OSAMA BIN GUNNERS

Annunciata la notizia dell’uccisione del terrorista islamico Osāma bin Lāden, appassionato di calcio e tifoso dell’Arsenal.

Tutti lo conoscono come il leader di Al-Qāʿida, organizzazione terroristica responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Meno nutrita  è la schiera di coloro che sono a conoscenza del fatto che, all’epoca dell’invasione sovietica in Afghanistan, era attivo tra i mujāhidīn che beneficiarono di finanziamenti, in termini di denaro e di armi, da parte della CIA (ma Washington ha sempre smentito di averlo direttamente foraggiato). E non tutti sanno del suo tifo per l’Arsenal di Londra, tanto più che i sostenitori dei Gunners gli dedicarono un coro poco dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Nella notte è stata diffusa una notizia non proprio di poco conto: forze statunitensi hanno (avrebbero?) ucciso Osāma bin Lāden, il numero uno sulla lista dei nemici di Washington, nel suo rifugio di Abbottabad, in Pakistan.

L’incontro tra bin Lāden ed il calcio avviene in tenera età. Anzi: è, curiosamente, il pallone ad avvicinarlo al fondamentalismo islamico. Succede a Gedda, in Arabia Saudita, dove un professore siriano invita il quattordicenne Osama ed altri suoi coetanei a fermarsi a scuola nel pomeriggio, promettendo loro di farli giocare a calcio. Ma era tutta una scusa per avvicinarli all’Islam, nella sua variante più dura e violenta. Passano gli anni, bin Lāden diventa uno dei capi della neonata organizzazione terroristica Al-Qāʿida e arriva persino a ripudiare il suo paese natale, l’Arabia Saudita. Non il calcio, però.

Agli inizi del 1994 il futuro artefice degli attentati dell’11 settembre si reca a Londra, dove trascorre tre mesi: è un viaggio per reperire fondi per la sua attività terroristica.  Per affari, dunque. Ma anche per diletto. Nel corso del soggiorno nella capitale britannica, Osama si dedica infatti alla sua passione infantile: il calcio. E va a vedere alcune partite dell’Arsenal, la squadra per cui tifano anche la Regina Elisabetta e lo scrittore Nick Hornby: in particolare risulta che abbia seguito, direttamente dagli spalti della mitica tribunetta Clock End, quattro incontri di coppe europee. Quell’anno l’Arsenal alzò al cielo la Coppa delle Coppe, sconfiggendo al “Parken” di Copenhagen il Parma campione in carica grazie ad un gol di Alan Smith. Non è tutto: a quanto pare, bin Lāden andò anche in un negozio del club e acquistò una replica della mitica maglietta da gioco, rossa con maniche bianche, per uno dei suoi figli. Tra gli altri regali sarebbero figurati persino una confezione di doccia gel con l’inconfondibile logo con il cannone ed un piumone da letto con l’immagine di Nigel Winterburn, uno degli idoli di Highbury di quegli anni.

La fede Gunner del terrorista islamico, rimasto particolarmente stupito dal fanatismo degli inglesi per il calcio, rimase tuttavia sconosciuta fino a quando, con gli attentati dell’11 settembre, il mondo intero non fece la sua conoscenza. Una volta che si sparse la voce che il nemico numero degli americani era un tifoso dell’Arsenal, dagli spalti di Highbury iniziò a levarsi un coro tutto per lui:

“He’s hiding near Kabul

He loves the Arsenal

Osama

ohohohoh”.

Si scoprì, tempo dopo, che bin Lāden avrebbe partecipato ad un’operazione – poi fallita – volta a colpire al cuore le nazionali di calcio di Stati Uniti ed Inghilterra al Mondiale di Francia 98. Sarebbe questo, infatti, il motivo per cui si ricorse al piano B, ovvero l’esplosione di alcune bombe alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nell’agosto dello stesso anno.

C’è, poi, un curioso aneddoto. Nel dicembre 2001 il Dipartimento della difesa USA mostrò una videocassetta, contenente un messaggio registrato del leader di Al-Qāʿida: nel filmato si parla di un seguace dell’organizzazione che raccontò a Osama di un sogno fatto l’anno prima. “Ho visto che giocavamo a calcio contro gli americani. Quando la nostra squadra arrivava in campo, erano tutti piloti. E vincevamo noi”. Che adesso gli USA siano pervenuti al momentaneo pareggio?

LA PRIMA GUERRA DELLA PALLANUOTO

Gli innumerevoli conflitti nei Balcani vissuti attraverso uno degli sport più popolari della regione: la pallanuoto.

Quando, nel 1926, si svolsero a Budapest i primi campionati europei riservati agli sport acquatici, la Jugoslavia era un’unica entità nazionale: all’epoca si chiamava Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni ed inglobava anche gli attuali territori di Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia e Montenegro. Di lì a tre anni sarebbe diventato, più semplicemente, Regno di Jugoslavia. La prima medaglia della nazionale di pallanuoto, tuttavia, arriva solamente nel 1950 ed è un bronzo: nel frattempo è nuovamente cambiata la situazione sul piano geopolitico. Pochi mesi dopo la conclusione della seconda Guerra Mondiale, infatti, era stata proclamata la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, anche se la transizione dalla monarchia alla nuova forma di governo era già avvenuta negli anni precedenti.

Una volta conquistato il bronzo a Vienna – strano scherzo del destino, giacché parte dei territori jugoslavi erano stati, un tempo, sotto il dominio dell’impero austro-ungarico -, la nazionale di pallanuoto siede fin da subito al tavolo delle grandi del Vecchio Continente: il settebello slavo salirà sul podio per ben otto edizioni consecutive, portando a casa quattro medaglie d’argento. Quasi sempre la squadra deve cedere il passo alle altre due potenze pallanotistiche d’Oltrecortina, Ungheria ed Unione Sovietica, ma si vede che manca poco per compiere il salto definitivo.

I primi successi. Negli anni Ottanta, quando iniziano i primi fermenti nazionalisti in seguito alla morte del maresciallo Tito, la Jugoslavia raggiunge finalmente l’apice sotto la guida del santone Ratko Rudić (nella foto a destra): ben due ori olimpici (1984 e 1988, entrambi conquistati ai danni degli Stati Uniti) ed il primo trionfo mondiale, nel 1986 a Madrid con una vittoria all’ultimo secondo sull’Italia. Ed è proprio sulla panchina del Settebello che andrà Rudić, lasciando spazio a Nikola Stamenić. Il nuovo allenatore si guadagna subito la stima dei vertici federali, vincendo nel gennaio 1991 i Mondiali a Perth: in finale la Jugoslavia supera di misura (9-8) la nascente Spagna dei vari Estiarte, Rollán e Sans. La forza della nazionale si basa tutta su due blocchi, quello serbo e quello croato, con il montenegrino Mirko Vičević, protagonista in Italia con la calottina del Savona, come unica eccezione.

Ma, proprio quando sembra che la nazionale balcanica non abbia avversari in grado di contrastarla, ecco piovere dal cielo una nuova tegola: la vittoria, avvenuta l’anno precedente, dei partiti anticomunisti di Jože Pučnik in Slovenia e, soprattutto, di Franjo Tuđman in Croazia. Iniziano le prime rivendicazioni di indipendenza, la situazione precipita e nell’estate del 1991 le autorità sportive croata e slovena proibiscono ai loro atleti di partecipare alle varie competizioni con la selezione jugoslava. Di lì a pochi giorni si aprono gli Europei ad Atene e la squadra di Stamenić, fresca vincitrice del Mondiale, deve rinunciare a cinque pezzi pregiati come Mislav Bezmalinović, Perica Bukić (oggi presidente della federpallanuoto croata), Ranko Posinković, Dubravko Šimenc e persino Ante Vasović, padre serbo e madre croata, appiedato dal suo club, lo Jadran Spalato. I sostituti, comunque, si rivelano all’altezza della situazione e la Jugoslavia sale per la prima volta sul tetto d’Europa: pochi mesi dopo Perth, in finale è nuovamente duello con la Spagna, battuta ancora una volta sul filo di lana (11-10). Croazia e Slovenia si separano. È, comunque, il canto del cigno della nazionale della Jugoslavia unita, giacché l’anno successivo nessuna delle selezioni balcaniche figurerà tra le partecipanti ai Giochi olimpici di Barcellona dove, peraltro, arrivano in finale due allenatori croati: da una parte Ratko Rudić sulla panchina dell’Italia, dall’altra Dragan Matutinović su quella della Spagna. Nel frattempo scoppia la guerra nei Balcani e Bosnia, Croazia, Macedonia e Slovenia ottengono l’agognata indipendenza: la vecchia Jugoslavia di Tito si sgretola, dalla bandiera viene rimossa la celebre stella rossa e a rappresentare la vecchia repubblica federale restano solo Serbia, Montenegro e Kosovo. La nuova nazionale, che rimane sotto la guida di Stamenić, soffre il definitivo addio della componente croata ed impiega qualche anno per rimettere al proprio posto i suoi pezzi: nel 1997, agli Europei di Siviglia, deve accontentarsi dell’argento e l’anno successivo finisce terza ai Mondiali di Perth. Inizia il nuovo millennio e, a dieci anni esatti dal primo trionfo continentale, la Jugoslavia torna nuovamente a dettar legge: chiusa la lunga era di Stamenić, è Nenad Manojlović il nuovo selezionatore. A Budapest serbi e montenegrini battono in finale l’Italia del nuovo corso di Sandro Campagna, che ha preso il posto di Rudic: l’argento in terra magiara rimane, tuttora, l’ultimo podio del Settebello agli Europei.

La battaglia di Kranj. Sebbene gli anni Novanta siano stati quelli che hanno deciso in via definitiva le sorti dei Balcani, è nella successiva decade che sport e politica incrociano maggiormente le loro strade. Lo scenario “perfetto” è quello disegnato dagli Europei del 2003: si gioca a Kranj, in Slovenia, ed in finale arrivano la Croazia e la neonata Serbia-Montenegro (che però sulle calottine riporta ancora la sigla YUG). In acqua ed in tribuna non mancano le scintille: una finale è pur sempre una finale e si affrontano due paesi separati un tempo da un odio reciproco. Alcuni tifosi croati forzano gli ingressi ed entrano senza pagare regolarmente il biglietto La Croazia conduce per lungo tempo l’incontro e arriva fino al 7-4, ma dall’altra parte c’è un avversario indomito che riesce a prolungare la sfida ai tempi supplementari, intervallati dalle medicazioni all’arbitro slovacco Kratovchil, colpito alla testa da un bullone: nella prima delle due proroghe il serbo Šapić segna il gol del definitivo 9-8. Sugli spalti si scatena l’inferno, complice un servizio di sicurezza inadeguato per la circostanza (appena quaranta gli agenti impiegati per controllare quasi tremila persone): gli uligani croati, molti dei quali ubriachi, sradicano i seggiolini e li lanciano con veemenza in acqua e verso le panchine. Un altro gruppo si avvicina alla zona delle tv e danneggia impianti e materiali, interrompendo per alcuni minuti il collegamento Rai. A rinfocolare gli animi ci pensano persino le autorità, con i ministri serbi Boris Tadić e Goran Svilanović che si danno alla pazza gioia: quest’ultimo addirittura si tuffa in acqua per festeggiare la squadra. Non è tutto: a Belgrado i tifosi scendono in strada per festeggiare ma, una volta viste le immagini in tv, si dirigono all’ambasciata croata. Vetri infranti, muri imbrattati, la bandiera a scacchi bianchi e rossi bruciata e sostituita con il tricolore serbo-montenegrino. Analoga situazione a Novi Sad, dove la folla inneggia addirittura ai criminali di guerra Mladić e Karadžić. Scoppia il caso diplomatico: Milan Simurdić, ambasciatore serbo in Croazia, viene convocato d’urgenza dal governo di Zagabria mentre il ministro degli Esteri Tonino Picula annulla una visita in Montenegro.

Dall’ex Jugoslavia alla Serbia. Passano tre anni: gli Europei si svolgono ancora nei Balcani, a Belgrado. Vince la Serbia padrona di casa, orfana però dei giocatori montenegrini: pochi mesi prima (21 maggio) un referendum aveva infatti sancito l’indipendenza del Montenegro, comunque riconosciuta dal governo serbo. Tuttavia, prima della scissione, sotto la bandiera delle due nazioni ancora unite la squadra aveva vinto la sua seconda World League, torneo che solitamente serve come banco di prova in vista degli eventi più importanti. E così la nazionale serba, ora allenata da Dejan Udovičić, passa alla storia per aver vinto quattro volte il titolo europeo con altrettante, diverse denominazioni. L’ultimo episodio degli intrecci tra sport e politica nei Balcani risale all’estate 2008, alla vigilia dei Giochi olimpici di Pechino: a Málaga arrivano in finale proprio Serbia e Montenegro, con vittoria, neanche poi sorprendente, di questi ultimi. La saga si è recentemente arricchita di un nuovo capitolo: a Zagabria indosserà la calottina montenegrina l’esperto portiere Denis Šefik, fino al 2008 in forza alla nazionale serba. La sua ultima apparizione risale ai Giochi di Pechino: qui si rese protagonista di un acceso diverbio (poi degenerato in rissa) all’interno del villaggio olimpico con Aleksandar Šapić, che accusò Šefik di essere stato corrotto proprio dai montenegrini in occasione della finale di Málaga. Le due nazionali non figurano nello stesso girone, ma chissà che il destino non decida di porle nuovamente una di fronte all’altra come nella recente finale di World League e, chissà, regalare altre storie da raccontare.

(Articolo pubblicato sul Numero 1 di Pianeta Sport)