“MIRACLE ON ICE”: VENDESI MEDAGLIA

Miracle on IceDopo la notizia della settimana scorsa sulla messa all’asta della medaglia d’oro al mondiale 1966 di calcio, da parte del sessantottenne ex centrocampista inglese Bobby Stiles, alle prese con le ristrettezze della crisi economica globale di questi anni, un altro trofeo dello sport è stato venduto dal suo legittimo proprietario.

Infatti, una delle venti medaglie d’oro della squadra di hockey su ghiaccio statunitense, vittoriosa alle olimpiadi di Lake Placid 1980, nonché icona della propaganda della guerra fredda e ispiratrice nel 2004 del film “Miracle on Ice”, secondo quanto riferito oggi dal quotidiano del Massachussets, Boston Herald, è già passata nelle mani dei collezionisti di cimeli sportivi.

Si tratta della medaglia appartenuta a Mark Wells, cinquantatreenne ex attaccante di quella nazionale USA composta da soli studenti dei college, che contro ogni pronostico sconfisse l’Unione Sovietica nel memorabile incontro (particolarmente memorabile per gli americani) del 22 febbraio 1980.

Mark Wells, che dopo avere abbandonato nel 1982 la sua breve carriera sportiva, si era dato alla gastronomia, aprendo un ristorante nel Michigan, ha rivelato ai giornalisti di averla venduta qualche anno fa, mentre stava passando un momento particolarmente drammatico della propria vita, e si trovava costretto a letto da una rara malattia genetica alla spina dorsale.

La sua medaglia è attualmente l’unica di quella ventina ad essere finita nella bacheca di un collezionista; e gli altri componenti di quella squadra, intervistati sull’argomento, hanno dichiarato di non avere alcuna intenzione di sbarazzarsi delle loro, nonostante queste siano stimate di un valore pari a più di 100mila euro. Parlando del caso del loro compagno, si sono comunque dimostrati comprensivi, soprattutto ricordando le terribili difficoltà che stava attraversando in quel periodo.

Oggi la malattia di Mark Wells è molto migliorata, tanto che quest’inverno l’ex hockeista ha potuto  prendere parte a una nostalgica partita insieme alle altre vecchie glorie, in occasione del trentesimo anniversario della vittoria di Lake Placid. E in barba al parere contrario del suo medico, è sceso in pista a giocare per un tempo intero, riuscendo a mettere a segno anche un punto.

Giuseppe Ottomano

IERI & OGGI: LA SCONFITTA DI MONACO ’72 È ANCORA INDIGESTA PER GLI USA

Proprio oggi la controversa finale di basket delle olimpiadi di Monaco 1972 tra Stati Uniti e Unione Sovietica compie i suoi 38 anni.

Si era trattato di una sorta di Miracle on ice a parti rovesciate, in cui il gigante, questa volta americano, era stato sconfitto quasi all’ultimo secondo e sul filo di lana da un piccolo Davide travestito da cosacco. Inutile dire che, diversamente dalla finale di hockey su ghiaccio di Lake Placid ’80, ad Hollywood si sono sempre guardati bene dal produrre una fiction su questo autentico Miracle on parquet.

Riassumendo brevemente i fatti, quel 9 settembre 1972, al mostruoso orario d’inizio delle 23.45 (dal lato del loro fuso orario, i munifici network televisivi americani avevano reclamato e ottenuto la diretta in prima serata) a Monaco di Baviera si erano affrontate per la finale di basket USA e URSS, le due superpotenze nella geopolitica dell’epoca.

Fin dalle olimpiadi di Berlino ’36 la medaglia d’oro nel basket era sempre stata conquistata dalla nazionale statunitense, nonostante questa presentasse rappresentative universitarie, dal momento che i grandi professionisti della NBA erano ancora banditi dalle competizioni olimpiche.

Ad appena tre secondi dalla fine del match, il gigante USA conduceva con un punto di vantaggio, 50-49. Ma, al termine di una rocambolesca serie di confusioni arbitrali sul residuo tempo da giocare, un lunghissimo passaggio perfetto era volato dal limite del campo sovietico fino a sotto il canestro statunitense, dove il ventenne Alexander Belov aveva realizzato quei due punti necessari a capovolgere il punteggio.

Era il 1972, nel pieno della guerra fredda, e la supremazia dei cestisti americani era stata stroncata; e per ironia della sorte, proprio all’ultimo istante e con un coup de theatre, dagli eterni cattivissimi della celluloide hollywoodiana. Le polemiche non erano mancate, e per anni gli statunitensi hanno masticato bile per quei tre secondi in più, che a loro parere, l’arbitro brasiliano Renato Righetto, non avrebbe dovuto concedere.

Proprio oggi a Istanbul si è giocata la semifinale dei campionati mondiali tra gli Stati Uniti e la Russia. E nonostante la Russia non sia altro che un’erede della fu-Unione Sovietica e viviamo in un presente ormai del tutto deideologizzato, l’antica acredine non è stata ancora del tutto sopita. Così, alla vigilia dell’incontro, l’allenatore della nazionale americana Mike Krzyzewski, scandalizzato da una precedente dichiarazione del suo omologo nella nazionale russa, David Blatt (altra ironia della sorte, Blatt ha un doppio passaporto: americano ed israeliano), che aveva osato definire corretto lo svolgimento di quella contestata finale di trentotto anni fa, è andato su tutte le furie.

È ovvio che David Blatt abbia detto questo: lui è un russo” è stato il suo velenoso commento.

Anche Jack McCallum, l’inviato della rivista statunitense Sports Illustrated, non ha dimostrato meno acredine di Krzyzewski, e ha rilanciato la teoria del complotto internazionale, rimarcando che il doveroso, secondo lui, ricorso degli USA per invalidare quell’ultimo canestro di Belov, era stato respinto per 3-2 dalla FIBA proprio grazie ai tre voti dei rappresentanti dei paesi comunisti.

Già, anche i paesi comunisti si erano messi di mezzo trentotto anni esatti fa. E senza quel maledetto canestro del povero Belov, che perse la vita solo sei anni dopo per un male incurabile, magari negli studios si sarebbe potuto ricamarci sopra un altro bel film a lieto fine.

Giuseppe Ottomano

MORTO ANTON GEESINK, PRIMO JUDOKA A SCONFIGGERE I GIAPPONESI

Anton GeesinkIl 27 agosto è morto in un ospedale di Utrecht, la stessa città dove era nato nel 1934, Anton Geesink, il gigantesco judoka olandese (2 metri per 115 chili), vincitore della medaglia d’oro nella categoria open (senza distinzioni di peso) alle olimpiadi di Tokyo nel 1964.

Fu proprio alle Olimpiadi di Tokyo che il judo venne sdoganato per la prima volta come disciplina olimpica, e secondo tutti i pronostici, i maestri giapponesi avrebbero dovuto conquistare tutte e quattro le medaglie in palio; ma Anton Geesink arrivò a rovinare la festa che i 15mila spettatori dell’arena del Nippon Budokan (quella che nel 1966 avrebbe ospitato la tournée dei Beatles) stavano già preparando. Infatti, dopo appena nove minuti di gara l’olandese riuscì sorprendentemente a stendere al tappeto per tutti i 30 secondi previsti dal regolamento il beniamino di casa Akio Kaminaga, facendo calare un silenzio glaciale tra il pubblico di casa.

Comunque, già alla finale dei campionati mondiali di Parigi del 1961, Geesink si era rivelato come il primo judoka capace di sconfiggere un campione giapponese. In questo caso la vittima predestinata era stata il detentore del titolo precedente, quello di Tokyo 1958: il trentatreenne Koji Sone.
Anton Geesink, per la precisione Antonius Johannes, si era affacciato al judo a 14 anni, e dopo appena due anni, nel 1950, aveva conquistato il titolo olandese, finché la passione per questo sport e una metodica volontà di perfezionamento lo avevano spinto fino in Giappone, dove avrebbe incontrato i migliori istruttori sulla piazza mondiale.

La trasferta nel paese del sol levante si era rivelata proficua, e nel 1952 era arrivato a conquistare il suo primo titolo europeo. Sarebbe stato solo il primo anello di una collana di trionfi di livello internazionale davvero formidabile: 21 titoli europei, due mondiali ed uno olimpico. Dotato di un appetito ancora più formidabile, tanto da fargli divorare a pranzo un pollo fritto e mezzo, innaffiato da una cassetta di birre in lattina, come avrebbe poi ricordato il suo collega statunitense e medaglia di bronzo a Tokyo ’64, Jim Bregman, in Olanda era considerato un eroe nazionale. Nella sua Utrecht gli erano stati dedicati una strada e un monumento, e la regina Beatrice gli aveva conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine di Orange-Nassau per meriti sportivi.

Dopo essersi ritirato dalle competizioni ufficiali nel 1967, si dedicò al wrestling professionistico, che praticò soprattutto in Giappone, per ritornare poi al judo negli anni ’80, prima come istruttore e poi come dirigente sportivo. E in quest’ultima veste, dal 1987 rivestì ininterrottamente la carica di membro del Comitato Olimpico Internazionale (CIO).

Giuseppe Ottomano

IERI & OGGI: GLI EROI DI BARCELLONA 1992

PallanuotoNel suo (emozionante) libro intitolato “Todos mis hermanos”, Manuel Estiarte dedica il primo capitolo a quella che, senza ombra di dubbio, è stata finora la più emozionante finale di una competizione di pallanuoto: quella dei Giochi olimpici di Barcellona. L’ex giocatore spagnolo, oggi insignito di un’importante carica all’interno del Barcellona, la definisce “El partido perfecto”, la partita perfetta. Non era una partita qualsiasi, quella che andò in scena il 9 agosto del 1992 alla piscina Bernart Picornell proprio il giorno della chiusura della manifestazione. Non poteva esserlo per Estiarte e per tutti i compagni di squadra catalani come lui: giocare di fronte al re Juan Carlos e al principe Felipe, ma soprattutto davanti ai loro padri, alle loro madri, a mogli, fidanzate e figli. Davanti alla loro gente. Un’occasione irripetibile.

Da pochi anni la Spagna è una nazionale emergente: un anno prima si è laureata vicecampione europea e mondiale, sconfitta in entrambe le occasioni – e con un solo gol di distacco – dalla Jugoslavia e adesso, per la prima volta, arriva a disputare una finale olimpica. Il leader è Manel Estiarte, catalano di Manresa che in Italia ha indossato le calottine di Pescara e Savona. Dall’altra parte c’è proprio l’Italia. Due paesi mediterranei le cui nazionali di pallanuoto sono guidate da allenatori balcanici: sia il croato Dragan Matutinović, coach degli iberici, sia il serbo Ratko Rudić, a caccia del terzo oro olimpico consecutivo, impongono ai loro giocatori allenamenti durissimi, al limite della sopportazione, tra corse in montagna, sollevamento pesi e nuotate con una maglietta addosso. Ma tanta fatica viene ricompensata dai risultati ottenuti sul campo, anzi, in acqua.

Il giorno della finale vi sono diciottomila persone sugli spalti: Estiarte ricostruisce nel suo libro gli attimi che precedono l’inizio della sfida. Nel tunnel che accompagna le squadre dalla piscina del riscaldamento a quella della partita regna il silenzio: si può udire solo il rumore delle ciabatte che sbattono sul pavimento con la cadenza delle lancette di un orologio. Consueta stretta di mano tra i due capitani, promesse di rito di non giocare sporco, esecuzione degli inni nazionali. Che la finale abbia inizio.

Entrambe le squadre non hanno lasciato niente di intentato, curando meticolosamente ogni singolo dettaglia. L’Italia, complice forse la tensione che gioca un brutto scherzo agli spagnoli, parte davvero forte e passa in vantaggio: Fiorillo serve a centroboa Ferretti che si libera della marcatura dell’avversario e, di sinistro, infila il pallone tra le braccia di Rollán. Chiuso in vantaggio il primo parziale, gli azzurri raddoppiano con Caldarella che trova un pertugio sul primo palo: Estiarte, su situazione di superiorità numeriche, dimezza lo svantaggio. Ma l’Italia sembra avere una marcia in più: prima Campagna segna dalla distanza con una conclusione che non lascia scampo a Rollán, poi Ferretti riceve palla a boa e, spalle alla porta, attende l’uscita del portiere spagnolo per beffarlo con una superba palombella. La difesa non concede spazi: Rudić fa giocare i suoi alla “jugoslava”, riproponendo una zona che ai Giochi di Los Angeles e Seul aveva portato i suoi frutti. La tattica intimorisce gli spagnoli, che arrivano al tiro con la paura di veder fuggire gli avversari in contropiede in caso di errore.

4-1 perl’Italia nel secondo parziale: altro che sogno olimpico, la finale in casa assume le sembianze di un incubo per la Spagna. Salvador “Chava” Gómez, centroboa degli iberici, segna poco prima dell’intervallo lungo.

Il terzo tempo si apre con una nuova rete dei padroni di casa: Pedro García conferma le sue qualità di cecchino infallibile e realizza il 3-4 con una fucilata. Il rigore di Campagna e la seconda marcatura personale di Caldarella, tuttavia, riportano a tre i gol di distacco tra Spagna ed Italia. Il pubblico, ed anche la coppia arbitrale composta dall’olandese van Dorp e dal cubano Martínez, spinge gli spagnoli verso una nuova rimonta: García è scatenato dalla linea dei 4 metri, segna ancora con una conclusione imparabile e poi, proprio a pochi secondi dal termine del tempo, supera Attolico in uscita da distanza ravvicinata. Adesso è l’Italia a doversi guardare dal sussulto d’orgoglio di Estiarte e compagni. Ferretti in superiorità numerica sigla il 7-5, ma la Spagna non si dà per sconfitta: Estiarte, che nel frattempo ha fallito un rigore, gonfia la rete dopo una serie ripetuta di finte ed infine Oca sorprende Attolico sul primo palo, regalando ai compagni l’agognato pareggio e prolungando così la sfida ai tempi supplementari.

Il regolamento prevede due mini-tempi da tre minuti ciascuno. Italiani e spagnoli non vanno per il sottile, in acqua è pallanuoto vera e non c’è spazio per i complimenti: ne farà le spese Fiorillo, espulso per aver rifilato un pugno ad Estiarte che sarà costretto a proseguire con una ferita al sopracciglio. Dopo lo 0-0 del primo supplementare, la partita sembra andare incontro ad una svolta nei 42 secondi finali del successivo: la Spagna guadagna un nuovo rigore e dai quattro metri si presenta ancora il capitano. Che decide di tirare dove non ha mai lanciato il pallone in tutta la sua carriera: in alto, a sinistra. Rete. Per la prima volta, gli iberici passano in vantaggio. Quarantadue secondi li separano da un oro olimpico che la nazionale mai ha conquistato. Scrive Estiarte: “Lo tirai male, però effettivamente colsi il portiere totalmente alla sprovvista”.

Sotto di un gol, a meno di un minuto dalla fine. Di fronte ad un pubblico per la quasi totalità “ostile”. Senza i favori della coppia arbitrale. L’Italia potrebbe sfaldarsi, adesso. Palla al centro, azione di attacco. Matutinović non ha dubbi e ordina ai suoi di giocare a pressing. Come racconta nel suo libro, Estiarte ha un presentimento: ma quale pressing, in porta abbiamo Jesús, il miglior portiere al mondo. Meglio passare a zona ed annullare così gli uomini più pericolosi come Campagna e Ferretti, pensa tra sé. Vorrebbe contraddirlo davanti a tutti, ma le gerarchie sono gerarchie e urla ai compagni di difendere a pressing. Bovo serve a centroboa un pallone alto che Ferretti gira in rete sul primo palo. Tutto questo avviene quando mancano venti secondi. Niente da fare: si va avanti. Trascorrono altri tre tempi supplementari senza reti: intanto proseguono le scintille tra i giocatori e, adesso, persino tra gli allenatori. Nessuna delle due vuol perdere, nessuna tra Italia e Spagna merita la sconfitta. Sesto tempo supplementare, manca meno di un minuto: D’Altrui porta avanti il pallone sulla destra e serve Ferretti, in posizione centrale. Il centroboa subisce fallo e, con la coda dell’occhio, vede Gandolfi smarcato sulla sinistra: Rollán esce e prova a chiudergli lo specchio, il giocatore azzurro fa passare il pallone sotto le sue braccia, nell’angolo in basso. Gol. 9-8 per l’Italia. Gandolfi esulta come se fosse un cowboy che agita un lazo nell’aria: è quello immaginario con cui l’Italia sta per accalappiare la medaglia d’oro. Mancano trentadue secondi. La Spagna ha un’ultima occasione: gli azzurri pressano incessantemente, più che una partita di pallanuoto sembra di assistere a sei finali simultanee di lotta greco-romana. Quattro secondi al termine: Estiarte subisce fallo, batte e serve Oca che tira di prima intenzione. La palla colpisce la traversa e poi ritorna sull’acqua, al di qua della linea di porta. Traversa e acqua. Non è gol. Dopo una battaglia di 46 minuti effettivi di gioco, l’Italia esulta: dopo Londra 1948 e Roma 1960, è di nuovo oro olimpico. Rudić abbraccia i suoi atleti e se la ride sotto i baffi: è appena entrato nella leggenda conquistando il terzo oro olimpico consecutivo come allenatore. Una foto, pubblicata il giorno successivo su “Mundo deportivo”, immortala Estiarte che, appoggiato ad una panchina, si copre il volto con la mano: è l’emblema del sogno spagnolo brutalmente spezzato.

Passano quattro anni e, ad Atlanta, la Spagna riesce finalmente a spezzare l’incantesimo e a vincere la medaglia d’oro. Ma resterà il rimpianto di non essere riusciti a compiere l’impresa a Barcellona, nella propria casa, davanti alle rispettive famiglie. Quel giorno doveva essere un trionfo per tutta una nazione. E invece l’Italia fece piangere il re.

9 agosto 1992

SPAGNA-ITALIA 8-9 (0-1, 2-3, 3-2, 2-1; 0-0, 1-1, 0-0, 0-0, 0-0, 0-1)

Piscina Bernart Picornell, Barcellona

SPAGNA: Rollán, Estiarte 3, Ballart, Sans, Gómez 1, Oca 1, García 3; Pedrerol, González, Michavila, Pico, Sánchez, Silvestre. All. Matutinović.

ITALIA: Attolico, Bovo, Campagna 2, Fiorillo, Francesco Porzio, Ferretti 4, Silipo; D’Altrui, Giuseppe Porzio, Caldarella 2, Pomilio, Gandolfi 1, Averaimo. All. Rudić.

ARBITRI: van Dorp (Olanda) e Martínez (Cuba).

Simone Pierotti

IERI & OGGI: MENNEA E’ CAMPIONE OLIMPICO

Pietro MenneaNascono sotto una cattiva stella le Olimpiadi del 1980 assegnate alla capitale sovietica Mosca: nel giorno della vigilia di Natale del 1979, l’armata sovietica aveva invaso l’Afghanistan con 50.000 soldati e 2.000 carri armati provocando una serie di ritorsioni da parte del blocco occidentale che arrivarono fino al blocco delle vendite del grano da parte degli Stati Uniti e al boicottaggio dei giochi olimpici. Nei paesi appartenenti alla NATO la decisione in merito alle Olimpiadi è particolarmente sofferta: Stati Uniti, Germania Ovest, Canada e Giappone decidono di non inviare atleti mentre in Italia si apre il dibattito. Il governo invita ufficialmente il CONI ad aderire al boicottaggio, il CONI decide di partecipare in ogni caso e si arriva al pasticcio all’italiana di una squadra dove gli atleti appartenenti ai corpi militari non ricevono il permesso di partecipare e la delegazione azzurra non viene autorizzata ad utilizzare la bandiera tricolore.

Il clima è di incertezza fino alle ultime ore prima della cerimonia di apertura e sicuramente non giova agli atleti. Tra questi vi è un Pietro Mennea ormai in piena maturità sportiva: il ventottenne barlettano è alla sua terza Olimpiade dopo la medaglia di Bronzo conquistata nei 200 metri a Monaco nel 1972 e il quarto posto di Montreal nel 1976. Alle Universiadi di Città del Messico dell’anno precedente ha stabilito il primato mondiale in 19″72 superando il record che Tommie Smith aveva stabilito sempre in Messico nel 1968.

Mennea è una corda di violino e l’incertezza preolimpica lo frena nei 100 metri dove non raggiunge la finale che sarà vinta dallo scozzese Alan Wells ma si riprende nei turni preliminari dei 200 metri. Passeggia in batteria imponendosi in 21″26, nei quarti di finale si impegna lo stretto necessario per vincere ancora in 20″60, un tempo di solo un centesimo di secondo superiore a quello fatto segnare da Wells nella batteria precedente.

Nelle semifinali, poche ore prima dell’attesa finale, i due si risparmiano: Wells si qualifica con in quarto posto in 20″76, il barlettano vince la sua batteria in 20″70 davanti al giamaicano Donald Quarrie. E si arriva alla sera del 28 luglio mentre la tensione cresce..

Poco dopo le otto di sera del 28 Luglio 1980, con una temperatura di 23°, l’umidità del 56%, il vento zero, mi presentai alla finale dei 200 metri I miei rivali erano i cubani Silvio Leonard e Osvaldo Lara, i polacchi Woronin e Dunecki, il tedesco orientale Hoff, il giamaicano Quarrie e il britannico Wells. A me toccò l’ottava corsia cioè l’ultima, a Wells la settima…”

Pietro Mennea, L’Oro di Mosca

Allo sparo, Wells parte per annullare al più presto il decalage mentre Mennea, come d’abitudine, parte più accorto per poi distendersi nella seconda parte di gara. All’ingresso nel rettilineo i giochi sembrano fatti con lo scozzese  in vantaggio di 2-3 metri che sembra distendersi meglio fino ai 50 metri e poi… “.recupera .recupera .recupera .recupera .recupera ha vinto! ha vinto! ha vinto! Pietro Mennea ha compiuto un’impresa straordinaria”. E’ la voce del compianto Paolo Rosi che segna per sempre il momento.

Mennea è incontenibile: parte dito al cielo e compie un giro, inseguito dagli addetti al protocollo e alla sicurezza.


Massimo Brignolo