reale interesse. Da cento anni gli Hammers giocano al Boleyn Ground, meglio conosciuto come Upton Park, che negli anni Novanta ha subito un completo restauro che lo ha portato all’attuale capienza di 35.000 spettatori. Dopo le iniziali perplessità relative alla presenza della pista di atletica ad allontanare gli spettatori dal campo di gioco (una circostanza inusuale in Inghilterra), la dirigenza degli Hammers ha presentato un progetto che prevede la trasformazione in uno stadio da 60.000 posti  con i soli interventi, comunque necessari, per rendere operativo un impianto costruito per le Olimpiadi (aree sponsor da ricondizionare, assenza delle biglietterie,…). La proposta, che sposterebbe il campo del West Ham di  soli 3-4 chilometri verso occidente, è supportata dalla municipalità di Newham che finanzierebbe la società portando i fondi che, uniti ai proventi della vendita di Upton Park, dovrebbero essere sufficienti a coprire l’esborso previsto di 90-100 milioni di Euro. E’ proprio l’aspetto finanziario l’anello debole del dossier degli Hammers: non più tardi di un anno e mezzo la società di Newham era sull’orlo del fallimento e il rischio di una retrocessione in seconda divisione (la Championship) è reale in questa stagione nella quale, dopo 24 partite, il West Ham occupa l’ultimo posto in classifica.

Qualche settimana dopo la presentazione del progetto degli Hammers, è arrivata la notizia bomba della manifestazione di interesse da parte del Tottenham Hotspur: gli Spurs pensano in grande e aver ritrovato la Champions League dopo 49 anni ha portato l’entusiasmo alle stelle. Il centenario White Hart Lane che, dopo la ristrutturazione di fine anni novanta, può ospitare circa 36.000 spettatori sta stretto alle ambizioni dei dirigenti degli Spurs che da alcuni anni stanno pensando ad un nuovo stadio che possa rispondere alle richieste di una lista d’attesa di circa 25.000 nuovi spettatori. Il progetto, non ancora operativo, ha ormai assunto dimensioni faraoniche: stadio, sviluppi commerciali e residenziali, un costo stimato lievitato fino a 500 milioni di Euro. L’alternativa “olimpica” è, quindi, presa in considerazione per ridurre l’impatto finanziario sulla società e arriva come una bomba per almeno due ragioni; in una città come L0ndra dove ogni quartiere ha la sua squadra di calcio dalle tradizioni spesso centenarie, uno spostamento dello stadio di quindici chilometri è destinato a destabilizzare la geografia del tifo e della tradizione. Ma l’aspetto più sconvolgente della proposta della dirigenza del Tottenham è l’intenzione di radere al suolo lo Stadio Olimpico e ricostruire un nuovo stadio, destinato solo al calcio, da 60.000 posti. Come contentino ai difensori dell’idea di un impianto per l’Atletica, il dossier prevede un investimento per la ristrutturazione dell’impianto di Crystal Palace, tradizionale sede delle competizioni londinesi.

La proposta degli Spurs scalda gli animi: ha dalla sua il non indifferente aspetto della solidità economica favorita anche dall’ingresso nella gestione di un colosso dell’intrattenimento come AEG che è stato in grado di risollevare dal flop il Millenium Dome ma è contraria ad ogni concetto di Olympic Legacy. Potenti lobby si scatenano a supporto dell’una e dell’altra proposta. La famiglia “olimpica” supporta gli Hammers e riesce sotto la spinta degli ex-atleti Sebastian Coe, presidente del Comitato Organizzatore di Londra 2012, e Tessa Sanderson a fare scendere in campo il ministro delle Olimpiadi, Tessa Jowell, e il presidente del CIO, Jacques Rogge mentre il presidente della IAAF, Lamine Diack, accusa preventivamente l’intera organizzazione di falsità nel caso non si arrivasse ad una soluzione che mantenga la pista. I calciofili si allineano con la proposta degli Spurs: si espongono Pelè e Jimmy Greaves, il supporto politico arriva, invece, dal sindaco di Londra, Boris Johnson. La decisione, attesa per il 28 gennaio, è stata ora posticipata al mese di marzo per la sua complessità mentre anche i supporter del Tottenham scendono in campo contro lo sradicamento degli Spurs dal loro tradizionale quartiere verso un territorio “nemico”.

Il traserimento renderebbe il Tottenham protagonista di uno “sgarbo” simile a quello che gli Spurs subirono quasi un secolo fa: nel 1913, il presidente del Woolwich Arsenal, con sede lungo le rive del Tamigi nella zona sud-orientale, decise di rilanciare il club portandolo in un’area con un maggiore bacino d’utenza. Propose dapprima una fusione o, in second’ordine, la condivisione del terreno di gioco con il Fulham e quando le sue proposte furono bocciate si mosse nel quartiere di Islington, nella zona settentrionale, invadendo l’area di influenza del Tottenham, scatenando le proteste degli Spurs e dando il la ad una delle più accese rivalità londinesi.

Ancora molte parole saranno spese prima della decisione finale che potrebbe, in ogni caso, ritornare ai piani originali di un impianto da 25.000 posti completamente dedicato all’Atletica.

Stadi di Londra

UN NUOVO FILM SU BILL JOHNSON: LA STORIA TRISTE DI UN DISCESISTA TEMERARIO

Il 30 gennaio sarà proiettato in anteprima al Film Festival di Santa Barbara “Downhill: The Bill Johnson Story”, documentario sulla vita di Bill Johnson.

Bill JohnsonQuando la fama e il successo arrivano all’improvviso, altrettanto all’improvviso possono andarsene via.” Phil Mahre, campione statunitense di sci alpino degli anni ’80, a proposito di Bill Johnson.

Un nuovo film documentario storico sportivo sta per essere presentato in prima visione domenica 30 gennaio al Film Festival di Santa Barbara, in California. Prodotto dal network statunitense di video on demand, The Sky Channel, è stato diretto dall’esordiente trentasettenne regista californiano Zeke Piestrup, che vanta anche una breve carriera di discesista a livello juniores nel proprio curriculum. Il film tratteggia la storia di una meteora dello sci alpino degli anni ’80, Bill Johnson, che negli USA visse un momento di gloria nel febbraio del 1984, quando si aggiudicò a sorpresa, primo americano della storia, la medaglia d’oro nella discesa libera, lasciandosi alle spalle campioni del calibro degli svizzeri Peter Müller e Pirmin Zurbriggen, e dell’austriaco Franz Klammer.

La sua inaspettata vittoria mandò in delirio gli sportivi statunitensi, anche se fece storcere il naso ai puristi dello sci del nostro continente, presi in contropiede da questo discesista che affrontava le curve in modo spericolato, e proprio quando sembrava perdere l’equilibrio, riusciva a rimettersi in perfetto assetto, ancora più saettante di prima. Il giorno dopo la gara, ironizzando sulla sua adolescenza difficile, durante la quale aveva conosciuto il riformatorio, un quotidiano britannico era arrivato ad intitolare: “Sarajevo: un ladro d’auto ha rubato la medaglia d’oro.

Insensibile alle frecciate, il ventitreenne Bill Johnson si sentiva trascinare dal vento del successo, e con un pizzico di cinico ottimismo, a una domanda di un giornalista sul significato della sua vittoria olimpica aveva replicato: “Vuol sapere che significa per me? Milioni. Tanti milioni.” Come personaggio aveva raccolto subito la simpatia del pubblico americano, e un anno dopo sarebbe stato realizzato un film televisivo sul suo trionfo di Sarajevo.

Ma dopo avere vinto altre due gare di coppa del mondo nelle discese di Aspen in Colorado e di Whistler Mountain in Canada nel marzo 1984, un infortunio prima al ginocchio e poi alla spalla avevano oscurato la stagione successiva. Il recupero auspicato non sarebbe avvenuto, e le sue successive apparizioni non lo avrebbero più visto nelle posizioni di alta classifica. Gli allenatori della squadra statunitense erano dell’avviso che la sua condizione di forma non era più ottimale, e quando glielo avevano rinfacciato, lo avevano fatto schiumare di rabbia. Ne era scaturito un alterco verbale che il passionale Bill aveva condito con insulti da caserma. Si stavano avvicinando i giorni delle Olimpiadi di Calgary 1988, e si era così giocato le proprie ultime chance di prendervi parte con lo squadrone a stelle e strisce.

L’anno dopo, ad appena ventinove anni, annuncia il ritiro dalla vita sportiva, ed insieme alla moglie intraprende una nuova esistenza itinerante in giro per gli Stati Uniti, con un camper che fungerà da nuova casa per quasi dieci anni. Ma passato l’entusiasmo romantico per questa avventura sulle orme dei personaggi di Kerouac, e dilapidati rapidamente i guadagni del dopo olimpiade, la coppia si troverà alle prese con gravi difficoltà economiche, e sopravvivrà di espedienti, come l’organizzazione, poi fallita, di un circo bianco di vecchie glorie dello sci, insieme ad altre sfortunate incursioni nell’imprenditoria sportiva.

A questo si aggiungerà nel 1992 la tragedia della perdita del primo dei tre figli per un incidente domestico, finché alla fine degli anni novanta Bill Johnson verrà abbandonato dalla moglie col resto della famiglia al seguito. Questa batosta gli si rivela particolarmente difficile da sopportare; e a quel punto il suo desiderio principale diventa quello di riconquistare la compagna perduta. Comincia così a balenargli nella mente un colpo ad effetto: ritornare a gareggiare nella discesa libera, possibilmente per le imminenti olimpiadi di Salt Lake City. Anche in questo caso però la realtà si rivela più complicata dei sogni; e nonostante i duri allenamenti a cui si sottopone, ormai ultraquarantenne, non riesce ad essere sufficientemente competitivo nei confronti dei più giovani e fisicamente più esuberanti avversari.

La granitica volontà di farcela è superiore alla consapevolezza dei limiti fisici, e il 22 marzo 2001, mentre scende in prova prima di una gara nel Montana perde il controllo degli sci e rovina violentemente contro un blocco di neve ghiacciata. Gli spettatori ai bordi della pista sentono un grido d’aiuto straziante e disperato. I primi soccorsi arrivano dopo pochi istanti, ma il volto dell’ex campione è già coperto dal sangue che cola copiosamente dalla bocca e da un orecchio. Il trasporto in ospedale è altrettanto puntuale, e Johnson viene operato per rimuovere una vistosa emorragia cerebrale. La sua fibra da atleta riesce a salvargli la vita, ma gli effetti dell’incidente sono devastanti: le sue facoltà cognitive sono definitivamente compromesse, e l’intera parte destra del corpo è paralizzata irreversibilmente.

Dopo cento giorni di degenza in un centro di riabilitazione, la sua assicurazione sanitaria non gli ha permesso di restare altro tempo, e viene rimandato a casa per essere affidato alle cure dell’anziana madre. La notizia del suo incidente ha colpito profondamente il mondo dello sci americano, che si è prontamente mobilitato per raccogliere i fondi necessari alla sua assistenza. In particolare l’ex campione statunitense Phil Mahre, suo amico e protagonista del documentario “Downhill: The Bill Johnson Story” insieme a Franz Klammer e a lui stesso, non ha mai smesso di impegnarsi in iniziative di beneficienza per la sua causa.

DALLA STRISCIA DI GAZA ALLE OLIMPIADI

Dopo la notizia degli accordi, raggiunti con la mediazione del Comitato Olimpico Internazionale, tra le autorità sportive israeliane e palestinesi rileggiamo la storia della Palestina alle Olimpiadi.

La squadra palestinese a Pechino 2008E’ dei giorni scorsi la notizia degli accordi, raggiunti con la mediazione del Comitato Olimpico Internazionale, tra le autorità sportive israeliane e palestinesi al fine di favorire la cooperazione dal punto di vista sportivo con lo scopo di aiutare gli atleti palestinesi a prepararsi per Londra 2012.  Di fatto l’accordo non andrà molto oltre il consentire a questi ultimi un accesso agli impianti di allenamento, favorendo la libera circolazione degli atleti e dei loro tecnici, funzionari e materiali innanzitutto tra Cisgiordania e Striscia di Gaza ma anche nei loro viaggi all’estero per evitare situazioni come quella che nel mese di ottobre del 2007 impedì alla nazionale di calcio di raggiungere Singapore per disputare un incontro valido per le qualificazioni alla Coppa del Mondo.

Per fare un po’ di storia del rapporto tra la moderna Palestina e il movimento olimpico è necessario ritornare al 1986 quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con sede a Tunisi e sotto la guida di Yasser Arafat, riuscì per ragioni simboliche e p0litiche a far riconoscere un Comitato Olimpico palestinese all’Olympic Council of Asia che si espresse, sotto la spinta dei paesi arabi, con voto unanime. La decisione provocò lo sdegno delle autorità israeliane per l’ammissione che si contrapponeva all’esclusione del loro Comitato Olimpico avvenuta nel 1982 e mai più rientrata al punto che nel 1994 lo sport israeliano fu costretto a diventare membro del Comitato Olimpico Europeo.

Furono però gli accordi di Oslo del 1993 la molla che trasformò il Comitato Olimpico palestinese da istituzione simbolica ad effettiva realtà sportiva; il diritto palestinese all’autogoverno e la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese fecero sì che potesse iniziare il processo per il riconoscimento dell’autorità sportiva da parte del CIO. Ai Giochi Asiatici del 1994 che si svolsero nella città giapponese di Hiroshima si registrò la prima partecipazione di una delegazione palestinese. Fu Mohammed Rabie Al Turk, attualmente vicepresidente del Comitato Olimpico, l’unico rappresentante, impegnato nel torneo di Tennis Tavolo.

Due anni più tardi e 24 anni dopo il massacro di Monaco nel quale un commando di guerriglieri dell’organizzazione palestinese Settembre Nero fece irruzione negli alloggi israeliani del villaggio olimpico portando alla morte di 11 atleti, 5 terroristi e un poliziotto tedesco, la bandiera palestinese sfilò alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Atlanta sancendo la prima partecipazione di una squadra della Palestina alle Olimpiadi. Fu Majed Abu Maraheel, un trentatreenne membro di Forza 17, la guardia personale di Yasser Arafat, a ricevere la bandiera dalle mani del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e ad onorarla ad Atlanta nella prima batteria dei 10.000 dove, ricevendo una standing ovation dal pubblico presente, chiuse all’ultimo posto in 34’40″50 a quasi sette minuti dal vincitore, l’etiope Worku Bikila. Prima della gara Maraheel aveva dichiarato “il mio obiettivo non è vincere l’oro ma far sapere al mondo che esiste la Palestina”, un motto che sta alla base di tutte le partecipazioni olimpiche della squadra palestinese.

Sono due gli atleti palestinesi a partecipare all’edizione successiva delle Olimpiadi a Sydney che vedono la prima partecipazione di una rappresentante femminile. Infatti, oltre al marciatore Ramy Al Deeb, figlio di un espatriato in Egitto durante la crisi del 1948,   che chiude i 20 chilometri al quarantaquattresimo posto, partecipa la nuotatrice Samara  Nassar, nata a Betlemme in Cisgiordania ma fuggita con la famiglia in Giordania al punto che, dopo il sessantacinquesimo posto di Sydney, parteciperà alle Olimpiadi anche quattro anni dopo ad Atene ma sotto i colori giordani.

Pochi mesi prima dell’appuntamento olimpico di Atene 2004, la squadra palestinese balza agli onori della cronaca per l’inserimento tra i possibili partecipanti della quarantasettenne greca Sofia Sakorafa, già detentrice del record del mondo del Lancio del Giavellotto negli anni ottanta e attivista politica, che prende il passaporto palestinese per partecipare, come gesto simbolico, alle Olimpiadi. L’incapacità di ottenere la misura limite richiesta le impedisce in ogni caso di scendere in campo. Sono, quindi, tre gli atleti a partecipare; c’è il diciassettenne Raad Awaisat che si allena nella piscina ad una corsia nel cortile di casa nella parte orientale di Gerusalemme e nei 100 metri farfalla ottiene il cinquantanovesimo tempo, dieci secondi più lento del vincitore. Insieme a lui, la mezzofondista Sana’ Abu Bkheet che si allena sotto i missili a Deir AlBalah, nel centro della Striscia di Gaza, e corre gli 800 metri in 2’32” e Abdasalam Al Dabaji, ottavo nella sua batteria maschile sempre degli 800 metri.

Tra difficoltà di allenamento, piscine chiuse ed assenza di vere piste di atletica, sono quattro gli atleti palestinesi alle ultime Olimpiadi, a Pechino, la cui partecipazione è ancora una volta garantita dai fondi di solidarietà del CIO e le cui storie di lotta e sofferenza diventano sempre più oggetto degli articoli di “costume” che si sprecano nelle occasioni olimpiche. Come la storia della diciassettenne Gharid Ghoruf che si allena su una pista in terra battuta in quel di Gerico e tra problemi di visti e viaggi perigliosi si ritrova ai Campionati Mondiali di Osaka nel 2007 iscritta nella prova sbagliata, lei specialista delle gare veloci correrà nelle batterie degli 800 metri. A Pechino riesce a correre la sua prova, i 100 metri, e chiude al settimo posto della batteria con il tempo di 13″07. Non meglio vanno la cose alla sua compagna Zakia Nassar che nel Water Cube è iscritta ai 50 stile libero e trova una piscina di dimensioni olimpiche dopo anni di allenamento in un impianto pubblico da 12 metri. L’impatto con il grande nuoto le consente di migliorare il suo personale di sette secondi con la grande soddisfazione di toccare per prima nella seconda batteria seppure il suo tempo (31″97) la piazzi in settantanovesima posizione lontana anni luce dalla qualificazione ai turni successivi. Ma le luci dei riflettori sono per il portabandiera, il corridore Nader Al Masri, l’unico atleta della squadra che provenga dalla Striscia di Gaza dove negli ultimi anni si sono fatti più critici i rapporti con gli israeliani. La sua figura diventa simbolo di una presenza già di per sè simbolica come quella dei territori palestinesi ai Giochi al punto di conquistare l’onore di apparire su Time nella lista dei 100 atleti da seguire a Pechino. Sotto la spinta dei movimenti per i diritti umani Al Masri ottiene solo qualche settimana prima della Cerimonia di Apertura il permesso di trasferirsi dalla Striscia di Gaza a Gerico per poter allenarsi.

Oggi, a 18 mesi dalla Cerimonia di Apertura delle Olimpiadi di Londra, i sogni olimpici si ripropongono e l’accordo della settimana scorsa potrebbe, in qualche modo, rendere meno impervia la via per gli atleti che saranno scelti a rappresentare la Palestina. La novità, in questa edizione, potrebbe essere rappresentata dall’attenzione, che finora ha latitato per motivi simbolici, agli espatriati o ai figli di espatriati. Un caso esemplare è arrivato negli ultimi anni dal Canottaggio dove la squadra palestinese è formata dal solo Mark Gerbar, nato a Filadelfia da madre ebrea e padre palestinese. Gerbar, (ora trentunenne), dopo qualche esperienza universitaria nel Nuoto e nel Canottaggio e il titolo di campione statunitense del 2003 nel Doppio Pesi Leggeri, ha deciso di sposare la causa palestinese e, oggetto a suo dire di discriminazione negli Stati Uniti, si è trasferito in Germania dove si è allenato con la squadra tedesca partecipando dal 2005 al 2009 a molte competizioni internazionali. Pur fallendo la qualificazione alle Olimpiadi di Pechino, Mark Gerbar ha ottenuto, con il suo sedicesimo posto nel Singolo Pesi Leggeri ai Mondiali del 2005 e del 2007, la miglior prestazione della storia dello sport palestinese in una rassegna iridata.

LONDRA 2012 E LO SPORT FUORILEGGE

Tiro a Segno13 marzo 1996: nella cittadina scozzese di Dunblare, Thomas Hamilton, un quarantaquattrenne disoccupato, entra nella palestra della scuola elementare e fa fuoco ripetutamente uccidendo sedici bambini tra i cinque e i sei anni e la loro insegnante per poi togliersi la vita. Quest’episodio, tra i cui superstiti vi è anche il tennista Andy Murray, conosciuto come il massacro di Dunblare scatena una fortissima campagna che con il supporto della maggioranza dell’opinione pubblica porta il governo conservatore di John Major a sancire il bando da Inghilterra, Scozia e Galles per tutte le pistole con l’eccezione delle calibro 22 che verranno messe fuorilegge l’anno successivo dal governo laburista di Tony Blair.

Il bando, ancora in vigore, prevede limitatissime eccezioni e, a differenza di quanto avviene in paesi con legislazioni analoghe come il Giappone, tra queste non rientra l’attività sportiva dove solo nelle specialità olimpiche ben tre gare vengono disputate con armi fuorilegge nel Regno Unito: la Pistola 50 metri maschile, la Pistola 25 metri femminile e la Pistola a fuoco rapido. In questi anni i tiratori britannici hanno potuto detenere le loro armi ed allenarsi solo nell’Irlanda del Nord, l’Isola di Man o le Channel Islands o, come accade per i tiratori di maggior livello, utilizzare la Svizzera come base per lunghi collegiali di allenament0 anche se ogni tiratore può confermare quanto importante sia la confidenza con l’arma negli esercizi “a secco” di tutti i giorni.

L’unica eccezione a questo bando è stata fino ad ora concessa nel 2002, in occasione dei Giochi del Commonwealth che si sono svolti a Manchester. Tiratori con le loro armi scortati da guardie armate fino ai capelli dall’aeroporto di Heathrow al centro federale di Bisley nel Surrey, misure di sicurezza da allarme rosso anche durante le gare con il pubblico separato dal campo di gara da vetri blindati e soldati armati.

Scelta Londra come sede delle Olimpiadi del 2012, il Comitato Organizzatore si è trovato di fronte, dopo 8 anni, allo stesso problema mentre da parte loro gli atleti britannici hanno iniziato a fare pressione per poter combattere ad armi pari. Solo da alcuni mesi i tiratori inglesi, tra i quali Georgina Geikie, una potenziale medagliata all’appuntamento a cinque cerchi, possono detenere la loro arma in patria mentre è ancora molto limitato l’accesso ai poligoni. Per l’evento olimpico, inoltre, è stato scelto un impianto privo di ogni fascino per le tre prove ancora fuorilegge (e per tutte le gare di Tiro a Volo e a Segno): si tratta delle Royal Artillery Barracks (la sede dei reparti di Artiglieria) di Woolwich alla periferia di Londra , ancora operative come caserme ed al cui interno sarà montata una struttura temporanea.

QUALCHE NOVITA’ NEL PROGRAMMA DI LONDRA 2012

A 560 giorni dalla Cerimonia di Apertura delle Olimpiadi di Londra 2012, una prima occhiata ai cambiamenti apportati al programma olimpico.

Le immagini del trionfo della Corea del Sud, dopo la vittoria su Cuba nella finale dei Giochi Olimpici di Pechino 2008, rimarranno a lungo le ultime immagini olimpiche relative ad un torneo di Baseball, disciplina che ha vissuto in campo olimpico una vita travagliata inanellando più presenze come sport dimostrativo (7 sin dal 1912) che come sport ufficiale quale è stato solo in cinque edizioni da Barcellona 1992 a Pechino 2008. La decisione presa dal CIO nel luglio 2005 di escludere dal programma olimpico, anche se non dalla lista degli sport olimpici, Baseball e Softball ha di fatto ridotto a 26 gli sport presenti tra un anno e mezzo a Londra. Solo nel mese di ottobre 2009, e quindi con una tempificazione che non permetteva il loro inserimento nel 2012 ma solo a partire da Rio 2016, è stato deciso di riportare a 28 gli sport nel programma olimpico inserendo Golf e Rugby a sette.

Detto di Baseball e Softball, la grande novità della prossima edizione dei Giochi Estivi sarà rappresentata dall’introduzione del Pugilato Femminile: 40 pugili parteciperanno, suddivise in cinque categorie, alla corsa alle prime medaglie della storia in questa disciplina che peraltro mise in scena un incontro dimostrativo nel lontano 2004 per poi diventare fuorilegge ed essere codificata internazionalmente solo una decina di anni fa.

Alcune discipline come il Ciclismo su Pista e la Canoa Velocità hanno, inoltre, visto le proposte di rivoluzione del loro programma olimpico accettate da parte del CIO. Con una decisione discutibile, sotto la spinta di alcune Federazioni forti come quella britannica e strumentalizzando un presunto riequilibrio tra prove al maschile e prove al femminile, spariscono dal programma prove tradizionali come l’Inseguimento, la gara a Punti e la Madison per fare spazio a tre nuove gare al femminile (Velocità a squadre, Inseguimento a squadre e Keirin) e ad una prova a punti, l’Omnium, la cui struttura e la cui capacità di richiamare l’attenzione del pubblico sono ancora tutte da verificare. Anche nella Canoa Velocità cambia il rapporto tra gare maschili e gare femminili: se a Pechino erano stati assegnati nove titoli al maschile e solo tre al femminile, a Londra il divario diminuirà (8-4). Si è arrivati a questi risultati cancellando tutte le prove maschili sui 500 metri e rimpiazzandole con prove sprint sui 200 metri (con l’eccezione del C2 che scompare sulla breve distanza. In campo maschile sarà quindi necessaria una maggiore specializzazione e le prime tendenze si sono già viste agli ultimi Campionati Mondiali dove vi sono stati vogatori concentrati sui 1000 metri e altri concentrati sulla distanza sprint essendo quasi impossibile condurre una preparazione adeguata su entrambe le distanze. In campo femminile, al contrario, rimangono le tre prove sui 500 metri (K1, K2 e K4) alle quali si aggiunge il K1 200 metri.

Un’ultima variazione al programma rispetto all’ultima edizione, seppure ormai codificata, si verificherà sulle pedane della Scherma: dopo aver consentito fino al 2000 l’assegnazione di 5 titoli a squadre, con l’ingresso nel programma olimpico dal 2004 della Sciabola femminile, il CIO ha contingentato a 4 i titoli a squadre assegnati in ogni edizione costringendo la Federazione Internazionale ad applicare il criterio della rotazione. Se a Pechino non si era gareggiato a squadre nel Fioretto maschile e nella Spada femminile, a Londra salteranno un turno la Spada maschile e di Sciabola femminile.